«La Rassegna della letteratura italiana». Schede settecentesche (1953-1990)

In appendice ai volumi di Scritti settecenteschi (1938-1980), in questo quarto volume raccogliamo un’ampia scelta delle «schede» pubblicate da Binni nella rassegna bibliografica «Settecento» della rivista che ha diretto dal 1953 al 1992. Alcune «schede» erano state ripubblicate da Binni nella terza parte («Postille arcadiche») del volume L’Arcadia e il Metastasio cit.; le abbiamo lasciate in quella collocazione. Le schede alfieriane e goldoniane, pubblicate in appendice ai volumi 8-9 (Alfieri. Scritti 1938-1994) e 10 (Goldoni. Scritti 1952-1978) di questa edizione delle Opere complete, sono escluse da questo volume.

SCHEDE SETTECENTESCHE

Rinaldo Boldini, Gian Giacomo Bodmer e Pietro di Calepio. Incontro della «scuola svizzera» con il pensiero estetico italiano, Milano, Società Editrice «Vita e pensiero», 1953, pp. XIII-96.

L’autore (venuto agli studi di letteratura italiana da una larga esperienza della cultura svizzera, come ci informa nella presentazione del volume Mario Apollonio) si è proposto «di fissare storicamente l’incontro della scuola svizzera con le teorie italiane, nell’ambito limitato delle relazioni tra Bodmer e Calepio»: relazioni viste poi piú particolarmente nella corrispondenza dei due letterati settecenteschi e nel riferimento a quelle opere che con l’epistolario appaiono in diretta relazione. Entro questi limiti (e certo lo stesso esame puntuale avrebbe guadagnato in chiarezza e significato se piú decisamente inquadrato nel ricco quadro dell’estetica e del gusto arcadico nelle sue caratteristiche, nella sua interna dinamica e nelle sue offerte al pensiero del secondo Settecento) il volumetto del B. appare abbastanza interessante per la precisazione dei rapporti fra il letterato italiano e quello svizzero che del primo indubbiamente risentí notevoli stimoli utili alla maturazione del suo pensiero sul concetto di gusto e sulla natura della rappresentazione drammatica: tanto piú che il piú intenso scambio epistolare coincide proprio con il periodo che intercorre nell’attività del Bodmer fra il trattato Dell’immaginativa (1727) e quello Del meraviglioso e del verisimile (iniziato nel ’30, ma pubblicato solo nel ’40). Il primo capitolo delinea la storia esterna delle relazioni Bodmer-Calepio, continuate fino al ’61; un secondo riguarda la precisa discussione sul concetto di «gusto» e «buon gusto» in cui il Calepio correggerebbe il piú deciso intellettualismo dello svizzero con un maggiore senso del sentimento e con un certo avvicinamento all’intuizione del gusto come facoltà autonoma (ed è questo uno dei punti che ci sembrano piú sforzati e legati ad un’immagine troppo positiva del pensiero del conte bergamasco, ché comunque la valorizzazione dell’elemento sentimentale rimane anche in lui in una dosatura equilibrata con quello intellettuale e non corrisponde ad un vero tentativo di superamento dei compromessi piú comuni in Arcadia), mentre il terzo sviluppa il problema del «diletto» e della «purgazione» nella tragedia (posizione anche questa però nel Calepio soprattutto di «sano buon senso», e limitata da un moralismo assai accentuato e tuttavia, nel Paragone della poesia tragica d’Italia con quella di Francia e negli altri scritti del Calepio, assai interessante per la discussione settecentesca sulla tragedia), e il quarto in cui meglio l’autore riesce in concreto a vedere nel Calepio l’esponente, sia pur dotato di propria originalità, dell’estetica contemporanea e specialmente dalle posizioni del Muratori e precisa la discussione dei due letterati sul verisimile e il meraviglioso, sulla fantasia riproduttiva e creativa, in cui piú chiara appare l’efficacia delle posizioni raggiunte dagli estetici italiani sul Bodmer e sul pensiero estetico svizzero, mediatore (ma anche rielaboratore con stimoli diversi e non solo di pura estetica, ma di piú larga cultura poetica europea agli inizi del preromanticismo) di tali posizioni alla meditazione degli estetici tedeschi.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 4, ottobre-dicembre 1953.

Aldo Vallone, Dal «Caffè» al «Conciliatore». Storia delle idee, Lucca, Lucentia, 1953, pp. 102.

In questo volumetto il Vallone raccoglie sette studi collegati da una introduzione che riassume le posizioni di alcuni studiosi (Bertana, Natali, Croce, Flora, Binni) sul problema del preromanticismo, e precisa l’intenzione di un lavoro volto soprattutto a ricostruire la «storia delle idee» fra i due momenti rappresentati dal «Caffè» e dal «Conciliatore». In realtà l’intenzione annunciata non appare né molto chiara nella sua distinzione da altri studi che pure di «idee» si occuparono, né molto organicamente attuata in questa serie di brevi studi di diverso interesse ed impegno e comunque costruiti piú come raccolta di appunti e di osservazioni che non come saldi nuclei di uno svolgimento unitario. Sicché il volumetto appare piuttosto preparazione che conclusione di uno studio, condotto in questa sua fase con forti diseguaglianze e con una certa approssimatività percepibile anche nel linguaggio per lo piú poco fuso. Malgrado questi limiti ben evidenti il libro non manca di interesse, specie se considerato come offerta di osservazioni e di indicazioni spesso utilizzabili nella non facile storia dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento.

I tre capitoli piú lunghi e impegnativi sono quelli in cui maggiore è lo sforzo di sintesi, anche se son quelli in cui perciò stesso è piú visibile il difetto di successo di tale sforzo che non riesce bene a fondere, come vorrebbe, osservazioni di diverso valore e di diversa originalità: quello sul «Caffè» (I), che insiste soprattutto sulla «nuova umanità» e sull’impegno educativo dei compilatori della rivista milanese e sui diversi aspetti del loro atteggiamento ideale e stilistico (utilità tecnica, interesse al fondo umano delle cose, cosmopolitismo e ideale di un governo federale europeo antifeudale – motivo poco svolto e poco documentato); quello piú ricco su Avvii, fermenti ed idee in letterati e poeti (III) che troppo frettolosamente e frammentariamente raccoglie in un rapido esame osservazioni su scrittori come Varano, Cerretti, Mazza, Fantoni, A. Verri, Bertola, Alfieri politico, Casti e Pignotti (interessante, ma troppo esagerato il valore di nuova apertura fantastica attribuita alla poesia del Mazza, esagerato il valore del «fatalismo» nel Fantoni, come non abbastanza meditati, anche se stimolanti ad ulteriore lettura critica e storica, gli accenni alla attenzione di A. Verri al ritratto fisico e del Pindemonte al ritratto morale, come segni di un senso maggiore di concretezza preromantica, e troppo caricata in senso romantico la delicata dosatura del paesaggio bertoliano come «conquista del colore», mentre le osservazioni sull’Alfieri politico e le riprove di una «istanza della realtà politica» in Casti e Pignotti mancano di un necessario riferimento alla storia del pensiero politico dell’ultimo Settecento e sembrano confondere precisi motivi illuministici – specie nel Casti – con nuove esigenze romantiche); quello sul «Conciliatore» (VII) che riprende un piú ampio e spiegato saggio del V. (Il trapasso dall’illuminismo al romanticismo nel «Conciliatore», nel vol. miscellaneo Studi sul Berchet, Milano 1951), e si risolve soprattutto in un utile confronto fra le accuse e le incomprensioni del Foscolo e del Leopardi al romanticismo e le concrete esigenze del gruppo romantico italiano individuato efficacemente nelle dichiarazioni centrali del Di Breme.

Piú puntuali e riusciti come contributi (anch’essi però di diversa portata e interesse) a questioni particolari, utilizzabili nella storia delle origini romantiche, i capitoli minori: il II su L’Ossian nella nostra letteratura e i rilievi critici del Torti, che insiste sul valore decisivo dell’Ossian anche per poeti neoclassici come il Monti a proposito del quale il Vallone sviluppa utilmente la testimonianza notevole dell’Antipurismo del Torti, ammiratore tardivo del Cesarotti e giusto indicatore, nella polemica col Perticari, dell’importanza della lezione cesarottiana per il poeta neoclassico; il IV che sottolinea l’importanza della Chioma di Berenice del Foscolo come documento di una nuova unificazione di cultura e poesia (ma troppo forzata la conclusione: «La C., sconosciuta o quasi ai romantici, è però alla base della loro formazione»); il V che ricostruisce la polemica Foscolo-Lampredi (con due lettere inedite, del Lampredi al Caluso) considerandola come esempio dei nuovi interessi e del nuovo vigore umano e civile che si esprimerebbe anche nelle dispute letterarie diversamente dalle polemiche accademiche settecentesche (che non furon però davvero tutte «tenzoni e cicalate» come par credere l’autore ed ebbero invece spesso significato importante nella storia della cultura); il VI che studia brevemente gli storici del primo Ottocento come documento dell’urto e della continuità fra «tradizione e rivoluzione»: Cuoco, Lomonaco, Botta, Colletta, che, «uomini di fede non romantica nei tempi del romanticismo», porterebbero insieme o singolarmente avvii di motivi nuovi di caratterizzazione nazionale, di senso reale e politico della storia, di attenzione alla musica, di senso dell’educazione popolare. Ma anche in questo capitolo – e forse piú che altrove – non si possono non rilevare l’avvicinamento spesso di motivi poco collegati, la provvisorietà di appunti che certamente lo stesso studioso avrà in animo di riprendere e studiare piú minutamente con migliore prospettiva storica, precisando meglio a se stesso l’ambito e il metodo del suo lavoro.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 57°, serie VII, n. 4, ottobre-dicembre 1953.

Ferruccio Ulivi, Galleria di scrittori d’arte, Biblioteca di Paragone, Firenze, Sansoni, 1953, pp. 329. Questa non è una «scheda», ma una recensione pubblicata nella sezione «Recensioni» della «Rassegna della letteratura italiana».

La ricerca, cui si ispirano i vari saggi di questo volume, rappresenta un interessante tentativo di scavo in una zona poco esplorata della nostra letteratura, per il suo carattere specialistico e per la sua ubicazione fra storia dell’arte e dell’estetica e vera e propria letteratura nel suo senso piú tradizionale. Lo stesso autore è ben consapevole delle difficoltà del suo lavoro (che richiede oltre tutto una duplice e coerente preparazione e informazione sui problemi del gusto e della storia delle arti figurative e su quelli della storia letteraria) e in un lungo saggio introduttivo tende a giustificare con un discorso complesso e a volte complicato – ma comunque anche metodicamente interessante e stimolante pur là dove appare piú discutibile e rischioso – il suo contemporaneo recupero di una letteratura artistica, con peculiari esigenze, nella generale storia letteraria, e del valore di tale letteratura come stimolo nel campo preciso della letteratura poetica. Prevalentemente appoggiato alle posizioni critiche dello Schlosser e del Longhi (e piuttosto in polemica con quella del Venturi nella sua Storia della critica d’arte), l’Ulivi utilizza anche le ricerche del Getto nei suoi studi sulla letteratura religiosa, per un sottile lavoro il cui fine unitario non ci sembra costantemente raggiunto nei saggi che costituiscono la riprova della sua posizione, avvivata, ma a volte resa piú difficile e tortuosa, da una sensibilità di raffinato lettore contemporaneo che può sforzare, con un reagente spesso troppo energico, l’autentico valore storico dei testi studiati. Ma anche se la premessa teorica appare spesso insufficientemente convincente e lo sforzo di unificazione non sempre raggiunto (e se incerti lasciano certe generalizzazioni storiche come quella, a pag. 48, sull’Arcadia che «sorgeva su di una involuzione che aveva tutta l’aria di evolvere», dove sembra ripetersi, in una formula piuttosto sbrigativa, una immagine troppo tradizionale del complesso fenomeno arcadico ricco di autentiche novità specie nella sua sollecitante componente razionalistica), questi saggi ci appaiono ricchi di osservazioni e generalmente utili sia per lo studio di singoli scrittori d’arte tra fine Seicento e Settecento nei loro valori di prosa, sia per quello studio della influenza delle arti e delle dottrine figurative sulla poetica specialmente settecentesca, dove piú chiaramente il descrittivismo critico dei trattatisti del bello ideale (con le esigenze a volte complesse e contrastanti vive entro quella formula) appare valido nei confronti dello sviluppo delle poetiche classiciste e neoclassiche del secolo: in coincidenza (aggiungiamo noi) con la spinta rococò-sensistica all’immagine perspicua e al suo rilievo figurativo (si pensi al Rolli e al Savioli e piú al Parini in cui può avvertirsi il passaggio da tale posizione a quella piú chiaramente neoclassica, confortata dalla teoria winckelmanniana e dalla pratica degli artisti neoclassici in forme piú distese e «perfette»). Da questo punto di vista i primi saggi (I biografi dell’arte e l’opera di G.B. Passeri, Poesia e poetica di M. Boschini, Il classicismo di G.P. Bellori) interessano particolarmente per la storia dei rapporti fra il classicismo dell’ultimo Seicento e il classicismo settecentesco, anche se nella coscienza letteraria tra l’ultimo Seicento e classicismo arcadico tali rapporti appaiono in realtà piú complessi e la posizione di un Gravina, ad esempio, rappresenta qualcosa di piú profondo di un «ennesimo rimaneggiamento rinascimentale-classicistico» (e per il Gravina è errato affermare che egli «si soffermasse a considerare nel Petrarca l’autentico grande innovatore dei classici» quando si pensi alla sua nuova valutazione di Dante e Ariosto e al suo indicativo errore trissiniano e guidiano). Ma essi interessano anche certamente e per la caratterizzazione della letteratura artistica nel suo senso specialistico e per il rilievo antologicamente assai ricco del valore della prosa di questi biografi e trattatisti: cosí la valutazione «novellistica-barocca» del Passeri, davvero ricco di pagine significative ed intense intorno al corposo e cupo senso della vicenda dei suoi artisti (sia pure con una certa aggiunta di colore «surromantico» al suo denso pennello di cronista popolare romano e a parte la svalutazione poco meditata della novellistica cinquecentesca «contenuto senza quasi colore artistico»), cosí la lettura delle pagine del Boschini con i suoi giudizi interessantissimi tradotti in linguaggio pittoresco e acutamente sensoriale fra tradizione veneziana e vedutismo settecentesco (a parte il dubbio accenno a toni previttorelliani), cosí (e ci sembra il capitolo migliore quanto a coerenza rispetto alla formula unitaria proposta dall’Ulivi e quanto a sviluppo anche espressivo del saggio rispetto a parti piú ripetitorie e complicate) lo studio sul classicismo del Bellori con la sua forza e novità di descrizione critica e la sua funzione, in quella, di esigenze teoriche e di prosa prearcadica.

Seguono poi tre saggi settecenteschi, uno su F. Milizia scrittore, uno su la Prosa del Lanzi e uno sulla Letteratura artistica minore, che guidano piú direttamente a quella storia del neoclassicismo a cui giustamente l’Ulivi rivolge particolare attenzione nella sua complessità di motivi nuovi e involutivi e nei fermenti preromantici, nelle inquiete reazioni interne, fra «bello ideale» e gusto del caratteristico, specialmente vive nel Milizia ed evidenti nella sua scrittura tesa da ansie rivoluzionarie e fermenti sentimentali che lo distinguono dalla convenzionale figura del «Don Chisciotte del bello ideale», e vive anche nel Lanzi che appare però troppo sbilanciato verso un incerto «protoromanticismo» di cui l’Ulivi accentua esageratamente i colori. Accentuazione evidente anche quando, nell’ultimo capitolo, dopo le interessanti osservazioni sullo Zuccaro e sui diari autobiografici di artisti secenteschi (Baccio del Bianco, Mauro Gandolfi) e di memorialisti settecenteschi come il Ponfredi e i due Crespi, l’autore tende utilmente a distinguere il gusto figurativo pittoresco piú classicista del Rezzonico da quello tanto piú complesso e ricco del Bertola, ma parla per quest’ultimo di un «lucido delirare pittorico» che sembra ricondurre ancora una volta a quella eccessiva vibrazione introdotta dallo studioso contemporaneo in testi che andrebbero considerati in una identificazione storica piú cauta. I limiti generali (ed è evidente che l’impostazione iniziale e tutto un aspetto di quei libri invita alla discussione soprattutto il critico d’arte) e gli appunti particolari, che si sarebbero potuti utilmente allargare in particolari discussioni e rettifiche, non tolgono però che questo libro, comunque fervido e impegnativo, meriti di essere segnalato come uno stimolante contributo anche nel campo della storia letteraria, specie in quella attenzione alla poetica che meglio permette di far confluire sinteticamente storia della cultura e specifiche condizioni tecnico-letterarie nel rilievo della concreta vita delle opere artistiche.

Fiorenzo Forti, Ludovico Antonio Muratori e la poetica della meraviglia, «Convivium – Dai dettatori al Novecento, studi in ricordo di C. Calcaterra», Torino, S.E.I., 1953, pp. 183-210.

Partendo dalla coerenza esistente fra la critica muratoriana e i principi programmatici della Perfetta poesia (coerenza provata soprattutto dal Fubini), il Forti vuole in questo saggio «restaurare il testo muratoriano» «dalle patinature rinascimentali, illuministiche e romantiche che non gli convengono», in polemica con le opposte tesi del Toffanin e del Robertson che sforzano il pensiero muratoriano ritraendolo verso il Rinascimento o proiettandolo verso il Romanticismo, ed anche, ma in maniera piú sottile e con iniziali parziali consensi, con quella diversamente cauta e documentata del Fubini, le cui posizioni fondamentali – anche se correggibili forse con un maggior legame dinamico di novità e di residui barocchi – ci appaiono ben resistere anche di fronte a questa revisione. Revisione certo interessante, ma molto discutibile, sia nel generale ambito della tesi calcaterriana del «barocco in Arcadia», sia nella precisazione di una fase iniziale di Arcadia (illuminata dall’esempio vicino delle arti figurative e in particolare dell’architettura), di «piccolo barocco», di cui comunque occorrerebbe rilevare piú decisamente l’accento nuovo pur nelle incertezze e nei compromessi. Il Forti discute anzitutto la novità muratoriana della nozione del meraviglioso, incerta fra richieste antibarocche di umanità nell’arte e gusto del peregrino (che però piú «si modera e confina a contatto del razionalismo») e persino del concettistico, e nella stessa nozione della fantasia in cui il Metastasio «impoverisce e involve» le acute intuizioni del Pallavicino. Tutto l’antibarocco del Metastasio consisterebbe nel gusto dell’artificio oscuro contro quello scoperto, ricondotto ad una corrente di barocco moderato (di cui teorico fu M. Peregrini) e tutto teso alla fecondità di nuove «figure», ammirate nei «moderni» e riferibile, nella nozione del vero e verosimile di fantasia, a intuizioni del Pallavicino: che vengono però superate in una nuova accezione del «verosimile di passione e non di ragione», punto alto del pensiero estetico del Muratori che pare al Forti quasi anticipo dell’attenzione desanctisiana alla «situazione» dello scrittore.

Ma l’intuizione ricade (nella polemica con il Bouhours) in esempi e nozioni secentesche e proprio anche dove nei capitoli dell’ingegno egli vuol dar battaglia al barocco, il Metastasio finirebbe poi per accettare proposizioni del Tesauro o per combatterne altre con procedimenti insufficienti di barocchi piú cauti e senza battere direttamente i piú tipici esempi secenteschi. Né piú decisamente antibarocco sarebbe il Muratori nell’avere accostato a «ingegno» e «fantasia» il «giudizio» che sarebbe al massimo un arginamento all’acutezza, «anzi la preferenza accordata ad una acutezza nascosta». Sicché la sua vera novità, la sua vera adesione alla nuova civiltà sarebbe da ricercare non nelle sue teorie e nella sua critica, ma nella sua opera concreta di storico e di erudito, di politico e di moralista, ispirato al senso della chiarezza e della verità, non a quella della «meraviglia» che rimaneva «involto, con la poesia, nel ricordo lontano della gioventú». Il saggio è stato successivamente raccolto in un volume uscito alla fine del ’53 (Ludovico Antonio Muratori fra antichi e moderni, Bologna, Zuffi, 1953) di cui si parlerà nel prossimo numero.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1954.

Pietro Metastasio, Tutte le opere, a cura di Bruno Brunelli, voll. IV e V (Lettere), Milano, Mondadori, 1954, pp. 904 e 932.

Con questi due volumi si conclude l’edizione metastasiana del Brunelli. Essi raccolgono le lettere del poeta dal 31 marzo 1757 alla morte (quelle degli anni precedenti sono raccolte nel vol. III uscito nel 1951), completando cosí l’epistolario metastasiano per il quale finora bisognava ricorrere alle vecchie e incomplete raccolte del Carducci e dell’Antona-Traversi. Non è qui possibile mostrare con un esame particolare quanto l’epistolario contribuisca alla conoscenza del Metastasio nelle caratteristiche del suo temperamento (benché le lettere non ce lo mostrino mai in un abbandono di confessione o di debolezza, controllatissimo sempre, lucidissimo nel dominio di sé e della propria vita sentimentale), nelle tendenze del suo gusto, nelle reazioni al mutare delle mode letterarie e dei costumi e delle ideologie, nell’acuta attenzione alle singole esigenze del proprio mestiere teatrale. Basterà solo notare come questi due ultimi volumi contengano le lettere della vecchiaia, quando la forza creativa del poeta era ormai indebolita se non spenta (e il Metastasio ne ebbe coscienza coraggiosa e tranquilla), e spento era anche il calore degli affetti amorosi come diradate le frequentazioni della corte, rinsaldato quel ritmo monotono, ma non tetro della sua vita viennese, che si riflette particolarmente nelle lettere di questi lunghi anni. Ma non è spenta una particolare disposizione dello scrittore a precisare con notevoli risultati artistici persone e motivi della sua vita privata, né sono spenti i suoi interessi di letterato, la sua fedeltà ai propri ideali culturali e artistici, la sua volontà di chiarirli, e passano in queste lettere alcuni personaggi e alcuni motivi ad essi legati finché personaggio e motivo scompaiono lasciando verso l’ultimo un’aria sempre piú rarefatta e intangibile, una solitudine senza impeti di nostalgia o di tristezza: la figura del fratello con le sue piccole vanità, con le sue brighe giudiziarie, con le sue ghiottonerie senili, con le velleità di apologista della fede contro i tempi corrotti (e nel ritratto che ne dà il Metastasio in tante lettere a lui o al fedel servitore, nei tocchi abilissimi di ironia con cui lo dipinge mentre lo rimprovera sempre piú amabilmente, con cui smorza le sue strane iniziative, quale compiutezza cristallina di animato ritratto!); quella della contessa Orzoni Torres con il motivo di galante letizia che sempre la accompagna, di benevola ironia sul suo pessimismo programmatico; quella del «gemello», il cantante Farinelli, che sempre suscita scherzi e ghiotti discorsi di preziosi tabacchi e di specialità gastronomiche. Mentre per l’interesse culturale e letterario si possono indicare le relazioni con alcuni suoi ammiratori e seguaci (soprattutto Saverio Mattei a Napoli, dove nel secondo Settecento si ebbe una piú consistente fedeltà ai modi metastasiani), le lettere di risposta agli infiniti seccatori che gli inviavano poesie per averne un giudizio, fra le quali alcune sono significative per piú precise indicazioni di autori che avranno la loro importanza nella letteratura dell’epoca (Monti, Pindemonte, Mazza, Rezzonico), o altre per il velato, ma sicuro rifiuto delle nuove mode preromantiche (fra tutte quella al Bottoni – 1771 – sulla sua versione delle Notti di Young) e un po’ tutte in genere per la ribadita preminenza delle lodi alla chiarezza, all’organicità dei componimenti lirici e teatrali (e si ricordi la celebre lettera autobiografica al Diodati, del 10 ottobre ’68, con il paragone Ariosto-Tasso e la preferenza del secondo per l’ordine e il metodo della sua poesia), o quelle riguardanti le idee metastasiane sul teatro e sui rapporti poesia-musica (tutt’altro che in termini di subordinazione della prima alla seconda), come la importantissima lettera del ’65 allo Chastellux, o quelle che esprimono la reazione del Metastasio contro gli « eccessi del secolo illuminato» e la sua inquieta attesa di un rivolgimento politico e sociale (valga per tutte quella al Chigi del 27 giugno 1768 sullo «strano universale fermento», con l’interessantissima preoccupazione per gli sviluppi della civiltà razionalistica di primo Settecento nelle istanze rivoluzionarie dell’illuminismo anche nei suoi aspetti riformistici e moderati). Né si possono dimenticare, pur in questo brevissimo accenno, le deliziose descrizioni di battaglie e movimenti militari della guerra dei sette anni, alcune delle quali (a parte l’interesse di questa attenzione del Metastasio, divisa fra partecipazione di leale suddito austriaco e un distaccato godimento di spettatore) van messe fra le pagine piú raffinate e miniaturistiche di questo epistolario.

I due volumi sono corredati di note, come nei precedenti, sufficienti se non abbondanti e utili per i riferimenti storici e biografici (ma errata è l’attribuzione dell’opera storico-filosofica, cui accenna una lettera del settembre 1767, al destinatario, V.C. Alberti, mentre si tratta della nota Istoria e indole di ogni filosofia, uscita a Lucca dal 1766 in poi, di Appiano Buonafede, chiaramente indicato nella lettera con lo pseudonimo arcadico di Agatopisto), e l’ultimo è completato con un indice analitico dell’epistolario per argomenti, con uno dei nomi di persona e dei destinatari nonché da una bibliografia della critica metastasiana, che avrebbe dovuto però non mancare di alcuni numeri tutt’altro che trascurabili: basti ricordare il saggio del Croce, Il giudizio del De Sanctis sul Metastasio (in Letteratura italiana del Settecento, Bari, 1949), e le pagine del Fubini nel saggio Arcadia e Illuminismo (in Questioni e correnti letterarie, Milano, 1949, e ora in Dal Muratori al Baretti, Bari, 1954). E come è possibile trascurare – pur nella giustificazione della premessa, secondo cui «non si è creduto di tener conto delle enciclopedie, dei dizionari biografici, delle storie letterarie, delle storie del teatro e della musica, dove è ovvio si trovino notizie intorno al Metastasio» – i giudizi importantissimi, e spesso articolati in veri e propri saggi, contenuti nella Littérature du midi de l’Europe del Sismondi, nelle storie letterarie romantiche del Corniani, del Settembrini, o in quelle moderne del Momigliano, Flora, Sapegno?

C.J.M. Lubbers Van der Brugge, Johnson and Baretti. Some Aspects of Eigheenth-century Literary Life in England and Italy, Groningen-Djakarta, F.B. Wolters, 1951, pp. 157. [Questa recensione è stata riproposta poi con il titolo «Baretti e Johnson» in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo, Firenze, La Nuova Italia, 1963].

Questo volume – una tesi universitaria olandese condotta sotto la guida del noto anglista R.W. Zandvoort – è stato scritto per provare, con una ricostruzione della biografia barettiana e dei rapporti fra Baretti e Johnson precisati in minuti confronti dei loro scritti, l’effettiva dipendenza del primo dal secondo, la scarsa originalità del Baretti, debitore all’insegnamento e ai giudizi del celebre critico inglese dei suoi spunti e dei suoi atteggiamenti ritenuti comunemente piú innovatori e caratteristici del suo impegno e del suo temperamento polemico e violento: ciò che il Foscolo aveva in un impeto iroso indicato con la celebre definizione del Baretti come «la scimmia del dottore», ma che poi la critica italiana (pur con le sue diverse valutazioni e limitazioni dell’effettivo valore della critica barettiana) aveva fortemente ridotto, ricercando fra l’altro (il Piccioni sullo spunto di un’osservazione del Graf) i segni della naturale disposizione critica del Baretti nel periodo precedente al primo soggiorno inglese e considerando comunque che, anche se si doveva ammettere una influenza generale e particolare del Johnson (e qualche derivazione particolare era stata provata dalla Devalle nel suo volume del ’32), essa non toglieva che il Baretti aveva rielaborato quegli elementi johnsoniani entro una sua originale esigenza critica e polemica, in una sua esperienza di scrittore e polemista, viva ed attiva in una situazione storica e letteraria ben diversa da quella in cui aveva operato il Johnson, e sulla base di una tradizione critica settecentesca italiana che spiega molti dei suoi atteggiamenti e dei suoi problemi.

La Lubbers Van der Brugge non accetta invece una giustificazione di questo tipo e tutto il suo esame è inteso a dimostrare la nessuna originalità del Baretti, la sua insufficienza a pensare criticamente quando non si appoggi sul modello ripetendone, proprio nei momenti piú decisivi, le posizioni e i giudizi. Un primo capitolo esamina la giovinezza del Baretti in Italia fino alla partenza, nel 1751, per l’Inghilterra, notando i primi segni del suo temperamento risentito e polemico (al quale si deve, dopo la lite col Bartoli a Torino e la conseguente perdita di una sistemazione nella città natale, la prima ragione della sua decisione di cercare mezzi di vita e affermazione in Inghilterra), ma insieme mostrando la debolezza dei suoi primi scritti, ispirati piú a gusto personale di caricatura e di satira che a profonde ragioni culturali e ideali. Caratteri che l’autrice rileva, in un secondo capitolo, anche nello studio dei due primi anni del soggiorno londinese caratterizzati da un’attività dispersiva e pamphlettistica di poco conto e di cui essa si serve (specie dei Remarks on the Italian language and writers) per fare il punto sulle reali condizioni degli interessi e delle convinzioni del Baretti fino all’epoca in cui egli entrò in contatto con Samuel Johnson: contatto che lo avrebbe radicalmente trasformato fino al punto di indurlo a capovolgere giudizi fondamentali per la sua visione critica della letteratura italiana e per il suo ideale di lingua e stile, soprattutto nei riguardi della prosa boccaccesca che nei Remarks era ancora ammirata come modello insuperabile. Un terzo capitolo esamina le opere barettiane scritte nel periodo inglese dal 1753 al ’60, agevolate, quanto a possibilità editoriali, dall’aiuto degli amici inglesi, stimolate, quanto a motivi nuovi, dalla vicinanza del Johnson, dal quale il Baretti avrebbe appreso non solo consuetudini di metodo piú rigoroso nelle stesse polemiche, ma avrebbe mutuato fra l’altro l’ammirazione per Milton e le giustificazioni di principio delle sue opere linguistiche, a parte interventi diretti e suggerimenti del critico inglese reperibili (sulla scorta di uno studio del 1937 di Allen T. Hazen, Johnson’s Prefaces and Dedications) nella Introduction to the Italian language, nel Dictionary of the English and Italian languages, nella Grammar of the Italian language (che nell’Aggiunta contiene un centinaio di pagine di sentenze johnsoniane tradotte in italiano) e in altri scritti minori di questo periodo. I tre successivi capitoli, strettamente legati fra loro, studiano poi le opere scritte dal Baretti subito dopo il ritorno in Italia (cioè le Lettere familiari ai tre fratelli e la Frusta letteraria), ritrovandovi la netta influenza delle idee johnsoniane anzitutto nell’impostazione di rigido moralismo e di intransigenza religiosa (assente invece nelle opere precedenti il periodo inglese e poco genuina nel carattere e nella vita di un Baretti presentato come leggero e indifferente bernesco) e nella sua applicazione ai giudizi su autori «poco costumati» (Boccaccio, Ariosto, Berni, Goldoni), e poi piú precisamente riscontrandola in una lunga serie di confronti fra passaggi della Frusta e del johnsoniano Rambler, raccolti soprattutto sotto argomenti di stile e lingua (con l’antipatia per la poesia pastorale, il gusto del linguaggio puro e nazionale, la difesa della rima, la spregiudicatezza rispetto alle regole pseudo-aristoteliche di tempo e luogo). La discussione sui debiti del Baretti rispetto alla discussione sulle unità conduce all’ultimo capitolo, in cui anche quello che si può considerare il capolavoro polemico del Baretti, la sua opera piú suggestiva per i suoi ricchi spunti preromantici, il Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire, è sottoposto alla stessa indagine comparativa, che però in questo caso non va oltre il riconoscimento che la base del Discours è nella Dissertation upon the Italian poetry, la cui dipendenza dal Johnson era stata già indicata, e il rilievo, già ricordato, della ripresa barettiana di giudizi johnsoniani circa le due unità. La conclusione insiste sulla migliore equivalenza Aristarco-Johnson che non Aristarco-Baretti, sulla falsità dell’opinione tradizionale secondo cui Baretti sarebbe stato piú apprezzato fra i suoi contemporanei inglesi che fra gli italiani, sul valore di Baretti come mediatore fra la cultura inglese e italiana e come «acuto osservatore e spesso anche abile macchiettista», come è precisamente detto nel sommario in italiano (che chiude il volume insieme ad alcune appendici che riportano una inedita lettera alla Thrale, brani dei diretti contributi di Johnson ad alcune opere inglesi del Baretti, e ad una accurata bibliografia delle opere e della critica).

Molte sono le osservazioni particolari che si possono fare alla lettura di questo libro piú minuzioso e accurato che acuto e profondo, e spesso incapace di avvertire la scarsissima importanza di costatazioni secondarissime (come quella che nota la ripresa barettiana nella Dissertation dell’uso johnsoniano di una citazione iniziale da un antico poeta), dell’importanza e la tendenziosità di testimonianze interessate contro il Baretti come quelle della Thrale, cosí come mostra di non comprendere appieno il valore e il limite di affermazioni critiche altrui, opponendo ad esempio alla definizione del Lopriore di un Baretti «conservatore» la mia qualifica di «preromantico» che non esclude il carattere conservatore e tradizionalista di certi atteggiamenti barettiani, pur valorizzandone, in certi casi, il significato di reazione al gusto e alla civiltà razionalistica-illuministica. Cosí appare evidente la svalutazione affrettata dell’atteggiamento antivoltairiano del Baretti, presente già nella prefazione a Corneille, e l’arbitraria importanza data al giovanile bernismo come segno di un temperamento frivolo e indifferente fuori della spiegazione, oltre tutto, del suo carattere letterario, o l’inconsistenza di un confronto (per provare un capovolgimento dei giudizi barettiani sotto l’influenza del Johnson) fra la polemica antiboccaccesca della Frusta e l’elogio del Boccaccio fatto nei Remarks, scritto di intonazione prevalentemente divulgativa, presentazione della letteratura italiana ad un pubblico straniero. Ma piú importa rilevare l’impostazione criticamente insufficiente da cui derivano per lo piú le sfasature e le forzature particolari. Una impostazione a tesi (non si dimentichi del resto la natura stessa di questo libro) che parte da una nozione antiquata ed ingenua di influenza, piú vicina ai vecchi studi di «fonti» che non ad una moderna ricerca di rapporti culturali, la quale presuppone sempre la coscienza del rinnovamento che idee mutuate da altri e persino materiali riprese di giudizi e di frasi subiscono nello spirito, nelle intenzioni, nei compiti nuovi di una personalità artistica o critica. Cosí – ammessa l’importanza eccezionale e provvidenziale che per il Baretti ebbero l’esperienza della cultura inglese e il contatto con il Johnson – bisogna poi comprendere come quell’esperienza trovasse un terreno inizialmente favorevole nel carattere e nelle esigenze del Baretti, come essa venisse dal Baretti assimilata e fatta sua in opere e in atteggiamenti che presuppongono una precisa personalità, un impegno originale nella cultura italiana del tempo, e vivono in un’organica e personale espressione. E si può dire, in certo senso, che la minuta analisi della Lubbers, esaurendo totalmente il conto dei «debiti» del Baretti verso il Johnson e mostrandoci in quanti pochi casi la ripresa diretta di idee e di motivi johnsoniani sia davvero inoppugnabile e riguardi momenti centrali della critica barettiana, permette – in una coscienza critica e storica piú sicura – di ribadire ancor meglio, nei suoi limiti e nella sua forza, l’originalità vera del Baretti il quale, del resto (si noti bene) non nascose affatto il suo rapporto con il Johnson che nella Frusta è certo quel Diogene Mastigoforo che Aristarco chiama, con tanta reverenza ed affetto, suo maestro. Originalità che consiste del resto non solo in singoli giudizi, ma proprio nell’unitario impeto della polemica antiarcadica, anticruscante, antiilluministica, dell’interesse per una lingua moderna e tradizionale, rafforzato dall’esperienza inglese, ma mosso dall’intimo dell’animo barettiano e dalla sua reazione originale alle condizioni della letteratura italiana contemporanea e realizzato (ciò che soprattutto sfugge alla Lubbers) in una prosa che sarebbe assurdo ridurre a pura imitazione di quella del Johnson anche se può averne utilizzato suggerimenti di ideali linguistici e stilistici. Ma la Lubbers è cosí fedele alla sua tesi e confortata dalle sue verifiche, di cui non sembra cogliere bene la natura troppo materiale e contenutistica, che anche di fronte al Discours, non potendo negare che lí, almeno per lo stile, occorre fare eccezione quanto alla derivazione johnsoniana, aggiunge che ammette ciò «con qualche riserva» («we must make an exception for its style which – though I say this with some reserve – is Baretti’s own») e fa un lungo e complicato discorso per spiegarsi questa eccezione alla luce della teoria johnsoniana della prosa.

Proprio perciò saremmo ingiusti se, a parte la lode per la conoscenza materiale dell’opera barettiana e della critica sull’argomento (non però della letteratura italiana settecentesca, che in tanti casi avrebbe aiutato l’autrice a spiegarsi gli atteggiamenti barettiani anche nella loro relazione di adesione o di reazione con la letteratura contemporanea e con la tradizione critica precedente), non riconoscessimo che questo lavoro ha – malgrado la insostenibilità della tesi – una sua innegabile utilità fornendo elementi di fatto che mentre precisano e circoscrivono (molto piú di quanto l’autrice non pensi) l’ambito di un rapporto tanto spesso ricordato, ma non sufficientemente indagato sui testi (specialmente per quanto riguarda la collaborazione del Johnson ai primi scritti inglesi del Baretti), potranno essere ripresi e utilizzati da chi voglia scrivere (senza intenti di rigida glorificazione o stroncatura del Baretti, ma per comprenderne lo svolgimento e la formazione) una storia del soggiorno inglese del Baretti e dei rapporti di amicizia, di collaborazione del Baretti con il Johnson, che quegli sentí e ammirò come maestro intellettuale e morale (e il florilegio di sentenze johnsoniane nella Aggiunta della grammatica italiana ne è prova singolare), da cui derivò stimoli, suggerimenti, argomenti importantissimi per la maturazione del suo ingegno (tanto piú quanto piú vi era in lui una simpatia, una ragione personale di vicinanza intellettuale e morale) senza perciò esserne semplicemente «la scimmia».

Mario Fubini, rec. a C.J.M. Lubbers Van der Brugge, Johnson and Baretti, «Giornale storico della letteratura italiana», LXX, 1954, 392, pp. 543-546.

Riconosce alla Lubbers Van der Brugge una notevole conoscenza della letteratura barettiana e l’utilità di alcuni dei suoi risultati («sia pure limitandone la portata») specie nella raccolta dei passi del Johnson accanto ai passi della Frusta letteraria che quelli rielaborano e nell’accertamento della paternità johnsoniana delle sentenze morali raccolte nella Aggiunta alla Grammatica italiana, ma rifiuta la tesi generale del libro rilevandone anche la rigidità schematica, l’isolamento svantaggioso dei due protagonisti fuori di ogni altro riferimento alla cultura letteraria italiana del Settecento.

Mario Fubini, Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica e sulla cultura del Settecento (seconda edizione riveduta, corretta e accresciuta di nuovi studi), Bari, Laterza, 1954, pp. XII-456.

Il presente volume ripubblica, con note di aggiornamento critico-bibliografico, gli importanti saggi già raccolti nel volume Dal Muratori al Baretti. Studi sulla critica del Settecento, uscito nel 1946, Città di Castello, Macrí (Le «Osservazioni» del Muratori al Petrarca e la critica letteraria nell’età dell’Arcadia; Dall’Arcadia all’illuminismo, recensione al libro dello Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del Parini; Introduzione alla lettura delle «Virgiliane»; Giuseppe Baretti scrittore e critico; Giuseppe Baretti dalle «Lettere a’ suoi tre fratelli» alla «Frusta letteraria»; Racine et la critique italienne), e insieme raccoglie i due piú recenti saggi: L.A. Muratori letterato e scrittore (pubblicato nello «Spettatore italiano» nel 1951) e Arcadia e illuminismo (pubblicato nel volume, diretto dal Momigliano, Questioni e correnti letterarie, Milano, Marzorati, 1949). Ne risulta un quadro davvero fondamentale per lo studio (anche come base di discussione, nelle parti che ci possono trovare meno consenzienti, quali i saggi sul Baretti alle cui forti limitazioni della personalità barettiana rispondeva in parte il mio capitolo sul Baretti in Preromanticismo italiano) non solo della critica del Settecento (specie nella sua fase arcadica studiata soprattutto nelle Osservazioni del Muratori, ma indagata, sia pure per riferimenti, anche nelle altre posizioni), ma piú generalmente della cultura letteraria settecentesca dall’Arcadia al Parini e alla fase illuministica compresi. In tal senso i due nuovi saggi, e soprattutto il secondo, appaiono davvero decisivi per una valutazione che, sulla via indicata dal Croce (né si dimentichi il bellissimo volume fubiniano sul Vico, momento essenziale in tale valutazione) e opponendosi alla consunta immagine tradizionale di un Settecento frivolo e superficiale, alla tesi sostanzialmente reazionaria del Toffanin e a quella calcaterriana di una continuità essenziale fra Barocco e Arcadia (comunque eccessiva e inaccettabile malgrado i suoi elementi parziali di verità), considera la fase iniziale del nostro Settecento nella sua novità e serietà, nei suoi motivi originali, nella sua ricostituzione dell’organismo poetico, della serietà e civiltà della letteratura, nell’impegno dello stile, nell’avvio della critica e della riflessione estetica. Potranno esser discussi momenti e motivi del secondo saggio come la limitazione della poesia metastasiana su cui sembra troppo pesare l’ipoteca dell’impostazione teorica fantasia-ragione; o per il Parini il poco rilievo dato allo svolgimento della sua poetica, e in generale forse, sul forte positivo concesso all’Arcadia, un minore spicco alla novità delle componenti culturali delle fasi successive) di cui pure si studia acutamente il passaggio, e la continuità, nell’Algarotti o nella situazione dell’opera goldoniana), ma indubitabile è la forza e l’organicità generale del disegno, grande è la ricchezza di indicazioni particolari e nuove, notevoli sempre l’efficacia dell’utilizzazione di scrittori minori (si pensi per es. al Martello) e l’illuminante presenza di citazioni molto spesso nuove, e scaturite da un contatto lungo, da un’attenzione acutissima ad un materiale spesso finora poco considerato e studiato. Sicché questo saggio, mentre costituisce lo schema saldissimo della interpretazione fubiniana del nostro Settecento e vale come una delle prove piú mature delle capacità sintetiche e storiche del critico, rappresenta un fondamentale paradigma di disegno storico-letterario e una base di discussione di altissimo livello critico, anche quando non si accetti in tutte le sue fasi la sua dimostrazione, dotata sempre di una singolare coerenza interna e di un forte potere di persuasione.

Fausto Nicolini, Amici e corrispondenti francesi dell’abate Galiani. Notizie, lettere, documenti. Serie prima, «Bollettino dell’Archivio storico del Banco di Napoli», 1954, 7, pp. 1-244.

Riprendendo i suoi interessantissimi studi sul Galiani e sui suoi rapporti con l’ambiente illuministico francese (La signora d’Épinay e l’abate Galiani, Bari, 1929; Gli ultimi anni della signora d’Épinay, Bari, 1933), il Nicolini si propone in questa prima serie, e in altre che seguiranno, di «saggi o medaglioni», di render conto delle lettere per lo piú inedite (o anche se edite, cosí poco note da essere passate inosservate, almeno al pubblico italiano) scambiate tra l’abate Galiani e i suoi amici e corrispondenti francesi o italiani, ma vissuti in Francia, e di dare su questi notizie biografiche e culturali. Da questi medaglioni, scritti con un agio e un garbo piacevolissimi, riscaldati da una vivace simpatia per il Galiani e per l’ambiente illuministico parigino nel suo vitale fervore socievole, nella sua spregiudicatezza spirituale, nel suo amore per l’intelligenza e per lo spirito (non senza un rimpianto per quell’età e quella società intellettuale cosí libera e umana, intimamente seria e pure aperta agli scherzi, ai motti a cui spesso affidava le punte piú vive della sua virile fiducia mondana), risulta (e meglio risulterà da tutto il compiuto lavoro) un quadro animato e suggestivo della Parigi che il Galiani dominò con la sua personalità vigorosa e inesauribile, pur nella sua apparente pigrizia, di idee, di battute geniali, di implacabili trovate umoristiche e polemiche, e che piú tardi egli rimpiangeva da Napoli come un essenziale bene perduto sentendovisi almeno ancor presente nel vivo ricordo lasciato, nella corrispondenza mantenuta con i suoi amici francesi o con quelli italiani (come il Caracciolo o il Gatti) che seguitarono piú a lungo a godere di quella vita eccezionale. E tutti i medaglioni (alcuni piú sostanziosi e utilissimi a ricostruire la biografia di figure interessanti per la storia degli italiani in Francia, altri piú rapidi e atteggiati in squisite macchiette di personaggi di secondo piano, oggetto dei motti e degli scherzi del Galiani e dei suoi amici, come quelle del marchese di Croismare o del maresciallo di Brissac) sono uniti dalle due linee principali e convergenti dell’interesse dello studioso: quella che mira a ricostruire la biografia del Galiani nel decennio parigino (1759-1769), a cui serve di introduzione il primo saggio L’arrivo del Galiani a Parigi, e quella che vuol presentarci l’ambiente in cui visse, gli uomini con cui fu a contatto e nello scambio con i quali (diretto o poi per corrispondenza) egli elaborò le sue idee, esercitò la sua singolare attività di conversatore, in un’epoca in cui giustamente il Nicolini sottolinea la funzione essenziale della conversazione, come stimolo all’elaborazione delle idee. Funzione e stimolo peculiarmente essenziali al Galiani che da Napoli nell’81 scriveva ad un amico lamentandosi di dovere elaborare in solitudine e in ambiente non propizio un suo nuovo saggio: «Ah si je pouvais le travailler à Paris, et en communiquer des morceaux au coin de votre cheminée ou à des dîners du baron d’Holbach!». E proprio in questa seconda direzione particolarmente efficace e veramente suggestivo è il lungo medaglione Il barone e la baronessa d’Holbach, tutto gremito di aneddoti, di particolari minuti sulla società di amici che si riuniva a Parigi o nella villa di Grandval intorno ai coniugi d’Holbach e, cosí, capace di ricreare la singolare atmosfera di quella società cosí animata e nemica della solitudine, e nello stesso tempo ricco di spunti utili per la biografia del Galiani e dei suoi amici o per le relazioni fra la cultura italiana e francese nel secondo Settecento: come, ad es., la ribadita ipotesi di una influenza vichiana su alcune parti del dolbachiano Système de la nature, appoggiata alla visita parigina del Beccaria e alla sua promessa, forse effettuata, di inviare la Scienza nuova al Morellet e al d’Holbach.

Particolarmente interessanti per la ricostruzione della biografia galianea appaiono poi il medaglione su Angelo Gatti (un toscano allievo del Cocchi, amico e medico del Diderot, del Morellet ecc.) con la precisa documentazione dell’infortunio diplomatico del Galiani e la sua rottura con lo Choiseul e con notevoli cenni sulla eco destata in Francia dai Dialogues sur le commerce des blés, e quello sul Marchese Caracciolo, ambasciatore napoletano a Londra (1764-71) e Parigi (1771-81), con le notizie sulla gita del Galiani nella capitale inglese nel 1767 e gli accenni ad una possibile influenza e del Caracciolo e dell’ambiente inglese sulla conversione economica dell’autore dei Dialogues oltreché con la luce portata sulla figura dello stesso Caracciolo, amico, non si dimentichi, del giovane Alfieri, ma diversamente da lui fautore dell’assolutismo illuminato e giudice poco benevolo dei costumi e della libertà inglese (non a caso, per lo sua notorietà di esperto delle cose europee il suo anagramma compare insieme a quello dell’Alfieri nell’anonimo libretto del 1782, Corrispondenza segreta e familiare tra il marchese di Licciocara e il conte Rifiela, tutti e due viaggiatori incogniti per le diverse corti d’Europa).

Concluderemo questa scheda sui pregevoli medaglioni nicoliniani con un piccolo contributo alla precisazione di un aneddoto narrato dal Gatti (p. 59) circa «un patrizio veneziano innominato, il quale, sorpreso nell’atto di attraversare il palazzo dell’ambasciatore di Francia, ma al solo scopo di abbreviare il cammino verso la casa della dama sua amante, avrebbe preferito farsi condannare a morte, anziché, col rivelare la cagion vera di quella sua infrazione alla legge, evitare, sí, il patibolo, ma compromettere la donna nell’onore»; quell’aneddoto aveva un fondamento preciso nella tragica fine dell’ambasciatore veneto Antonio Foscarini, sulla quale si formò una patetica leggenda, ripresa (con varianti circa la donna amata dal Foscarini) dal Pindemonte (Antonio Foscarini e Teresa Contarini in Novelle di Lirnesso Venosio e Polidete Melpomenio, Napoli, 1792), da Lauro Corniani degli Algarotti in un’«eroide», e dal Niccolini nella tragedia Antonio Foscarini del 1827 con cui gareggiò infelicemente sullo stesso soggetto Filippo Cicognani nel 1830.

Leonardo Sciascia, Il catanese Domenico Tempio, «Letteratura», 1954, 8-9, pp. 127-129.

Variazione letteraria sul significato dell’accostamento della poesia erotica del catanese Tempio (1750-1821) a quella del contemporaneo Meli («due componenti della cristallizzazione arcadica della disgregazione provocata dal tocco della realtà»), con deduzioni poco incisive su alcune costanti delle due zone culturali siciliane (Catania e Palermo).

Giovanni Semprini, Il Bertola favolista, «Cenobio», III, 1954, 2, pp. 68-84.

Esamina la produzione favolistica del Bertola mettendo in primo piano il sentimento della natura che sarebbe il motivo dominante delle favole, animate anche da una commossa simpatia per gli esseri «umili, delicati, innocui: i fiorellini, i passeri, le pecorelle, i fanciulli» (ma si lasci da parte «la delicatezza tutta pascoliana» che è tutt’altra cosa) e divagando, in una breve antologia poco incisiva, su motivi di interesse morale, ironico, galante, presenti nell’opera favolistica del Bertola.

Studi su Aurelio Bertola nel II Centenario della nascita (1953), a cura della Città di Rimini, Bologna, 1954, pp. 319.

Il volume che la città di Rimini ha voluto dedicare, con lodevole iniziativa, al letterato settecentesco, cosí interessante nello sviluppo del nostro preromanticismo e nella cultura di fine secolo, raccoglie un numeroso gruppo di scritti, che, pur nel loro diverso valore (e, in qualche caso, in un carattere di omaggio di occasione), rappresentano un utile contributo all’indagine sui diversi aspetti della personalità e dell’attività bertoliana, e recano alcuni utili contributi per la conoscenza della sua biografia, delle sue relazioni con letterati contemporanei, per il completamento della bibliografia delle sue opere, per la raccolta e l’accrescimento del suo epistolario e delle sue poesie. E su questo piano di utilità metteremo anzitutto la pregevole Bibliografia delle opere a stampa del Bertola accuratamente compilata da Giuseppe Pecci (compreso l’elenco delle traduzioni in francese, tedesco e portoghese delle Notti Clementine che, fra il ’78 e l’85, attestano la fortuna e la diffusione europea di quel poemetto preromantico) – ma perché non avere arricchito il volume con un elenco dei manoscritti e con una bibliografia della critica? –, la pubblicazione, a cura di Augusto Campana, di nove lettere bertoliane al cardinale Garampi, noto erudito e diplomatico riminese (anticipo di un’augurabile pubblicazione di tutto il carteggio, interessante per le relazioni del Bertola con l’ambiente italiano viennese dal cui contatto ebbero stimolo e fonte di notizie le Osservazioni sopra il Metastasio), quella, a cura di Fredi Chiappelli, di venti lettere a Leonhard Meister, utili a lumeggiare e precisare la natura dell’amicizia del Bertola con il Gessner (alla cui conoscenza il Chiappelli aveva già offerto il contributo di un notevole saggio, Gessner und Bertola. Eine stilistische Freundschaft, uscito in «Die neue Schweizer Rundschau» del ’48, e della raccolta di lettere al Gessner pubblicata nella «Nuova Antologia» del ’50), quella di dodici lettere inedite della Biblioteca civica di Bergamo, ad opera di Gianni Gervasoni (si tratta di lettere al Beltramelli e al Mascheroni, in realtà di scarso interesse), di quella a cura di Luigi Servolini, di dieci lettere inedite del Gessner al Bertola (e una al Beroldingen, amico comune dei due letterati), tutte assai interessanti per la completa approvazione del poeta svizzero della traduzione bertoliana dei suoi Idilli, per alcune caratteristiche del suo gusto (l’attenzione alle «minime sfumature», all’incontro di delicatezza e colore delle immagini), per le sue lodi significative (fra accentuazioni di edonismo sentimentale e del «mite calore» «che vivifica tutto come un dolce profumo di primavera») della poesia del Bertola, per la sua aperta polemica di preromantico classicista e moderato contro le nuove tendenze klopstockiane al grandioso e al metafisico e i drammi sturmundranghiani («Essi trasvolano come un turbine su tutto ciò che è ragione e simmetria, proporzione e ordine e creano un nuovo linguaggio, come se il comune linguaggio umano fosse per essi troppo povero... la maggior parte dei caratteri sono mostruosi e la trama dei nuovi drammi un ammasso delle piú inumane pazzie»).

Sconcertante è invece la pubblicazione come «inedito», da parte dello stesso L. Servolini, dell’idillio Gessner ovvero Aronte, che poi un’avvertenza, aggiunta dopo la stampa, ricorda come pubblicato fra le cose minori del Mascheroni (e tutt’altro che convincente la breve argomentazione, pure aggiunta, della paternità bertoliana di un componimento in cui il Bertola è esaltato come successore dello scomparso poeta svizzero con parole che non è possibile attribuire allo stesso Bertola: vedi vv. 5-11 a p. 284), cosí come appare inutile la pubblicazione, da parte di Alfredo Servolini, di un gruppo (o come l’editore dice «un mazzo olezzante») di liriche del Bertola ricavate dal ricco fondo delle carte bertoliane di Rimini (fondo Piancastelli) con la qualifica indiscriminata di «inedite o rare», mentre era compito del curatore verificare e pubblicare quelle sicuramente inedite.

Per quanto riguarda lo studio critico delle opere e della personalità del Bertola ricorderemo anzitutto il saggio di Francesco Flora, Aurelio De’ Giorgi Bertola, che riproduce un discorso tenuto a Rimini il 2 agosto 1953 e che, nelle stesse esigenze della sua natura celebrativa, mira a dare un ritratto generale del letterato, nelle sue qualità umane, nei vari aspetti della sua personalità e della sua attività, nei suoi rapporti con l’epoca, nel suo significato storico. Disegnato il corso della sua vicenda biografica rilevando e limitando il riflesso, nella sensibilità del suo autore, dell’inquietudine prerivoluzionaria a suo modo presente nell’idillismo e nell’idoleggiamento dello stato di natura «che la lezione di Rousseau, alleata con la precorritrice Arcadia, invocava in una società stanca, minacciata, pur senza accorgersene, dalla rivoluzione», rievocata l’immagine simpatica (ma come di perfezione mancata e di volubilità) che del Bertola ci lasciarono i contemporanei, il Flora ricorda gli scritti teorici e critici (limitando la Filosofia della storia a «digressione nella sua vera attività», e riconoscendo al critico «tratti eleganti» e «offerta di ghiotte e significanti notizie» nelle Osservazioni sopra il Metastasio) e dagli accenni piuttosto sbrigativi sull’opera del «primo introduttore della poesia alemanna» (per dirla col Carducci) e sul Saggio sulla Grazia assai apprezzato («scritto in un momento di grazia: né questo sembri un bisticcio»), passa alle Lettere campestri e al Viaggio sul Reno, definito opera di «paesista», nata da «gioia paesistica» (deprimendo a momento piú esterno il «patetico»), e infine alle poesie. E qui, in un esame piú analitico e antologico, fra ricerca della novità bertoliana e verifica dei suoi limiti sia come realizzazione di un proprio linguaggio («raffinato e scorretto» l’aveva chiamato il Vannetti), sia come compromesso fra l’antico e il nuovo, si possono trovare i migliori «assaggi» del discorso: la presenza negli Idilli di tratti realistici e di coerenti movimenti ritmici, la disposizione visiva (o addirittura «retinea», come dice il Flora) della sua sensibilità, l’abbondanza dei diminutivi e l’audacia di alcune immagini e modi linguistici, l’efficacia di singole parti delle favole, la scarsa consistenza e profondità delle poesie erotiche. Descrizione e distinzione che condurrà alla conclusione di un Bertola «sulla via della nuova poesia» e vivo nei termini della « sensibilità». Nell’insieme un discorso ricco di osservazioni e di spunti (se pur discutibile l’eccessiva depressione del «patetico»), ma che avrebbe guadagnato in precisione anche da una maggiore attenzione alla letteratura contemporanea che spiega e avvalora tanti aspetti dell’attività letteraria del Bertola.

Interessante, fra biografia e descrizione critica, è poi il saggio di Antonio Baldini sul Diario svizzero del Bertola 1787, in cui l’editore del Viaggio pittorico e sentimentale sul Reno descrive e commenta il viaggio del Bertola attraverso la Svizzera, sulla base di un taccuino inedito che contiene le impressioni piú immediate del viaggiatore (rielaborate poi nel Viaggio sul Reno a distanza di otto anni), registra le sue reazioni piú vive agli incontri con Lavater, Meister, Gessner, le sue impressioni piú genuine e fresche di fronte agli spettacoli del paesaggio, piú sottolineati però nei loro aspetti «ameni» e «ridenti» che non in quelli «sublimi» che saranno semmai rilevati (ma sempre in quella squisita moderazione di sensibilità pittoresca che il Bertola aveva al di qua del drammatico senso romantico del paesaggio) piú tardi quando quelle prime impressioni vennero rielaborate nel Viaggio sul Reno.

Opera quest’ultima a cui è dedicato il saggio di Felice Del Beccaro, bene informato e caratterizzato, oltre che da una analisi dei temi e delle qualità stilistiche del libro esaminato (impegno e agio elaborativo su felicità di impressioni immediatamente annotate, prosa agile e sorretta da un orecchio musicale e dall’esperienza del verso), dal suo utile inquadramento nello sviluppo del Bertola e dal riferimento opportuno di altre opere a chiarimento di alcune costanti dell’arte bertoliana.

Un lungo e accurato saggio di Bruno Maier studia poi La critica di Aurelio Bertola giustamente presentata come «la critica d’un poeta», l’applicazione della sua «poetica del patetico», del suo gusto che accoglie componenti di un’estrema Arcadia, di preromanticismo venato di esigenze illuministiche e neoclassiche, e della sua sensibilità che si commuove e si esalta innanzi alla poesia e simpatizza con l’autore studiato. Donde la sua qualità di «critico militante» e soprattutto la tendenza all’elogio commosso e simpatico (e al rilievo di temi e toni stilistici consoni alla propria poetica, precisiamo noi). Un elogio è infatti la sua presentazione del Gessner (in quell’Elogio di Gessner che vale anzitutto come documento del gusto bertoliano e come una delle prove piú riuscite della sua prosa), e un elogio di autori che egli sente vicini alle proprie esigenze e come precursori del suo piú alto modello preromantico, il Gessner, è quella stessa Idea della bella letteratura alemanna in cui il Bertola esplora una provincia letteraria (e di costume) ignota o quasi ai letterati italiani del suo tempo, alla ricerca di quell’incontro di «naturalezza», di «grazia», di «buon gusto», di «patetico» che sono i canoni principali della sua poetica e che debbono interessarci, io penso, nello studio della critica bertoliana piú delle sue incertezze teoriche, data la sua essenziale posizione di interpretazione sensibilistica e in funzione di una poetica che spiega direttamente le sue esaltazioni, le sue incomprensioni (con il modello fisso della poesia gessneriana), il suo eclettismo fra classicismo, residui arcadici e moderato preromanticismo (che è pur sempre il segno piú deciso e distintivo del suo gusto), meglio di ogni preciso riferimento ad una vera e propria tradizione critica settecentesca, del resto essa stessa spesso viva ed attiva in funzione di poetica, di pragmatica riforma del gusto. Il che non toglie che il Bertola abbia offerto anche acute e notevoli intuizioni critiche, indicazioni valide di lettura, sempre legate però allo stimolo dei suoi ideali di poeta e alla sua simpatia sensibile per gli autori che a quelli, interamente o per particolari componenti della loro opera, piú gli sembrano avvicinarsi. Come è il caso dello stesso Metastasio di cui il Bertola nelle Osservazioni sopra Melastasio coglie i caratteri di chiarezza («limpidezza» dice però precisamente il Bertola con parola anche piú significativa per il risultato piú profondo del poeta dell’Olimpiade) e di musicalità (ma anche di «passione»: né si dimentichi che per Rousseau Metastasio era il poeta del «cuore»), non tanto per un semplice riaffiorare in lui di vero e proprio gusto arcadico, ma (oltreché per la sua disposizione a farsi investire dalla poesia studiata) perché (ciò che non mi sembra sufficientemente spiegato dal Maier) quelle qualità poetiche metastasiane eran presenti attivamente nella moderata sintesi preromantica del Bertola, nel suo ideale di «grazia» (per il valore del quale rimando alle mie pagine sul Bertola nel Preromanticismo italiano). Buone e precise le pagine sui saggi sulla grazia e sulla favola, in cui il Maier opportunamente rileva la ricchezza della cultura letteraria e artistica del Bertola (l’interesse per la pittura è un altro degli aspetti salienti della personalità bertoliana) e la sua tipica maniera di appoggiare esili trame di discorso teorico (in realtà valide soprattutto come prove di gusto e di poetica) su ampie esemplificazioni disposte in pagine di notevole eleganza e suggestione letteraria. Meno approverei la definizione di «critico militante» per quello che essa implica di piú direttamente combattivo e polemico.

Meno impegnativo e piú occasionale è il saggio di Giulio Natali, Aurelio Bertola «letterato alla moda del secolo XVIII», che accenna rapidamente alle prose del Bertola: e dovremo osservare che nella conclusione, in cui si vuole tracciare un’evoluzione del Bertola da «letterato alla moda del secolo XVIII» ad «abate giacobino e libertino» nell’epoca delle «repubbliche italo-francesi», non appare esatta la giustificazione del secondo epiteto in base alla pubblicazione del volumetto Rime e prose («che ci rivela un Bertola poeta senza veli né sentimentali languori della gioia dei sensi») attribuita al 1797, mentre quella stampa genovese non è che la ristampa dei Versi e prose usciti a Siena nel 1776 e forse non ultima causa dell’allontanamento del poeta da Siena.

Ricorderemo infine tre saggi sul Bertola filosofo della storia. Abbastanza interessante – anche se non privo di contraddizioni e di forzature – il primo (Franco Catalano, Note sul pensiero storico di Aurelio Bertola) che attribuisce alla Filosofia della storia del 1787 una notevole modernità di problemi, non impedita dall’esaltazione degli antichi e malgrado una concezione sostanzialmente pragmatica e didascalica della storia, e riconosce poi, non senza sforzo, una certa evoluzione in senso piú moderno e progressivo nelle correzioni successive alla stessa opera e nella Relazione intorno ad un piano di studi per l’Emilia del 1797, in cui appare soprattutto notevole la constatazione di una profonda antitesi fra i ceti popolari italiani e le istituzioni repubblicane e della necessità di una rapida educazione di quelli come sine qua non dell’esistenza stessa della repubblica. Poco incisivo il secondo (Eugenio Di Carlo, Aurelio De’ Giorgi Bertola filosofo della storia), che dubita si possa parlare per il Bertola di vera e propria filosofia della storia (piuttosto una meditazione sulla storia, «una teoria generale da premettere allo studio delle particolari storie, come luce e guida alle stesse»), ma ammette che il Bertola aveva «il senso della complessità storica, del vario intreccio dei fatti, del vario loro influire e combinarsi», e che, molto sofisticamente, cerca di provare la fedeltà del Bertola alla religione cristiano-cattolica «nonostante l’appartenenza alla Massoneria, di cui si ha sicura notizia»: mentre, anche dalle citazioni riportate, par giusto parlare invece di una posizione solo genericamente e vagamente religiosa e consona alla professione massonica ricordata e agli ideali illuministici chiaramente partecipati dal Bertola. Piú divagato ed espositivo il terzo (Giovanni Semprini, Il Bertola e la sua Filosofia della storia), che, dopo un excursus sulla biografia e su altre opere del Bertola, descrive piuttosto esteriormente le varie parti del libro preso ad esaminare. Nel complesso un volume utile, anche se diseguale di livello e di impegno ed anche se proprio certi aspetti centrali del Bertola (a parte il saggio sintetico del Flora) vi appaiono meno studiati. Un invito a scrivere una completa monografia? Ma io penso che il miglior servizio che si può rendere a personalità come quella del Bertola, piú storicamente indicative che fortemente originali, sia ancor quello di presentarle entro lo sviluppo di un disegno storico, come elementi di un’epoca, di un gusto, di una poetica, al cui chiarimento tanto contribuiscono e dalla cui generale diagnosi esse stesse acquistano forza di significato.

Giuseppe Parini, Le Odi, con introduzione di Giovanni Getto, Torino, Editrice Gheroni, 1953, pp. 119.

Si tratta di una edizione delle Odi ad uso universitario, che riproduce il testo fissato da A. Chiari, basato sulla lezione «ultima» (contrariamente a quello dato dal Mazzoni, che si preoccupò della lezione «migliore») nel suo volume Sulle Odi di Giuseppe Parini, Milano, 1943 (ritornando sostanzialmente al testo del Reina): l’edizione è senza commento, ma è preceduta, come guida alla lettura, da una introduzione che è la ristampa di un saggio del Getto uscito sugli «Annali della Scuola Normale di Pisa» nel 1947 con il titolo Umanesimo lirico di Giuseppe Parini. Saggio che mette in primo piano l’ispirazione morale del poeta, la sua concezione rinascimentale ed illuministica che valorizza, mediante un’accurata individuazione tecnica, concreti interessi umani, aspetti della vita, liberi da ogni inclinazione religiosa in senso trascendente, «pertinenti alla stessa realtà fisica dell’uomo, quali la salute, la bellezza, l’amore, il lavoro». Alla illustrazione di questi temi della poesia pariniana e all’accertamento della salda, mondana moralità del poeta (ben distinte da ogni possibile forma di misticismo e di preromanticismo: motivo su cui particolarmente io ho insistito nel capitolo iniziale del mio Preromanticismo italiano) non corrisponde però nelle pagine del Getto una precisa valorizzazione dei forti motivi combattivi, dell’impegno riformatore (e della sua aderenza al momento storico) che concretano storicamente la moralità pariniana, né si accompagna un adeguato studio dello sviluppo delle Odi dalla fase piú schiettamente sensistico-illuministica a quella piú distaccata, meno legata alla cronaca e alla diretta polemica, delle ultime grandi odi neoclassiche.

Sergio Romagnoli, rec. a Lanfranco Caretti, Parini e la critica, Firenze, 1953, «Società», X, 1954, 3, pp. 486-492.

Ripercorre la ricostruzione della storia della critica pariniana fatta dal Caretti (il volume fu recensito nella nostra rivista da S. Antonielli nel n. 4 del 1953) sottolineandone i passaggi e precisandone, pur nel generale consenso, alcuni particolari: come quello dell’opposizione del Verri alla poesia pariniana che il Romagnoli tende a motivare, oltre che su di un piano personalistico, con ragioni storiche, come logica conseguenza del diverso metodo di lotta politica (che al Verri appariva troppo debole e insufficiente nel Giorno pariniano), e come effetto della avversione verriana per la letterarietà tradizionale del Parini; o come l’osservazione limitativa circa la singolarità della lettera ortisiana sul Parini da considerare «anche come espressione di quell’esaltazione che si veniva operando da parte di molti democratici, tra l’89 e i primi dell’Ottocento, della morale grandezza di coloro che erano sentiti maestri di verità, passione, energia: primi fra tutti l’Alfieri e il Parini». Nel corso dell’analisi del libro e nella conclusione il Romagnoli rileva poi l’esigenza particolare del Caretti nella proposta di una nuova sistemazione filologica del testo del Giorno nella sua situazione di elaborazione piú che trentennale, con insoddisfazione costante dell’autore e senza esito conclusivo, e nello studio relativo di tutte le sollecitazioni ambientali e storiche che tale elaborazione accompagnarono.

Ferruccio Ulivi, Ideologia artistica e gusto neoclassico, «Humanitas», IX (1954), pp. 60-83.

In un discorso non sempre ugualmente chiaro e serrato, l’Ulivi traccia l’evoluzione del gusto neoclassico attraverso teorici e critici artistici dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento, in un periodo in cui forse come in nessun altro la cultura subí «le maggiori suggestioni dalla cultura artistica, e viceversa». Evoluzione che, partendo dal «panestetismo » del Winckelmann e dalla interpretazione piú formalistica e platonizzante del Mengs, si arricchirebbe in Italia, nella posizione del D’Azara, di stimoli sensistici cosí efficaci anche nei Principi delle belle lettere del Parini, mentre, a spiegare il periodo successivo a quello «ellenistico puro-winckelmanniano», gioverebbe considerare il filone inglese, attivo in Italia nelle traduzioni delle opere di Hogarth 1761, Reynolds 1778, Webb 1791 (piú ricche di spunti nuovi, di infiltrazioni delle esigenze preromantiche: vicinanza alla natura, esigenze morali e spiritualistiche attive, ad es. nelle confuse aspirazioni del Mazza), le istanze morali e sociali insite nella nuova venerazione della romanità evidente nel Milizia, o in questo l’influsso delle estetiche «influenzate, sia pur vagamente, dallo storicismo vichiano». Ma il fervore del classicismo rivoluzionario e «romano» sarebbe minato già nello stesso Milizia da un fondo di scetticismo pessimistico, particolarmente presente nel saggio Delle leggi del bello applicate alla pittura e architettura del Malaspina di Sannazzaro, spingendo la mentalità neoclassica «dalla nativa concretezza illuminista e sensista, dietro i bruschi richiami della realtà, verso un estetismo bruciato dall’intima delusione»: donde le vibrazioni «di un pathos archeologico prima, poi arcaicizzante e primitivistico» documentato nella notevole opera del Cicognara, con le sue esitazioni fra bello assoluto e relativo, fra psicologismo ed ideologismo idealistico, con il suo gusto attento alle dolci sfumature, con i preannunci della teoria della «bell’anima», con l’inclinazione nostalgica ed elegiaca corrispondente ad una sorta di fatalismo storico, di funeraria poesia della bellezza e della civiltà transeunte. Con l’avanzare dell’Ottocento la concezione neoclassica mostra i chiari segni della sua disgregazione: indici di cui sarebbero l’opera del Delfico con la caduta del «bello assoluto» e l’opposizione di sensibilità a imitazione e quella del Maier in cui piú forte si manifesta la critica alle posizioni classicistiche in nome della ispirazione naturale. Discorso e disegno pieno di accenni e spunti assai interessanti, e caratterizzato da un notevole sforzo di graduare le fasi dello svolgimento del gusto neoclassico anche con riferimenti alle piú generali condizioni dello sviluppo storico e al rilievo della incidenza delle teorie estetiche e figurative sulla letteratura e sulla poetica del secondo Settecento. Ma spesso si tratta di accenni, di allusioni piú che di chiarimenti spiegati (e spesso le caratterizzazioni fan ressa e rendono complicato e poco evidente lo svolgimento del disegno e delle sue varie fasi), in una zona difficile fra storia dell’estetica, storia del costume letterario e del gusto, e vera storia letteraria. E cosí, accennando solo ad alcuni punti (che meglio si chiarirebbero in una compiuta storia dell’ultimo Settecento italiano appoggiata ad una forte documentazione di testi e allo studio di tutta la cultura di quell’epoca ricca e complessa nei suoi residui, nelle sue anticipazioni, nel suo ingorgo di esigenze vere e di velleità, di crisi profonda e di involuzione accademica), si potrà osservare, per quello che qui piú ci interessa, la genericità degli accenni al Parini di cui non si misura il progressivo influsso del Winckelmann al di sopra della sua adesione al sensismo (per il quale rimando al mio saggio Parini e il neoclassicismo in «Rassegna lucchese», 1951) e al Foscolo la cui vicinanza alla posizione del Cicognara appare, come è qui delineata, piuttosto sforzata verso forme di estetismo troppo accentuate. E si osservi in generale che, nello sforzo di tracciare una linea di svolgimento del gusto neoclassico e di rilevare le varie incidenze dei vari teorici e critici in fasi successive, si smorza eccessivamente, per quanto riguarda i possibili riferimenti letterari, la maggiore e persistente presenza di Winckelmann che agí anche direttamente sulla nostra letteratura piú a lungo di quanto qui potrebbe apparire, mentre la volontà di disporre in successione esperienze contemporanee nel giro di pochi anni rende poco sicura la corrispondenza fra la linea tracciata e l’effettiva situazione culturale dell’epoca, come avviene soprattutto per l’intrecciarsi dell’influenza winckelmanniana-mengsiana con quella dei teorici inglesi.

Franco Gaeta, Un ignorato episodio della vita dell’abate Lorenzo da Ponte, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXI, 1954, 394, pp. 195-208.

Illustra un episodio della vita del Da Ponte (taciuto nelle sue Memorie e fino ad ora ignorato da quanti si occuparono del notissimo avventuriero e librettista teatrale) atto a confermare il dubbio avanzato dallo Zaguri, in una lettera al Casanova, circa le attitudini delatorie dell’abate-avventuriero e a chiarire uno dei punti oscuri delle «strane vicende» seguite al bando da Venezia del ’76. Nel ’91, abbandonato dall’amante, Adriana Gabrielli, e sperando di ottenere con tal mezzo la revoca del bando, il Da Ponte ricorse alla delazione del marito della Gabrielli, di cui rivelò le relazioni segrete con la corte pontificia consegnandone la documentazione al podestà di Capodistria, come risulta dal carteggio qui pubblicato e ricavato dal fondo Inquisitori di Stato dell’archivio di Venezia (buste n. 35 e 257).

Giovanni Semerano, Lettere inedite del Cesarotti, «L’Approdo», III, 1954, 2, pp. 62-65.

Dà notizia di alcune lettere «emerse per un caso fortunato fra alcune carte della Riccardiana di Firenze» e dirette a Mario Pieri nel 1803-1804, notevoli per il tono accorato con cui il vecchio letterato annuncia la morte dell’Alfieri e di altri uomini illustri del suo tempo e per alcune considerazioni sui Prolegomeni del Wolf che infastidivano lui, ammiratore dell’opera omerica nel suo valore poetico, con il loro carattere di ricerca scientifica e filologica.

Franco Riva, Ippolito Pindemonte (1753-1953). Ragioni storiche di una malinconia. Estratto dal volume «Studi storici veronesi», 1954, pp. 23.

È una celebrazione del poeta veronese nel centenario della nascita: centenario passato senza adeguate celebrazioni, cosí come passò inosservato il centenario della morte. Strana sorte che non sarebbe però del tutto dispiaciuta ad un uomo tanto signorilmente discreto e, malgrado il culto delle amicizie e la pratica delle relazioni letterarie, cosí lontano dal furore di gloria e dalla vanità egotistica di altri suoi maggiori e minori contemporanei. Dalla considerazione del capitolo sul Pindemonte del mio Preromanticismo italiano e delle pagine del Bosco nel saggio su romanticismo e preromanticismo (in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano, 1949) come prova di una valutazione moderna del poeta (considerato «piú utilmente in un disegno storico della poesia italiana e sicuramente sollevato dal confine di oscura mediocrità nel quale l’ha finora relegato altra critica, filologicamente preparata, ma, nell’illuminazione della sua duplice crisi, lontana e spesso incurante»), il Riva prende l’avvio per il suo tentativo di chiarire e giustificare storicamente il valore preromantico dell’opera e della personalità pindemontiana in un’epoca di crisi, in «una cultura sospesa» non solo letterariamente, ma per le ragioni piú generali che legano gli anni dell’attività pindemontiana alle speranze e alle delusioni degli italiani migliori di fronte alla rivoluzione francese, per l’inquietudine e l’ansia di un rinnovamento poetico e di società. La profondità di quella crisi e di quel personale contributo di nuovi fermenti estetici e sentimentali viene misurata anzitutto nell’esame della Dissertazione sul quesito «quale sia presentemente il gusto delle lettere in Italia», dell’83 (con le sue accentuazioni, pur in una misura di estrema cautela, antirazionalistiche del sentimento, dell’ispirazione, della natura e con nuove accezioni di termini delle discussioni del tempo, come «lo spirito filosofico» e la storia fatta di «riflessioni profonde»), in punti dell’Elogio di G.B. Spolverini (con significative esitazioni sull’uso della mitologia, a proposito delle quali il Riva riporta interessanti dichiarazioni antimitologiche del veronese L. Salvi nella sua Dissertazione intorno l’uso dell’antica mitologia nella poesia moderna, del ’46) e nelle Prose campestri, con le loro dichiarazioni sul valore della solitudine e della malinconia (contro quello che il Riva chiama, con chiaro eccesso, «il vano e rumoroso affaccendamento della stagione precedente»), come conseguenza del «turbamento e della infinita esitazione» del poeta, e sulla contrapposizione di un nuovo senso della poesia e del sentimento alla sterile razionalità del «geometra», «dell’anatomico» («distacco definitivo dalla preoccupazione scientifica dell’ultimo ’700»). Nelle Poesie campestri si cerca poi di precisare la novità dei temi pindemontiani come derivati da un’intima e sincera esigenza della sua anima in crisi e «piú sospirati che esplosi» rispetto alla decisa poetica romantica, e la gradazione preromantica delle sue sensazioni vagheggiate, dei suoi incontri di idillio ed elegia in momenti che il Riva raccoglie non come antologia di risultati, ma come indici atti a chiarire «la ragionevolezza della sua malinconia, del suo inizio romantico, cioè la combinazione tra lo scontro del suo entusiasmo «moderno» con le delusioni pratiche che quella modernità aveva comportato; quindi a sostenere una crisi di poesia con la crisi civile del poeta, che non era affatto una crisi privata». Crisi che nascerebbe entro l’originale aspirazione pindemontiana ad una nuova felicità umana, entro un entusiasmo (provato dalla adesione alle idee liberali implicite negli inizi piú legali della rivoluzione francese: documenti il poemetto La Francia, il sonetto Per l’albero della libertà, la Lettera politica del ’96) che successivamente è turbato dagli sviluppi sanguinosi e militari della rivoluzione, dagli errori dell’applicazione dei suoi principi in Italia.

Si tratta di un tentativo, assai fervido e non privo di interesse, di storicizzare il significato dell’esperienza poetica del Pindemonte, della sua malinconia, del suo preromanticismo nelle condizioni piú generali dell’ultimo Settecento irrobustendone insieme la profondità di novità iniziale e il valore di espressione di una crisi, piú che letteraria, spirituale e storica, ma tale sforzo non appare riuscito né interamente persuasivo non solo perché operato troppo per accenni poco documentati, allusivi (e tutto l’articolo è viziato da una certa sottigliezza letteraria e da un linguaggio approssimativo ed estetizzante), ma proprio perché è eccessivo il credito concesso all’«entusiasmo» del Pindemonte, alla forza iniziale del suo temperamento, alla profondità della sua crisi («strazio, strazio di non entrare dove ambiva di entrare»), alle sue preoccupazioni e alla sua fiducia innovatrici: termini tutti che andrebbero comunque ridotti in limiti di un animo naturalmente moderato, di una sensibilità acuta, ma non tormentosa e drammatica, per non scambiare la sua vicenda con quella di un Alfieri e per non dimenticare quanto di letterario pur vi è nella sua lunga e varia esperienza poetica, quanto vi è di preziosamente edonistico nel suo temperamento. E sullo stesso interesse preromantico della sua dissertazione sul gusto presente o nelle Prose campestri (che certo meritano ancora in tal senso un attento rilievo, come lo meritano coerentemente proprio nella loro qualità di educatissima e sensibile prosa: alla quale io ho dato attenzione, oltreché nel volume citato, nelle note ad un brano riportato nella mia antologia dell’Ottocento, Scrittori d’Italia, III), andranno fatte molte correzioni e riduzioni alle troppo facili valutazioni del Riva, specie quando parla di eccellente o autentico romanticismo per frasi sulla storia, sullo spirito filosofico ecc., a volte solo equivocamente innovatrici e comunque partecipi di tendenze comuni a molti letterati dell’epoca, come su di un fondo di disposizione originale van sempre ben calcolate le sollecitazioni che il letterato attentissimo riceveva dalle letture degli stranieri contemporanei.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 3, luglio-settembre 1954.

Franco Venturi, Saggi sull’Europa illuministica. I. Alberto Radicati di Passerano, Torino, Einaudi, 1954, pp. 278.

Questa nuova eccellente prova del metodo e della ricchezza e organicità degli interessi culturali del Venturi (uno degli storici contemporanei che han piú vivo il senso della complessità della storia e dei valori culturali, etico-politici, sociali che in quella confluiscono e dei rapporti fra personalità e tempo) interessa particolarmente gli studiosi del Settecento italiano ed europeo per la ricostruzione sensibile e precisa di una vivacissima personalità di «libero pensatore» piemontese che nelle sue vicende drammatiche, nelle sue esperienze di cultura e di vita, nello sviluppo del suo pensiero ben rappresenta una singolare esperienza illuministica maturata nelle condizioni particolari del primo Settecento piemontese e svolta poi, a contatto con le correnti del pensiero europeo, fino a posizioni ardite ed estreme, fra le piú avanzate del secolo nella postulazione di un rinnovamento rivoluzionario di carattere insieme religioso e sociale-politico. Lo studioso segue, con attenzione costante alle qualità del temperamento del Radicati e alle complesse condizioni che ne sollecitano le reazioni, i tentativi successivi di pratica attuazione dei suoi ideali, il progressivo passaggio a formulazioni sempre piú assolute e rivoluzionarie. Dalle prime reazioni al chiuso ambiente di una famiglia di nobiltà feudale e terriera (con l’esperienza dolorosa di una prigionia dovuta agli urti con l’autorità paterna e l’avarizia della prima moglie), dall’aprirsi della sua vocazione ereticale a contatto delle dispute fra gli ordini religiosi (controversie piú locali sulla proprietà e validità di immagini miracolose e dispute piú generali del tempo sui riti cinesi) e dell’esperienza feconda dei contrasti nel proprio feudo fra il «consortile» nobiliare e la comunità degli «uomini della terra», il Radicati fu spinto (stimolato anche da un primo viaggio in Francia e da un primo contatto colà con il pensiero illuministico e con l’ambiente protestante della Francia meridionale) a prendere presto posizione nella vita politica e religiosa del suo paese, a inserirsi nella tensione acuitasi nei primi decenni del secolo fra la Curia romana e lo stato sabaudo, e le cui caratteristiche sono magistralmente individuate dal Venturi nelle origini economiche e nelle caratteristiche schiettamente politiche di un regalismo che seppe, per opera di Vittorio Amedeo II, stimolare e frenare, utilizzare e bloccare gli autentici motivi culturali e religiosi dell’avversione anticuriale favorendo la creazione di una nuova piccola classe dirigente fedelissima, ispirata ai principi del giurisdizionalismo, ma disposta a non superar mai i limiti di una linea cauta e decisa nel raggiungere i fini politici di uno stato assoluto e quelle prerogative di indipendenza che a un certo punto vennero assicurate con un concordato con Roma. Prima del concordato il Radicati tentò di collaborare con la politica del re e di volgerla a conclusioni piú radicali accettando l’ideale dello stato assoluto perché capace di attuare una maggiore giustizia sociale e un’assoluta indipendenza della chiesa, ma dopo il fallimento delle sue speranze e l’inutile tentativo di convincere, dall’esilio in Inghilterra nel 1726, il re della bontà delle sue idee riformatrici, l’irrequieto libero pensatore si volse a dare pubblicità ed efficacia piú vasta alle sue idee progressivamente accentuate anche a contatto con la libera vita inglese e dopo il nuovo fallimento del tentativo di approfittare della abdicazione del re e dell’avvento al trono di Carlo Emanuele III. Il pensiero del Radicati passò cosí dal compromesso con il regime assoluto verso forme sempre piú democratiche ed utopistiche, documentate nelle successive redazioni dei suoi Discours e negli altri opuscoli (Christianity set in a true Light, Philosophical dissertation upon Death, Account of the Religion of the modern Canibals) che, con la loro interpretazione del messaggio di Cristo come restaurazione dello stato di natura e della eguaglianza degli uomini nella comunità dei beni attuata dal cristianesimo primitivo, provocarono le indignate reazioni delle autorità religiose inglesi e obbligarono il Radicati a lasciare l’Inghilterra per l’Olanda. Dove (a parte un ultimo tentativo di influire sulla politica italiana – non piú solo piemontese – nella sperata collaborazione con Carlo III di Borbone: interessantissimo cambiamento sia per il definitivo abbandono del Piemonte assolutistico e arretrato di fronte a governi piú aperti alle idee riformatrici europee, sia per l’affermazione dell’idea dell’unità italiana che il Venturi considera «la prima e una delle piú chiare» tra simili affermazioni settecentesche) egli portò le sue idee alla posizione estrema di una «democrazia perfetta».

Posizione che in un ultimo capitolo del saggio viene studiata non piú come elaborazione di pensiero in risposte staccate, affrettate e frammentarie ai problemi trovati nelle situazioni particolari del Piemonte e in esilio, ma come generale risposta del Radicati ai problemi centrali del «libero pensiero», da lui assimilato soprattutto in Inghilterra in contatto con la problematica deistica inglese di cui il Venturi traccia un vasto quadro indicandone la natura e i limiti rispetto alla finale soluzione ardita e consequenziaria del Radicati, avvivata da una particolare utilizzazione di elementi «quietisti» e «antinomisti», dalla esperienza della vita inglese e dal «desiderio di liberazione totale che era nato in lui in contatto e in contrasto col piccolo e vigoroso stato assolutistico piemontese del Settecento». In quest’ultima parte il Venturi sviluppa piú ampiamente le sue qualità di storico delle idee, di studioso particolarmente sensibile ai problemi generali della cultura e ai rapporti fra motivi politici-sociali e motivi etico-religiosi e lo studio sul Radicati appare anche piú chiaramente corrispondere all’assunto di uno studio sull’«Europa illuministica» a cui la appassionata e documentata ricostruzione del pensiero di questo singolare scrittore porta un contributo notevole con l’individuazione di una posizione estrema che è tanto piú singolare se si pensa ai limiti generali di prudenza e concretezza della maggior parte degli illuministi italiani e che d’altra parte si spiega anche proprio per la condizione speciale di un’esperienza cosí difficile e drammatica, di un bisogno di liberazione totale, compresso e deluso, esasperato dai limiti angusti ed ostili della realtà sperimentata in Piemonte (fra il peso di una arretratezza maggiore che altrove e il bisogno quindi di un impeto innovatore piú deciso), e condotto cosí a svilupparsi su di un piano assoluto ed ideale non trovando pratica soluzione ed effettiva autolimitazione in una situazione concreta.

Ma proprio per la complessità della ricostruzione dinamica di una personalità nel suo primo sviluppo, in contrasto e contatto con una situazione storica precisa e indagata nei suoi aspetti sociali, economici, politici, ancora piú suggestiva è la prima parte del libro che intorno alla figura del Radicati ricostruisce la situazione del Piemonte all’inizio del Settecento con una trama sottile e chiara di ricerche, e con una grande ricchezza di precisazione sia sulla politica giurisdizionalista di Vittorio Amedeo II, sia sui singolari riflessi di questa nel tentativo di creare nell’Università di Torino un centro anticuriale che non portò però un vero rinnovamento culturale, limitato com’era alla sua destinazione politica regalistica, sia sulla situazione economico-sociale della nobiltà terriera e dei feudi piemontesi. Da questo punto di vista il saggio del Venturi ci sembra davvero fondamentale per una storia del Settecento piemontese nelle sue particolari condizioni di chiusura assolutistica, nella sua cultura ufficiale rigidamente diretta a creare una classe dirigente strettamente fedele ai fini della monarchia e dello stato assoluto e quindi incapace di accogliere e di sviluppare le esperienze piú intense della nuova cultura europea e l’attività dei temperamenti piú audaci (e quanti limiti ne vengono all’immagine piuttosto retorica e ottimistica degli studi calcaterriani sul secondo Settecento piemontese!) quale furono prima il Radicati e poi Dalmazzo Vasco e l’Alfieri, la cui formazione e la cui reazione all’ambiente piemontese ha qualche analogia con quelle del Radicati. Sicché la descrizione degli atteggiamenti di questo può anche contribuire a illuminare nell’Alfieri la simile situazione sociale, la sua condizione di transfuga della propria classe, il suo sviluppo, a contatto con le idee illuministiche e con la libera vita inglese, verso un estremismo idealistico rafforzato dalla impossibilità di limitarsi nelle forme concrete di una cultura troppo arretrata ed angusta. Accenni da precisare nelle differenze del periodo storico piú avanzato, della particolare ispirazione sentimentale e poetica del grande preromantico, nella sua lontananza da ogni tentativo di impegno nella politica pratica, ma tuttavia importanti per quella storia della formazione alfieriana che in generale è stata troppo calcolata solo in direzione letteraria o nel chiuso di una biografia troppo isolata dalle occasioni e dagli stimoli di una precisa situazione storica.

Giovanni Mastroianni, La letteratura marxista nella «Bibliografia vichiana», «Società», X, 1954, 2, pp. 364-372.

Il Mastroianni si propone qui di «continuare lo studio della fortuna del Vico» al di fuori della polemica recente fra il Nicolini, il Togliatti e il Salinari a proposito dei rapporti fra il marxismo e il pensiero vichiano. In realtà anche questo scritto si rivolge a documentare la asserita tendenziosità delle affermazioni del Nicolini per quel che riguarda la sua accusa di una «trasformazione del Vico in un ultramaterialistico precursore di C. Marx e dei suoi apostoli sovietici» da parte degli studiosi marxisti, notando che i testi russi o marxistici citati non autorizzerebbero tale interpretazione in quanto essi (come anche alcuni luoghi del Lassalle, del Lafargue, del Woltmann) distinguerebbero fortemente la posizione idealistica del Vico da quella del Marx. Piú lunga e particolareggiata precisazione ha luogo poi nei riguardi dei rapporti Vico-Labriola, con lo studio dei quali il Mastroianni si riporta piú centralmente, anche se sempre in polemica con il Nicolini, alla linea dei suoi studi sulla ripresa delle fondamentali intuizioni vichiane (soprattutto la differenza fra natura e storia) nella storiografia di origine marxista. In opposizione ad affermazioni del Nicolini miranti a svalutare o ridurre il legame fra Vico e Labriola, questo legame viene considerato, anche in base ad una diversa constatazione di dati obbiettivi (la sostanziale continuità fra la prima idea di un saggio labrioliano che doveva intitolarsi Da Vico a Morgan e il saggio Delucidazione generale della dottrina che della prima sarebbe solo compiuta elaborazione; la presenza di citazioni vichiane nei saggi labrioliani, l’accertamento che nelle lezioni universitarie romane del Labriola il corso dell’87 era dedicato a «Vico precursore» come appare da una sua lettera al Croce del ’94, pubblicata recentemente dal Corsi, Le origini del pensiero di Benedetto Croce), assai intimo, rafforzato nella formazione del pensiero labrioliano dalla interpretazione vichiana dello Spaventa (confermata da una lettera del Labriola ad Engels) e tale da confortare il Labriola, come già sarebbe avvenuto in Marx, alla netta distinzione fra il proprio materialismo storico e il materialismo astrattamente modellato sulle scienze naturali.

Bruno Barillari, La posizione e l’esigenza del Gravina e altri saggi, Torino, Impronta, 1953, pp. 118.

Tra i diversi saggi raccolti in questo volumetto, il cui interesse dominante è di carattere giuridico e storico-politico (e per lo piú troppo disposto a formule celebrative ed elogiative), ricordiamo, per quel che può riguardare la nostra rassegna settecentesca, uno scritto sulla formazione intellettuale del Vico e gli scrittori cosentini (tema che poteva avere piú largo e utile sviluppo se avesse documentato le sue asserzioni troppo generiche e affrettate circa i contatti del Vico con gli scritti del Caloprese, Cornelio ecc. nel periodo formativo del soggiorno di Vatolla) e alcuni brevi saggi graviniani che si riferiscono ai precedenti studi del Barillari (Preestetica e filosofia del diritto in G.V. Gravina, Bari-Napoli, 1937, e G.V. Gravina precursore del Vico, Napoli, 1942) e insistono soprattutto, ma in forme poco approfondite – piú disposte in accenni che in serrata dimostrazione –, sull’importanza della posizione filosofica (soprattutto in sede di filosofia del diritto) ed estetica del Gravina, specie per quel che riguarda la presenza e l’anticipo delle sue intuizioni rispetto al pieno svolgimento del pensiero vichiano: La posizione e l’esigenza del Gravina, Le orazioni di G.V. Gravina, Il giudizio intorno a Dante di G.V. Gravina. Piú interessante è quest’ultimo saggio che illustra rapidamente l’importanza del giudizio dantesco del Gravina, il suo significato decisivo nella polemica antibarocca e il suo legame con la intuizione graviniana della poesia teologica e legislatrice, considerata come base della concezione vichiana della poesia. Ma anche in questo caso, mentre manca quel saldo inquadramento nella storia delle origini arcadiche che avrebbe conferito al giudizio dantesco graviniano tutta la sua complessa novità di fronte alle diverse interpretazioni e alle proposte programmatiche del Crescimbeni, del Muratori e agli sviluppi del gusto e della poetica dell’Arcadia e del pieno Settecento (in cui si può misurare l’incidenza della lezione graviniana piú forte nella fase neoclassica e certo attiva anche fuori d’Italia, secondo quanto han fatto vedere, con molte esagerazioni, i noti studi del Quigley e del Robertson), appare troppo generica l’affermazione della decisiva influenza graviniana sul Vico, dati gli evidenti e diversi limiti del Gravina rispetto al Vico, il cui pensiero estetico è certamente tanto piú profondo ed unitario. Conclude il volume una bibliografia graviniana che è però parziale, poco ordinata cronologicamente e soprattutto orientata, secondo l’interesse inizialmente notato, nella direzione del Gravina filosofo del diritto.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 4, ottobre-dicembre 1954.

Maurice Vaussard, Les lettres de Giovanni Lami sur la France, «Revue des études italiennes», I, 1954, 1-3, pp. 72-94.

Quest’articolo è contenuto nel primo fascicolo (ricco di articoli e recensioni soprattutto di argomento dantesco che saranno schedati nel prossimo numero della nostra rivista) della rinata «Revue des études italiennes», l’importante organo della parigina Société d’études italiennes, fondata da Henri Hauvette e ora diretta da Henri Bédarida, al quale porgiamo i piú vivi auguri e i rallegramenti cordiali per aver ripreso una pubblicazione cosí utile e cosí benemerita nel campo degli studi francesi di letteratura italiana.

Il Vaussard presenta e pubblica dodici lettere inedite di Giovanni Lami, il noto erudito fiorentino del ’700, il direttore delle Novelle letterarie (1740-1770), la cui figura fu piú recentemente studiata (proprio nei riguardi del suo interesse per la Francia, dove il Lami soggiornò nel ’29-30) da Carlo Pellegrini in un articolo apparso nel «Giornale storico della letteratura italiana» del 1940, raccolto poi in Tradizione italiana e cultura europea, Messina, 1947, pp. 103-125. Si tratta di lettere familiari (tratte dalla corrispondenza inedita del Lami posseduta dalla Biblioteca Riccardiana di Firenze e dalla quale lo studioso francese si propone di rilevare e pubblicare altre lettere scritte dalla Germania) assai interessanti per alcuni giudizi sulla situazione religiosa francese e sull’ammirata lucidità mentale dei francesi («i francesi hanno la mente lucida e studiano tutti e tutti la sanno discorrere») e soprattutto sulla piacevole, comoda, intensa vita parigina descritta in un quadro simpatico che sembra quasi un anticipo minore e piú smorto di quello entusiastico che piú tardi ne farà il Goldoni nei suoi Mémoires.

Giuseppe Silvestri, Un europeo del Settecento, Treviso, Libreria Editrice Canova, 1954, pp. XVII-290.

Si tratta di un volume celebrativo del secondo centenario della morte di Scipione Maffei (11 febbraio 1755); volume la cui destinazione divulgativa, non scientifica, secondo le precise dichiarazioni dell’autore, ci esime comunque da un esame particolareggiato. Diremo solo che l’ampia e particolareggiata presentazione delle vicende biografiche e della varia attività del Maffei come erudito, storico, letterato (con notevoli indicazioni dei suoi interessi civili e politici), è in generale piú intonata alle forme di un elogio affettuoso e reverente, da parte di uno studioso veronese, dell’illustre concittadino che non a quelle di una vera storica valutazione del Maffei entro un quadro del primo Settecento italiano. Quadro che non è stato sufficientemente approfondito, specie per quel che riguarda il suo aspetto letterario e la cultura arcadica non ben calcolata nei suoi elementi piú seri, nel suo impegno di riforma del «buon gusto», nella cui direzione fondamentale e nella cui ricchezza di soluzioni e di fasi si sarebbe dovuto precisare la posizione del Maffei: sia con il suo Discorso per l’apertura della colonia arcadica di Verona, sia con la sua polemica sulla poesia del Maggi, sia con la sua traduzione dell’Iliade, sia con la sua opera di riformatore del teatro. Posizione equilibrata e prudente, letteraria e pratica piú che ricca di vera ispirazione teorica e poetica, come si può soprattutto verificare nella Merope che cosí ben rappresenta l’equilibrio maffeiano fra le varie soluzioni di riforma teatrale arcadica, con la sua ricerca di un «verseggiar naturale maestà serbando e decoro», con il suo gusto sobrio di idillismo e di lieto fine recuperati in una modesta, «verisimile» tensione drammatica e nel carattere medio e decoroso dei personaggi. Né pensiamo che torni a vantaggio del Maffei (a parte l’inaccettabile forzatura del «Voltaire italiano», che del resto l’autore riporta con un «forse» quanto mai opportuno) il lungo paragone finale con la tanto maggiore ricchezza di spunti ideali, teorici, storici del Muratori. Il che non significa rifiutare l’importanza di questa ricca personalità che ebbe oltre tutto un rilievo cosí riconosciuto nella stima dei contemporanei e tanto attivamente operò nella cultura del primo Settecento, specie nel rinnovamento dell’erudizione storica, ma significa non dimenticare quegli effettivi limiti di valore e di significato, che sono essenziali alla sua obbiettiva caratterizzazione.

Giovanni Necco, La letteratura italiana nella critica di Herder, «Nuova Antologia», LXXXIX, 1954, 1843, pp. 317-326.

Partendo dall’ideale estetico herderiano «sintetizzato nel quadrinomio: antichità-religione-moralità-eterno femminino», il Necco ne utilizza i vari motivi per spiegare i giudizi dello Herder sulla letteratura italiana e i suoi principali autori. Piú intera l’accettazione del Petrarca di cui il preromantico sottolinea particolarmente il Fernweh, piú incerta quella di Dante il cui poema è giudicato frammentario e vivo soprattutto nelle sue «situazioni umane» (ed ecco un altro motivo preromantico, piú interessante certo della scarsa simpatia confessionale, a motivare il giudizio insoddisfatto di Herder per gli elementi teologico-scolastici della Commedia); mentre per il Boccaccio il moralismo prende la mano allo scrittore, che finisce per scagliarsi contro il mondo corrotto delle novelle (mondo ecclesiastico e diffuso da ecclesiastici) perdendo di vista anche lo stesso possibile rilievo della satira o della condanna boccaccesca. Significativo invece l’entusiasmo per l’Ariosto «grande, gigantesco, divino», creatore assoluto di sogni, poeta della fantasia libera, come appare, ma in un giudizio piú sinuoso e ricco, allo stesso Goethe.

Naturalmente l’interesse maggiore di Herder va a scrittori filosofico-politici e storici: Sarpi, Telesio, Bruno e Campanella, Machiavelli, del quale egli mostra una comprensione storica assai notevole (diversa dalla giustificazione di tipo settecentesco e foscoliano), mentre il pregiudizio della distinzione fra genio e gusto lo portava ad un giudizio fortemente limitativo dell’epoca rinascimentale, come epoca del formalismo e del predominio di un atteggiamento estetico e idillico-musicale, che si trasformerà in una generale spiegazione della natura italiana: «L’italiano con la sua musica, la sua arte, e in un certo modo, persino con la sua poesia, rimane sospeso in un mondo ideale, che non gli lascia mai toccare il terreno solido». Interpretazione che mi sembra incoraggiata anche dallo studio herderiano della poesia arcadica (egli traduttore per le «Stimmen der Völker» di rime della Maratti-Zappi o del Frugoni) a cui meglio si addice quest’altra definizione della poesia italiana in generale: «In tutti i poeti italiani le note prevalenti sono la conversazione e il canto: essi conversando cantano, cantano poetando».

Un altro momento di interesse vivo e piú moderno dello Herder per la letteratura italiana è quello costituito dai filosofi e storici meridionali del ’700 e particolarmente dal Vico, il problema della cui precisa influenza e della consapevolezza in Herder di tale influenza è però dal Necco lasciato in sospeso e riferito al dubbio espresso in proposito dal Croce (La filosofia di G.B. Vico, Bari, 1922, p. 319).

Questa rapida rassegna (a cui occorre molto spesso portare l’integrazione di un generale inquadramento dei giudizi dello Herder nella generale atmosfera dell’ultimo Settecento) può essere premessa ad uno studio piú ampio e piú approfondito sui giudizi di scrittori tedeschi del periodo preromantico sulla letteratura italiana, utile sia per l’arricchimento che ne può venire alla storia della critica di singoli autori, sia per individuare meglio le suggestioni che alla generale storia della critica, nelle sue applicazioni alla nostra letteratura, sono state offerte da quel singolare e deciso movimento di gusto preromantico tedesco al cui centro si trova appunto Herder.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1955.

Piero Bigongiari, Introduzione al Clasio, «Paragone», VI, 1955, 62, pp. 42-52.

Dopo una distinzione tra mito e favola («il mito è sempre a fondo religioso, la favola a fondo razionale»), il saggio descrive i caratteri dell’arte del Clasio (capacità di invenzione di un tempo ritmico particolare per ogni favola, pennelleggiatura «con tocchi argutamente essenziali» entro «una chiarità lattea» che riflette una particolare pacatezza d’animo, facoltà di render concrete verità sentenziose in un «accostamento» e vagheggiamento «delle cose»), i suoi contatti con l’epoca fra Arcadia e illuminismo sensistico, le riprese di toni letterari e popolareschi con cui il favolista avrebbe cercato di «vincere la tentazione arcadica»: e cioè l’utilizzazione del tono ariostesco mutuato anche nella «musica lunga» della sua sestina, del malizioso-comico del Morgante, del fresco canto sentenzioso popolaresco.

In realtà questa lettura sottile, sensibile e impegnata a rilevare al massimo le qualità originali del favolista di fine Settecento, finisce per mostrare il suo carattere troppo generoso e una certa innegabile arbitrarietà nel suo sforzo di mediare al gusto moderno il breve, gracilissimo incanto del Clasio: sia con il riferimento di procedimenti clasiani a procedimenti di poeti dell’Ottocento e del Novecento (Pascoli o magari Poe; e piú gradevole semmai il riferimento a certi aspetti d’arte novecentesca toscana fra fantasia e ironia: Lisi e Palazzeschi), sia con il confronto arduo e sproporzionato del piccolo favolista – anche se naturalmente per poi distinguerlo e limitarne la novità – sul metro dei miti e del senso dell’infinito leopardiani (con accentuazioni di «brividi» e di «romiti incanti» in un mondo sentimentale piú elegante e pacatamente ironico che comunque inquieto e ricco di presentimenti), sia con la ricerca di «strane componenti» nel «settecentismo» del Clasio. Ché queste non erano poi cosí «strane» nella cultura letteraria settecentesca, molto piú ricca – anche già nella vera e propria epoca arcadica – di quanto qui appaia. Non solo l’Ariosto era ben presente nel Settecento sin dalla prima fase d’Arcadia (e si pensi almeno al Ricciardetto del Forteguerri), ma lo stesso gusto del popolaresco, del «realismo gergale», era tutt’altro che «un bel salto» che il «reazionario» Clasio avrebbe fatto rispetto ai pastori d’Arcadia, se proprio Il lamento di Cecco di Varlunga in morte della Sandra e la Sandra da Varlungo (componimento questo che il B. non cita e che riprende persino le stesse parole-rime di ogni verso del modello) sono esercitazioni di idillio rusticale direttamente legate al celebre Lamento di Cecco da Varlungo di Francesco Baldovini, amico del Redi e del Fagiuoli, e ben qualificabile nell’ambiente cruscante e prearcadico fiorentino di fine Seicento. Cosí come negli stessi sonetti pastorali certo gusto di concretezza fisica e di saggezza morale (insaporita nel Clasio da un gusto piú sensistico di scrittore di fine secolo: e perché parlare per quest’epoca di sensismo avant-lettre?) è anche una ripresa (e in alcuni casi la ripresa è sin di schema, di temi, di intonazione pur sapientemente protratta in una zona piú sua) dei sonetti pastorali del prearcade fiorentino Benedetto Menzini (ed anzi di questo l’offerta piú esemplare e ammirata per i sonettisti pastorali d’Arcadia). Si tratta cioè, nel caso del Clasio, di una esperienza letteraria ben appartenente alla cultura letteraria di origine arcadica anche se in una zona piú sensistica e matura e particolarmente collegata, in ambiente cruscante, a quella tradizione fiorentina prearcadica e arcadica che in gran parte elimina un diretto richiamo del Clasio a forme piú antiche e riduce l’ampiezza del suo ricorso ad esperienze popolari piú immediate e «antiarcadiche».

Nicola Matteucci, Alberto Radicati di Passerano, «il Mulino», IV, 1955, 1, pp. 44-55.

Espone il problema critico del Radicati quale fu impostato dai primi giudizi del Gobetti e dell’Alberti (piú impaziente e antinomico il primo, che qualificò il Radicati come illuminista e «protoromantico», come originale ed eclettico, e che pure ebbe il grande merito di portar per primo luce e attenzione su quella figura complessa e difficile; piú disteso e analitico il secondo che, nella sua monografia del 1931, tentò una giustificazione completa degli interessi politici e religiosi del Radicati di fronte alla valutazione piú nettamente politica del Gobetti), osservando come queste prime stimolanti indagini non furono usufruite da chi, come il Natali e il Calcaterra, ignorò o disconobbe completamente la presenza del Passerano nella storia della cultura italiana e piemontese del Settecento, sia a causa di una prospettiva cronologica che limitava il «rinnovamento» solo alla seconda metà del secolo, sia, e ben piú, a causa del mito di una autoctona tradizione italiana, libera da ogni influenza straniera («mito congiunto ad uno schietto moderatismo politico», per non dire all’angusto nazionalismo di origine giobertiana e persino adesione alla tesi sabaudo-piemontese del Risorgimento pur presente nel Nostro imminente Risorgimento calcaterriano). L’utilizzazione e il superamento di quei primi giudizi in una vasta e profonda interpretazione storica sono invece rappresentati dal recente volume di Franco Venturi, Alberto Radicati di Passerano, Torino, 1954 (recensito in questa «Rassegna», n. 3, 1954) di cui il Matteucci espone le complesse linee costruttive fermandosi poi sull’esame di tre elementi da lui rilevati nella monografia recensita: riforma, libertini, quietismo, allo scopo non di corregger «la sicura e fine ricostruzione del Venturi», ma di «insistere maggiormente sulla parte piú originale del Passerano: la sua teologia della storia».

Per il primo punto il Matteucci pensa che si debba dare uno scarso valore alla conversione protestante del Radicati (su cui era incentrata l’interpretazione dell’Alberti) perché il protestantesimo di Calvino e di Lutero sarebbe stato per il ribelle piemontese «solo una etichetta esteriore della sua conversione che portava invece in sé altre esperienze, quella appunto contro cui il calvinismo era in lotta: il Cristo legislatore e il comunismo, e anche questi in un’accezione nuova, piú moderna». Quanto agli elementi libertini presenti nel pensiero del Passerano, il Matteucci propone una migliore precisazione della originalità di quel pensiero rispetto agli esprits forts francesi e della sua maggiore vicinanza a vere e proprie posizioni illuministiche, come propone di accentuare la trasposizione su piano politico dello stesso ideale quietistico di libertà interiore: trasposizione da cui nascerebbe la parte piú sconcertante, ma anche il maggior interesse del pensiero del Radicati, la sua teoria della storia, distinta dal deismo e dalle altre correnti religiose settecentesche per una volontà pratica di trasformazione sociale a cui non sono estranee le esperienze delle scoperte geografiche e del mito del buon selvaggio (il M. si riferisce qui ad un suo saggio, Il mito dei primitivi, «il Mulino», 1953). Cosí, secondo il Matteucci, se «le formule sono ancora religiose», l’originalità del pensiero del Passerano «è laica, e l’evoluzione del concetto di natura che assume un significato sempre piú materialistico è significativa»; e l’interesse politico sembra dunque l’elemento centrale della problematica di A. Radicati «nel suo lungo itinerario dalla politica militante nello stato piemontese alla intuizione di una utopia in mezzo alle grandi lotte culturali dell’Europa illuminista».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 2, aprile-giugno 1955.

Sergio Bertelli, La crisi dello scetticismo e il rapporto erudizione-scienza agl’inizi del secolo XVIII, «Società», XI, 1955, 3, pp. 457-480.

Partendo dalla constatazione dell’interesse degli eruditi del primo Settecento italiano (Muratori, Maffei, Bacchini) per le scienze, interesse naturale dato che proprio dalla ricerca scientifica essi attingevano le forze per l’affinamento del loro metodo, per la scoperta della verità e la sua affermazione contro il dilagare del pirronismo post-cartesiano, il Bertelli studia la crisi di quel particolare scetticismo che nella seconda metà del sec. XVII investí il problema della critica storica con la scissione, di origine cartesiana, fra il campo delle conoscenze naturali e la storia, fra la sicurezza della ragione matematica e delle costruzioni metafisiche del sapere e la relatività della conoscenza storica. A questo scetticismo storico, la cui formulazione chiara è raggiunta dal Bayle e dall’Huet (piú deciso il secondo, piú complesso il primo che tende pure a riaffermare, attraverso il dubbio metodico, la certezza dell’accadimento, della narrazione storica), si contrappone la posizione di Pierre Sylvain Régis e quella di tutta la scuola newtoniana che nell’acquisizione del metodo induttivo-classificatorio vede il superamento di ogni astrattezza di sistema combattendo la metafisica cartesiana fino alla conciliazione della «physique newton-cartésienne» del Poullain che è frutto di uno stadio piú avanzato, a metà del sec. XVIII.

Nel periodo di primo Settecento il mondo erudito si impadronisce della centrale esigenza newtoniana (prove contro ipotesi) e della essenziale istanza empiristica ed è proprio nell’accanito lavoro storico-erudito che si rafforza l’interesse per la storiografia non piú considerata quale esercizio oratorio secondo la concezione umanistica, come si può vedere nella Storia universale del Bianchini basata sulla necessità di accertare la validità e veridicità dei documenti, dei monumenti del passato. «Come nella ricerca scientifica, vigeva ormai anche nella produzione erudita il principio della classificazione, mentre il testo, il documento assumeva la stessa funzione dell’esperimento».

In questo complesso rinnovamento degli studi storici, che pone la premessa della storiografia illuministica, il confluire della metodologia newtoniana e delle istanze di quella leibniziana porta a superare (non senza il concorso in Italia, pensiamo, della tradizione sperimentale della scuola galileiana) i «pericolosi abusi dello scetticismo post-cartesiano».

Fausto Nicolini, Saggi vichiani. Serie prima, Napoli, Giannini, 1955, pp. VIII-340.

Come informa la nota bibliografica iniziale, il volume raccoglie saggi di varie epoche, rappresentanti particolari fasi e scandagli della lunga, appassionata attività vichiana del Nicolini, e, per la maggior parte, piú recentemente rielaborati. Il primo scritto, G.B. Vico nella vita e negli scritti, già pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana» del 1925, ma rielaborato poi come introduzione alla traduzione francese del Doubine della Scienza nuova seconda (Parigi, Nagel, 1954), costituisce una generale sintesi della ricostruzione vichiana del Nicolini riassunta in un lucido e completo ritratto del grande filosofo napoletano, della sua vita interiore e del suo sviluppo ideale alla luce della interpretazione idealistico-crociana di cui il Nicolini è tenace assertore e diffusore: e in tal senso questo primo saggio fa da premessa non solo a questo primo volume, ma a quelli che seguiranno fra breve raccogliendo tutta la produzione vichiana dell’illustre studioso. Di carattere piú particolare è invece il secondo saggio – Divagazioni omeriche – che occupa la maggior parte del volume ed offre una vasta monografia sulla questione omerica tra la metà del Seicento e il Settecento, incentrata sulla valutazione ed interpretazione degli scritti omerici del Vico. Anche questo saggio riprende un vecchio volumetto del 1919, ma lo rielabora profondamente e lo integra con una parte interamente nuova già anticipata (ad eccezione di alcune nuove appendici) in una memoria degli «Atti dell’Accademia dei Lincei» (serie VIII, vol. V, fasc. 10) dal titolo Sugli studi omerici del Vico, di cui fu dato ampio resoconto in questa rassegna del Settecento nel n. 4 del 1954.

Se nella nuova parte (per la quale rimandiamo alla scheda già citata) l’impegno e la lucidità del Nicolini si rivelano efficacissimi nella distinzione e valutazione delle tre tesi vichiane (estetica, storica, filosofica) e nel rilievo del loro complesso sviluppo attraverso le varie fasi del pensiero vichiano – e in questa parte si raccolgono le osservazioni piú importanti sulla novità e originalità, sul significato particolare e generale dei giudizi omerici vichiani (specie per quanto riguarda la tesi estetica, di gran lunga la piú importante e rinnovatrice per il nesso Omero-fantasia, Omero-sapienza poetica che tanta importanza ha avuto nei fondamenti della estetica e critica romantica) –, anche la parte derivante dal volumetto del ’19 appare piena di interesse e, mentre contribuisce a far vieppiú risaltare l’altezza e la superiorità dell’atteggiamento vichiano di fronte alle posizioni precedenti e contemporanee degli omerolatri e degli antiomerici piú legati ai termini di un insufficiente pensiero estetico, all’angustia della «querelle» antichi-moderni e ai limiti dell’intellettualismo e antistoricismo di origine cartesiana, offre un quadro gustoso e vivace (anche se forse anche troppo disposto in forme polemiche e meno attento all’indicazione di un gusto, malgrado tutto, in movimento e al significato della «querelle» nella storia della poetica settecentesca) degli equivoci e delle remore entro cui si dibattevano i protagonisti della questione omerica in Francia, delle storture, delle incomprensioni, degli errori estetici, filosofici e storici che soprattutto si possono cogliere nel primo avventato fautore della genesi per aggregazione di leggende popolari dei due poemi omerici e della confusa negazione dell’esistenza di Omero. Quel D’Aubignac a cui il Nicolini toglie del resto il primato di tali tesi (già implicite nell’attacco antiomerico del Boisrobert) e di cui egli tratteggia un ritratto piacevole e implacabile di pedante vanitoso e di pessimo gusto, oltreché ignorante del greco e delle stesse conoscenze storiche che la cultura del suo tempo poteva offrirgli, mosso a formulare tesi improvvisate e contraddittorie dal suo livore di scrittore mancato, e invidioso del successo di Corneille, e d’altra parte già svalutato ai suoi tempi e ben distinto poi, nella vacuità delle sue Conjectures, dalla diversa serietà della tesi wolffiana, nel giudizio equilibrato ed acuto che ne dette piú tardi il Cesarotti. Il volume è completato da un’ultima sezione, Varia, che raccoglie tre scritti: uno chiarisce il senso di un parallelo vichiano fra Giappone e Roma antica nel V libro dell’ultima Scienza nuova, uno (pubblicato già in appendice all’VIII vol. dell’edizione nicoliniana delle Opere del Vico) precisa le vicende e il contenuto della dispersa lezione di prova preparata dal Vico per il concorso alla cattedra mattutina di diritto civile, uno (già pubblicato nella «Critica» del 1941) ricostruisce i rapporti fra il Vico e la censura ecclesiastica, falsati da una tradizione derivata da Antonio Genovesi e ora definitivamente chiarita con una interessante precisazione delle incertezze del filosofo fra remore prudenziali (che lo avevano indotto ad accettare alcune modifiche di passi in contraddizione con il testo biblico, suggeritegli dal censore ed amico G.N. Torno) e la coscienza profonda delle proprie opinioni che prevalse nella definitiva stesura della Scienza nuova con l’abolizione di quelle modifiche contrastanti e compromissorie.

Arturo Pompeati, La «Merope» di Scipione Maffei, «Bollettino della Società letteraria di Verona», XXV-XXVI, 1953-1954, pp. 1-4.

Breve e garbato saggio commemorativo sulla famosa tragedia maffeiana di cui il Pompeati rileva la genesi letteraria (esempio concreto di una riforma del teatro tragico italiano sulla base di un eclettismo intelligente e di buon gusto), la sua grande fortuna nel Settecento in Italia e fuori di Italia (con l’eccezione vistosa della gara e della critica del Voltaire e poi con quello del rifacimento e del giudizio limitativo dell’Alfieri), cercando poi di assicurarle – pur nella constatazione del carattere frammentario dei personaggi, dell’«alternarsi delle intenzioni compositive» e del «passare da modi elegiaci a modi crudi ed esasperati, da effusioni pittoriche a scorci brutali» – «una qualche sostanza poetica ed umana», «qualche momento di piú vigilata poesia», ritrovati soprattutto nella espressione schietta e semplice del sentimento materno di Merope e in alcuni squarci lirico-elegiaci, in cui il motivo arcadico della pace pastorale acquisterebbe una pacatezza e sincerità particolari. Il carattere commemorativo e la stessa brevità del saggio non offrono la base per una discussione particolareggiata, ma vorrei almeno notare che il carattere di efficace eclettismo e di compromesso della Merope fra le esigenze piú sintetizzabili delle varie proposte di riforma del teatro tragico del primo Settecento arcadico dovrebbe esser molto piú chiaramente affermato e collegato al tono medio che il Maffei perseguí e raggiunse nella sua tragedia-esempio, sia nella direzione dei sentimenti e delle situazioni (e non mi pare che si possa parlare di «scorci brutali», di «modi crudi ed esasperati» se non assumendo il punto di vista della intransigente «delicatezza» e «bienséance» del Voltaire), sia in quella di un misurato recupero di melodramma nel dramma, di canto nel «ragionar naturale» («maestà servando e decoro») secondo i precisi intenti del Maffei, particolarmente realizzati nel suo sciolto affabile e dignitoso, nel suo dialogare poco intenso e mirante soprattutto a chiarezza e naturalezza (e che all’Alfieri parve un gusto di mediocrità «chiaretto e semplicetto» come i personaggi della tragedia). Un testo, insomma, la Merope, da immergere ancor piú decisamente nella poetica arcadica, nel suo desiderio di organicità, di naturalezza, di comprensibilità, e da ricondurre ancor piú chiaramente alla posizione «media» del Maffei, a quella sua misura letteraria ed umana che gli permisero di ottenere il plauso dell’epoca arcadica, il riconoscimento di riformatori fra loro contrastanti i quali in quell’abile, efficace sintesi videro realizzate le loro esigenze piú accordabili e quella «rappresentabilità» teatrale che il Maffei, letterato attento alle esigenze pratiche dello spettacolo, meglio di loro riuscí ad ottenere. Che poi anche la Merope sia ben lontana da una vera vita drammatica e corrisponda piú ad un’aspirazione che ad un’ispirazione tragica (tragedia nei limiti dunque di un animus per sua natura privo di profondi elementi tragici), lo può ben dimostrare il «rifacimento» originale dell’Alfieri tutto teso a drammatizzare (anche se con adattamenti relativi a questo difficile compito fra creativo e critico e, d’altra parte, con un esercizio di linguaggio e di situazioni che non fu inutile alla successiva espressione di un «mondo minore» e di sentimenti piú familiari e normali nel Saul e nella Mirra) l’inclinazione piú melodrammatica e discorsiva del testo maffeiano.

Ferdinando Cesare Farra, Parini dialettale, «Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere», LXXXVII, 1-2, 1954, pp. 129-164.

Dopo aver ricordato il particolare fiorire della poesia dialettale milanese tra fine Seicento e Settecento (Maggi, Birago, Tanzi, Balestrieri, Simonetta, Larghi, Giulini, Ottolina, Marliani, Corio, Bellati, Garioni, Zanoia, Pellizzoni) e la giustificazione della validità del dialetto meneghino da parte del Parini nelle celebre polemica contro il padre Branda e nello scritto sulle poesie del Tanzi, poeta che il Parini particolarmente ammirava e proponeva, come esempio di realizzazione della sua vigorosa coscienza della possibilità espressiva di ogni lingua nell’accordo di «appassionato» e «popolare» («Egli sapeva che la vera poesia dee penetrarci nel cuore, deve risvegliare i sentimenti, dee muovere gli affetti. Egli sapeva che ogni popolo ha passioni: che questo le esprime nel suo linguaggio, che qualsivoglia linguaggio acquista una particolare forza ed energia nella bocca dello appassionato; che la poesia raccoglie questi segni energici della passione, gli ordina ad un fine, li riunisce in un punto, e produce l’effetto che intende, e che conseguentemente ogni lingua, qual piú, qual meno, è capace di buona poesia»), il Farra esamina la produzione dialettale del Parini e ne propone una edizione piú sicura delle precedenti.

Ed è questo tentativo di stabilire la sicura silloge dei componimenti dialettali pariniani e la loro lezione la parte piú interessante del saggio, assai poco incisivo invece per quanto riguarda la introduzione già ricordata (che tien poco conto del clima di rinnovamento prearcadico e arcadico in cui la poesia meneghina si afferma tra fine Seicento e primo Settecento e mostra scarsa conoscenza delle particolari condizioni di gusto del Maggi fatto vivere «in pieno marinismo» e legato, nella sua «riforma», solo ad un generico stimolo morale «controriformistico») e assai ingenuo nella interpretazione psicologica dei componimenti pariniani (nel bel sonetto per la morte del Balestrieri il tono commosso-sereno vi è sforzato fino a presunti «singhiozzi»). La silloge pariniana è precisata in un componimento di sette quinari e in quattro sonetti (ché il Farra esclude il sonetto al Sur Iseppe Carpan attribuito al Parini nella «Biblioteca italiana» del febbraio 1825 e assegnabile invece al Pellizzoni in base ad argomentazioni assai ragionevoli) e di questi il Farra dà un testo con varianti che appare assai migliore di quello del Mazzoni e del Bellorini tenendo conto di quei «brianzolismi», di quelle volontarie «coloriture rustiche» non sempre accertate e comprese dai precedenti editori.

Pietro Citati, Per una storia del «Giorno», «Paragone», V, 1954, 60, pp. 3-28.

Accettando la soluzione del problema testuale proposto dal Caretti (nel vol. IX degli Studi di filologia italiana), questo saggio vuole indicare il lavoro che spetta all’editore moderno di restituire la storia interna di ogni poemetto. Se il Meriggio e il Vespro non offrono difficoltà e la Notte viceversa richiede una visione diretta degli autografi, nel caso del Mattino si può giungere ad una soluzione soddisfacente già in base all’apparato Bellorini calcolando il ms. I (che il Reina datava fra il ’70 e l’80 e che appare invece assai piú tardo, anche in relazione ad alcuni cambiamenti di «moda» nel costume dei personaggi riportabile agli anni della rivoluzione) come conclusivo rispetto al lavoro trentennale di correzioni e di accrescimenti. Su tale base il Citati studia nelle correzioni la revisione pariniana affidata «alle doti minori di una sapiente amministrazione letteraria»: carattere questo piú chiaro nel caso delle correzioni strutturali che tendono ad ovviare dall’esterno alle lacune compositive del Giorno in forme di maggiore coerenza narrativa e tonale, legate ad una illusione unitaria che tanto piú rafforza «l’impressione di un’arte frammentaria e preziosa a cui si sovrappone dall’esterno una volontà contrastante» e produce effetti «rovinosi» nella coincidenza solo velleitaria di satira e decorativismo in direzione eroicomica. Piú all’interno la progressiva nobilitazione del linguaggio nel rapporto «oggetti-tradizione letteraria» o «sensismo-classicismo» («l’equilibrio del Giorno resta sostanzialmente immutato sulle sue basi, e si tratterà piuttosto di confermare i risultati raggiunti; ma non si può nemmeno escludere una lieve alterazione delle dosi, un graduale spostamento») porterebbe ad un impoverimento di tessuti e a una diminuzione di forza poetica.

Ma vi è anche una possibilità di seguire la storia del Giorno come storia dell’atteggiamento del Parini di fronte alla società e alla politica, anche se ciò appaia particolarmente difficile «in base ai testi che possediamo». Ed è a questo altro aspetto della sua indagine che il Citati volge il suo saggio dopo un lungo e interessante esame dello sciolto pariniano, dei suoi tipici procedimenti (l’inversione «come mezzo per captare, circoscrivere una cosa o un’azione»), del suo significato storico («inversione al limite del verso» che porterebbe la ricerca del Parini su di un piano parallelo a quello del Cesarotti e dell’Alfieri, anche se per il suo carattere elegantissimo e letterario meno efficace di quello sulla storia futura dello sciolto), della importanza dell’offerta pariniana al romanticismo di uno schema stilistico e di ricche possibilità di linguaggio che accrescerebbe «da un punto di vista meramente stilistico» i legami fra il Parini e la cultura letteraria a lui successiva, cosí invece giustamente limitabili se considerati sul piano della nozione della poesia e del nodo ragione-sentimento.

Se par giusto al Citati riscontrare una coincidenza di fondo fra gli atteggiamenti del Parini e il programma illuministico attorno al 1765-80, egli si mostra tuttavia insoddisfatto dei risultati della critica piú recente e particolarmente della storicizzazione del Fubini perché, secondo lui, nel Parini, «in questo letterato in apparenza cosí poco sensibile alle grandi questioni di politica culturale», ci sarebbe poi «una coscienza e una consapevolezza rara del delicato momento di crisi che l’illuminismo europeo stava attraversando», del pericolo della divulgazione facile ed elegante, e, piú importante, un capovolgimento della polemica da «ideologica» a «sociale» «con un senso rivoluzionario dell’uguaglianza e dell’ingiustizia di classe quale negli altri rappresentanti dell’illuminismo italiano “ufficiale” non è assolutamente possibile riscontrare», anche se «questi spunti egualitari e la coscienza dello sfruttamento sociale si inquadravano in una idealità contadina dalle tinte piú ovvie, diffuse e letterarie». Giunto a questo punto e notato un contrasto fra la storicizzazione fubiniana fra Arcadia e illuminismo e quella di origine desanctisiana, e ripresa, a suo modo, dal Salvatorelli, di una novità sociale umana del Parini, il Citati conclude per una soluzione piú complessa. «Una figura equilibrata, senza crisi o scarti stilistici, come è senza dubbio quella di Parini, ha tuttavia una novità di spunti sociali ed umani, che, per motivi di gusto, di cultura, e per un limite oggettivo, non trova una adeguata voce poetica»: che sarebbe poi di nuovo, a ben guardare, una ripresa della desanctisiana constatazione di sproporzione fra l’uomo e l’artista, e che ci sembra in realtà, nei nuovi termini del Citati, piuttosto insoddisfacente ed incerta. Tutto il saggio del resto, interessante e ricco di problemi, e di osservazioni acute e stimolanti, sembra oscillare tra due direzioni non ben fuse e definite: una eccessiva e raffinatissima tendenza stilistica e un’esigenza storico-culturale meno approfondita e precisata. E, senza entrar qui in una discussione che porterebbe a ripercorrere la minuta tessitura del saggio, mi sembra almeno che il problema della storia del Giorno non possa essere disgiunto da quello di tutto lo svolgimento del Parini dalle prime alle ultime Odi, in cui l’evoluzione sul nodo «oggetti-stile», «sensismo-classicismo» e «società-poesia» può giustificare una linea piú ricca della poetica e della poesia pariniana verso una meta particolarmente alta e tutt’altro che involutiva.

Maria Ortiz, Una macchietta della «Notte» del Parini: lo sfilacciatore di tappeti, «Atti e Memorie dell’Arcadia», Serie 3, vol. II, fasc. 4, 1954, pp. 172-189.

Precisa l’origine della macchietta «lo sfilacciatore di tappeti» nella Notte del Parini (vv. 440-445 dell’ediz. Bellorini) che nei commenti rimaneva piuttosto enigmatica quanto a preciso riferimento di costume. La macchietta del giovine nobile che passa il tempo a disfare con grande diligenza un tappeto rappresentante la caduta di Troia e a separare i fili di lana da quelli d’oro non sarebbe l’immagine gratuita e bizzarra di un’estrema forma di mania oziosa, ma si ricollegherebbe ad un preciso e diffusissimo passatempo (occupazione-divertimento tipico degli equivoci fra utilitarismo ed edonismo del bel mondo aristocratico del ’700) invalso verso la metà del secolo a Parigi e dilagato poi fuori di Francia: il parfilage, consistente appunto nel recuperare i fili d’oro in tessuti composti, a volte appositamente preparati e donati. La Ortiz ne porta una ricca e gustosa documentazione tratta dal Dictionnaire critique et raisonné des étiquettes de la cour di M.me de Genlis, dalle memorie e dai romanzi di questa scrittrice, nonché dal Dictionnaire dell’Accademia del 1798, dalla corrispondenza del Grimm e di M.me Du Deffand, nella quale nel 1772 si trova intento a parfiler persino l’abate Barthélemy, l’autore del Voyage du jeune Anacharsis en Grèce!

La precisazione della Ortiz serve bene a rilevare la storicità della macchietta pariniana, la relazione fra offerte del costume e utilizzazione artistica-satirica (persino in forme di eccessivo legame cronachistico) e certo accresce in questa figura singolare della Notte il gusto del complesso giuoco ironico in cui lo sdegno appare tanto piú risolto nella luce di un piú distaccato sorriso e pure – nel contrappunto fra la distruzione paziente della figura mitica del tappeto e l’opera industriosa che l’aveva creata, fra i dieci anni occorsi al parfileur per terminare la sua opera e quelli della guerra di Troia – il senso satirico della vanità frivola di una consuetudine elegante, di un estremo aspetto del costume di ancien régime. Né manca un’allusione alla moda francese che viene a favorire la puntualizzazione della satira pariniana dello snobismo esterofilo della nobiltà lombarda.

Aurelia Accame Bobbio, Parini, «La Scuola editrice», Brescia, 1954, pp. 354.

Questa monografia, risultante da una lettura vasta e personalmente impegnativa delle opere del Parini e mossa dall’insoddisfazione delle posizioni della critica pariniana (esposte e discusse in un capitolo iniziale in realtà poco perspicuo e poco approfondito), vorrebbe soprattutto risolvere «la difficoltà di spiegare come una voce cosí genuina di poesia che si levò ad esprimere un animo nobile e aperto ad ogni gentilezza umana, non s’incida nella nostra coscienza quale formulazione definitiva di sentimenti universali al pari di quelle dei grandi poeti che, venuti dopo di lui, l’ammirarono e lo riconobbero maestro» e vorrebbe insieme chiarire «altri problemi che in quelle difficoltà si inscrivono»: «la valutazione del Giorno come poesia satirica, quella delle liriche d’ispirazione morale, il rapporto fra questa e l’ispirazione erotico-sentimentale, e infine il nesso tra classicismo e realismo quale egli lo concepí e quale lo attuò nell’opera sua».

Sulla base di tali esigenze il libro si svolge in una serie di capitoli dedicati ai vari periodi dell’attività pariniana e a ricercare in quelli il nesso fra spiritualità e poesia.

Un breve capitolo iniziale studia le Rime di Ripano Eupilino, che, nelle varie forme della tematica esercitata, appaiono caratterizzate già da una certa prevalente attenzione alla vita reale entro la tendenza all’espressione lirica, e, specie nell’esercizio bernesco, dallo sfogo «di una tetraggine malinconica, nella quale confluivano e la condizione spiritualmente falsa, e le mal soffocate nostalgie di piú casti e impossibili amori, e le noie giudiziarie, e le angustie della povertà, e il torbido ribollire di un’adolescenza impetuosa». Tendenze che nel periodo fra le Rime e il Giorno son sottoposte ad una piú unitaria esigenza di poesia morale, al problema pariniano di risolvere il dissidio piacere-virtú, cristianesimo-illuminismo, fino alla decisa individuazione di un programma di poesia morale e di poesia utile nella Vita rustica, in cui il poeta, diversamente da un «sensista che veda svilupparsi meccanicamente la virtú e la felicità da una combinazione accorta di sensazioni gradevoli alla natura, di interessi», riconduce «la moralità e quindi la felicità a un atto libero della coscienza che riconosce e accetta i veri beni», tradotti però «in beni tangibili, in sensazioni piacevoli». Vengono cosí esposte ed esaminate, da un punto di vista prevalentemente contenutistico, le prime Odi, preparazione, insieme alle lettere contro il padre Bandiera, della piú sicura disposizione satirica del Giorno.

E al Giorno è dedicato un lungo capitolo che, distinto il poemetto pariniano dal Riccio rapito del Pope, piú elegante-scherzoso, si impegna nella discussione centrale del problema dei due toni del Giorno (ironia-satira e compiacimento della delizia ed eleganza della vita aristocratica), risolto nel senso che il secondo sarebbe «continuo e necessario contrappunto al sentimento morale della vanità di quello spettacolo», e che il primo non sarebbe tanto un motivo politico-sociale quanto un piú vasto motivo di satira della «falsità di un mondo che capovolge il senso dei valori, sacrificando alla forma vacua la sostanza viva delle cose», e di cui il privilegio fondato sul sangue sarebbe solo uno fra i suoi «innumerevoli aspetti». Sicché, anche nei riguardi dell’illuminismo prerivoluzionario, il Giorno implicherebbe un particolare atteggiamento «illuminato» (se non addirittura «una satira della concezione illuministica della vita») derivante da un’ispirazione di carattere universalmente morale, un urto con il suo secolo, da cui il Parini riprenderebbe «quel che è sviluppo della morale classico-cristiana, ripudiandone ciò che da quella morale diverge». Né tale motivo ironico-satirico verrebbe meno a vantaggio di un piú distaccato atteggiamento rappresentativo delle delizie del bel mondo nelle nuove redazioni del Mattino e del Meriggio o nei piú tardi Vespro e Notte, in cui anzi troverebbe «una piú viva attuazione poetica, nascendo la sua espressione piuttosto che dalle talora caricate e sfocate parole del precettore, dalla diretta rappresentazione delle splendide vanità» in un sicuro progresso di poesia. Entro questo progresso la Bobbio studia l’assicurarsi di un «realismo satirico» nelle Odi della maturità e il chiarirsi della posizione morale-utile del Parini nella sua attività di professore e in quel trattato Dei principi delle belle lettere che appare caratteristico per una conoscenza del gusto pariniano maturo in maggiore contatto con quello del suo secolo e in una condizione di vita piú soddisfatta e sicura.

Ma questa condizione verrebbe poi a rompersi e a complicarsi con una crisi amorosa (una relazione con Francesca Castelbarco Simonetta, secondo lo Ziccardi, o con Teresa Mussi, secondo il Foresti), con delusioni e amarezze personali e soprattutto con una crescente scontentezza del secolo, con una insoddisfazione dei «lumi» «come incapaci a garantire la nobiltà piú intima e spirituale dell’uomo», e questa scontentezza sorgerebbe «a ispirazione di poesia nella Recita dei versi e nella Caduta», mentre la Tempesta segnerebbe, in forme piú sorridenti e canzonatorie, un progressivo «appartarsi dal mondo per osservarlo dall’interiorità della coscienza», un crescere della «poesia della propria solitudine morale» (a cui «fan contrasto i soliti sonetti cortigiani di cui pure quegli anni sono costellati» e a cui si accompagnano, in una inclinazione di maggiore edonismo artistico, odi come il Dono); atteggiamento che si sviluppa, con minore abbandono a moti sdegnati, «nel senso positivo di una sicurezza interiore che si appaga nel riconoscimento di pochi amici eletti (La gratitudine) e nella gioia d’amare la bellezza e d’esser poeta: Il messaggio, Alla Musa». Odi queste che la Bobbio considera pur con la maggior parte dei critici punto alto della poesia pariniana ma piú, specie la seconda, come testamento morale poetico del Parini, e in qualche modo conferma di quella sua posizione isolata e in urto col secolo (lo stesso atteggiamento a condanna della nuova moda preromantica sarebbe da attribuire all’urto col secolo «folle») che sarebbe ancor piú chiaramente espressa nei rapporti del poeta con la rivoluzione: si pensi a Silvia, si pensi alla protesta del consigliere municipale per l’allontanamento del crocefisso dall’aula del Consiglio, che permettono alla Bobbio l’ipotesi di un finale riavvicinamento del vecchio Parini all’«antica madre», la Chiesa, e al pensiero dell’al di là («Nell’uomo deluso dal secolo si raccese forse negli ultimi tempi qualche amore di quell’altra vita, che l’aveva lasciato sempre cosí indifferente, pur confermando talora l’insufficienza di questa»).

Quale è dunque la risposta alla domanda iniziale? «Il valore e i limiti della poesia del Parini non si possono comprendere se quella non si considera nei suoi termini estetici come riflesso di valori e limiti morali intrinseci alla sua spiritualità. La quale abbiamo veduto svolgersi in una ricerca di sintesi tra piacere e virtú ch’era l’aspirazione del secolo, ma ch’egli tenta attuare per vie sue quali gli erano suggerite in parte dalla sua storia intima, dalle sue inclinazioni personali, in parte dalla tradizione classica e cristiana a cui si serbò fedele».

Non negheremo a questo libro un suo sincero fervore e un suo impegno d’interpretazione dinamica che ce lo rende comunque interessante, ma noteremo anzitutto che, mentre l’impostazione di ricostruzione della intera personalità pariniana richiedeva ben altra forza di sintesi e concreta attenzione al nesso fra spiritualità e poesia (e quest’ultima finisce per ridursi troppo a documento di quella e gli esami delle singole opere sono nettamente inferiori, per intensità e impegno, di fronte alla ricerca psicologica-storica), essa è sostanzialmente falsata da una immagine troppo unilaterale e sforzata del Parini, sia nella direzione della sua fedeltà alla religione cristiana (con l’implicita radice di una sua limitazione poi nei limiti della sua scarsa vocazione ai problemi trascendenti del cattolicesimo: «nell’inevitabile grettezza di ogni umanesimo non sostanziato da un vivo e operoso amore verso il bene infinito di cui l’uomo ha bisogno...»), sia nella esagerata accentuazione del suo «urto» e addirittura della sua «inconciliabilità con il secolo». Ed è qui soprattutto che si rivela insufficiente la storicizzazione del problema pariniano: è ovvio che il Parini non è un semplice «portavoce» del suo tempo e delle tendenze culturali illuministiche, e che si può (e in diverse maniere) osservare uno sviluppo del suo atteggiamento dal primo Giorno alle ultime Odi (sviluppo complesso e delle cui componenti di gusto in contatto con il progresso della civiltà neoclassica la Bobbio non tiene poi conto) di fronte all’illuminismo e alle tendenze riformatrici o prerivoluzionarie, all’enciclopedismo europeo e alle forme precise del riformismo lombardo, ma ciò non implica un cosí deciso isolamento del Parini (gli stessi componimenti «cortigiani» non sono pura convenzione, ma rappresentano un aspetto di sincera adesione a quanto di concretamente innovatore v’era nell’opera delle riforme giuseppine), le cui stesse posizioni di gusto pur si inseriscono originalmente in una storia del gusto dell’ultimo Settecento: come avviene nel caso della sua condanna delle «mal nate fonti», preromantiche straniere, che la Bobbio vede come conferma di una personalissima inconciliabilità col «secolo folle» e che invece rappresentano l’accordo con un atteggiamento antipreromantico pur vivo, vasto ed operante nel «secolo».

A parte ciò, anche lo sforzo di risolvere il problema del Giorno con il puro motivo satirico e con la formula ricordata del «contrappunto» che a questo farebbe il tono di affascinato compiacimento per le eleganze del mondo aristocratico, ci sembra piuttosto superficiale, cosí come tutta l’accentuazione del poeta morale contribuisce a ridurre il rilievo della poesia erotico-galante di tanta produzione pariniana, a sviare dalla considerazione del raffinato valore estetico anche delle ultime Odi, nella considerazione dell’importanza e dell’evoluzione di quella componente classicista poco approfondita e compresa nella sua funzione. Cosí, per citare solo un caso dei molti dissensi provocati dalla interpretazione delle singole poesie pariniane, ci pare del tutto inaccettabile (e indicativo per la chiusura della autrice al valore della poesia piú matura del Parini, alla sua sottile sapientissima musica) il giudizio di «genericità prosastica» o di «evidente artificio stilistico» nelle allitterazioni che vogliono sottolineare il molle fruscio dei boschi e delle acque di Elicona in Alla Musa; come d’altra parte (nella direzione del gusto e della poetica pariniana) non ben colto è il valore della nobilitazione classica del cardinale Durini nella Gratitudine o il significato neoclassico delle figurazioni mitiche dei «programmi di belle arti».

Ettore Passerin, L’ambiente pisano nell’ultimo Settecento: il trionfo e la crisi del riformismo anticuriale in alcuni carteggi di colti pisani, «Bollettino storico pisano», XXII-XXIII, 1953-1954, pp. 54-121.

Questo saggio, basato su di una diligente ricerca di carteggi inediti (da cui in appendice son riprodotte lettere e passi di lettere piú significativi in funzione della linea dello studio), porta nuova luce sugli atteggiamenti ideologici e pratici della cultura pisana di ultimo Settecento (fra Studio e ambiente ecclesiastico), animata dalle tendenze anticuriali, regalistiche e riformatrici proprie della Toscana leopoldina e della lotta di queste contro la resistenza «romanista» dell’arcivescovado e di alcuni esponenti della stessa Università, quale soprattutto fu G.M. Lampredi. Indicati i caratteri di varia tensione e profondità di tale corrente riformistica, in cui confluiscono posizioni giansenistiche vere e proprie, aspirazioni di rinnovamento religioso su base piú vagamente agostiniana e antigesuitica, e piú politici atteggiamenti illuministici (con gradazioni di audacia e di compromesso che distinguono i «ricciani» piú decisi – Donati, Curini, fra Michelangiolo da Livorno – e i moderati come il Berti e il Fabroni), il saggio ne precisa il trionfo nel periodo precedente la nota assemblea di vescovi toscani nel 1787 e poi il declinare e la crisi, legati al fallimento del movimento di Scipione de’ Ricci e provocati dalla rinforzata resistenza curialistica, dalla successione di Ferdinando III a Pietro Leopoldo e soprattutto da un intimo intiepidirsi di molti «regalisti» (soprattutto indicativo il caso di Pio Fantoni) complicato da un certo disgusto, sempre piú diffuso anche nell’ambiente pisano, contro il duplice orgoglio giansenistico e illuministico dei riformisti leopoldini troppo appoggiati al potere del sovrano e al braccio secolare (spunto interessante ma che forse andrebbe meglio chiarito e precisato) e dalla novità sconcertante dei nuovi avvenimenti francesi: i quali poi potevano stranamente trovare una certa miglior comprensione – se pure iniziale e provvisoria – da parte di fautori del nuovo governo di Ferdinando III che non nei vacillanti anticurialisti incapaci comunque di raccogliere validamente quei motivi piú nuovi e preliberali dell’eredità leopoldina che saranno invece ripresi, con una nuova nota conservatrice, nell’ambiente pisano dopo la Restaurazione.

Interessano piú direttamente la storia letteraria i chiarimenti sull’atteggiamento del Lampredi, il noto bersaglio polemico dell’Alfieri, che sintetizzò satiricamente in lui la boria dei professori pisani, presuntuosi e incapaci di comprendere la novità delle sue tragedie, misurata con il criterio della perfetta lingua toscana e del cantabile metastasiano (si pensi al Motu proprio del principio del buon gusto che certo si riferisce al Lampredi). E da tal punto di vista, dopo la vecchia indagine del Cian sul soggiorno dell’Alfieri a Pisa («Nuova Antologia», 16 ottobre 1903), potrebbe essere utile precisare, alla luce dei nuovi elementi portati dal presente saggio, il rapporto fra la critica pedantesca del Lampredi e degli altri «barbassori» pisani (quei professori col «cuore col pelo» al cui giudizio l’Alfieri preferiva quello di donne ingenue e sensibili nella lettera pisana del 31 gennaio 1785 a Mario Bianchi) e la loro posizione ideologica, per varie ragioni avversa a quella alfieriana, e per la quale il Lampredi, in una lettera del ’91 allo Spina, qualificava l’Alfieri come «un S. Padre» della rivoluzione francese.

Luigi Russo, Giovanni Fantoni arcade e giacobino, «Belfagor», X, 1955, 5, pp. 505-516.

È il testo di una conferenza letta a Fivizzano il 31 luglio 1955 per commemorare il centenario della nascita di Giovanni Fantoni. Riprendendo la tradizionale indicazione dello scrittore e politico fivizzanese quale «arcade e giacobino», il Russo spiega l’apparente inconciliabilità dei due aggettivi in base al fondo razionalistico della letteratura arcadica, molto piú seria e legata ad uno sviluppo attivo della società italiana del Settecento di quanto non possa apparire nelle vecchie formule scolastiche ormai del tutto insufficienti e già da tempo dimostrate vacue ed improprie dalla nuova storiografia (come soprattutto si può vedere nel bellissimo saggio crociano sull’Arcadia che il Russo cita come la piú autorevole giustificazione del valore complesso e positivo del fenomeno arcadico). Su questa premessa si svolge una vivace ricostruzione della vita del Fantoni nella sua insofferenza del vecchio mondo feudale e gesuitico in cui egli si era formato, nella sua aspirazione ad una società libera e spregiudicata, nella sua attività di rivoluzionario e di cantore antitirannico e anticortigiano, nella serietà dei suoi ideali civili e patriottici e nell’impegno della sua esperienza artistica che fece di lui, sperimentatore di nuove forme metriche, uno dei maestri letterari del Carducci.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 59°, serie VII, n. 3-4, luglio-dicembre 1955.

Ferruccio Ulivi, Antonio Conti e il classicismo del primo Settecento, «Lettere italiane», VII, 1955, 2, pp. 145-173.

Il presente studio mira ad analizzare la figura interessantissima dello scrittore padovano e a delineare insieme, sulla base di elementi rilevati in tale analisi, una corrente di classicismo «romano», aperta dal Gravina, riaffiorante «in certi aspetti minori della multiforme arcadia frugoniana» e culminante nei toni accesi e corruschi del neoclassicismo preromantico del Piranesi, di A. Verri, del Milizia, fino alla risoluzione di alcune sue componenti nella poetica foscoliana. Dopo un’indagine sulla formazione dell’uomo di pensiero e di gusto a contatto con estetiche inglesi e francesi, con riflessi delle poetiche rinascimentali, con le offerte graviniane, l’Ulivi descrive l’estetica-poetica del Conti nella sua complessa sintesi di platonismo estetizzante, di sensismo, di classicismo nuovo e di posizioni «sentimentali» e «storiche» (che portarono il Quigley a far del Conti un diretto precursore del romanticismo), rilevando la sua «vigile indipendenza», la sua capacità di geniali intuizioni, di applicazioni di attenzione stilistica risolta anche in un linguaggio originale «denso e severo», e pure ricco di singolari risultati specie nella «gamma prestigiosamente descrittiva dell’aggettivazione»: linguaggio verificato nel poema filosofico Il globo di Venere e in quella traduzione del Rape of the lock del Pope che, importante come anticipazione del linguaggio pariniano, può indicare la forza e i limiti di un classicismo rafforzato e inficiato insieme da preoccupazioni di veridicità scientifica. Piú minutamente viene poi esaminata l’opera tragica del Conti, fondata su di un nuovo senso della poeticità della storia (che farebbe pensare a chiare posizioni romantiche «se non si trattasse di un tentativo del tutto esegetico e letterario» e se non mancasse al Conti un’autentica ispirazione per il caratteristico e per l’individuo) e svolta sulla linea di un classicismo nuovo, capace di «analisi interiori, di evocazione di coscienze», e caratterizzato da un nuovo gusto (solo genericamente sollecitato dall’esempio shakespeariano) del «locale nazionale romano», da un fatalismo pessimistico, collaboranti a creare una unità di atmosfera tenebrosa e amara (piú riuscita nel Giulio Cesare e nel Marco Bruto), che all’Ulivi pare preludere al Piranesi e alle Notti romane e indicare una evoluzione matura del gusto che poté perciò influire sulle «prossime poetiche» sino al Foscolo: al quale, secondo un’affermazione da tempo precisata, l’opera del Conti poté offrire molteplici motivi di interesse in sede di poetica, di tecnica, di critica.

Il saggio presenta indubbio interesse nel suo sforzo di realizzare complessivamente il valore personale e il significato storico-letterario del Conti nella storia della poetica settecentesca in direzione foscoliana (e molte delle sue osservazioni stimolano e contribuiscono a quel lavoro di ricostruzione della poetica settecentesca in cui certamente il Conti ha una posizione di grande importanza), ma pur si avvertono in questa ricerca un certo rischio di formulazioni eccessive (in questo caso l’affermazione dell’evoluzione matura di gusto rappresentata dal Conti «assai vicino alla crisi classico-romantica», posizione forse troppo illuminata à rebours da ciò che il Foscolo poté trovarvi in funzione delle sue esigenze), una fusione non piena fra la linea generale e le minute, sottili osservazioni su cui quella dovrebbe appoggiarsi; mentre poi queste, nel caso del Conti, non sembrano esaurire né l’indagine piena della sua formazione estetica (si pensi, ad es., all’importanza di precisazione dei rapporti fra il Conti e la posizione antiaristotelica rinascimentale del Patrizi), né tutta la gamma delle sue offerte estetico-pragmatiche e critiche (ad es., il motivo del credibile-mirabile fuso nel particolareggiamento poetico, tanto apprezzato dal Foscolo, come ha anche mostrato lo studio importante, e qui non citato, del Ghisalberti). E si desidererebbe poi, in uno studio complessivo del Conti, una maggiore attenzione (necessaria a misurare la sua effettiva novità) ai suoi rapporti con il proprio tempo letterario, sia per quel che riguarda le posizioni arcadiche (troppo piú solitaria del vero finisce per apparire la personalità del Conti), sia per quell’attività di traduzioni di primo Settecento da considerare per il suo esercizio di traduttore di classici e per la stessa versione del Pope.

Maurice Vaussard, Les lettres viennoises de Giovanni Lami, «Revue des études italiennes», Nouvelle Série, II, 1955, 3-4, pp. 154-183.

Proseguendo nello studio e nella pubblicazione delle lettere inedite del noto direttore delle Novelle letterarie (v. per il primo articolo del Vaussard sulle lettere del Lami dalla Francia, la nostra scheda nel n. 1 del ’55), il Vaussard presenta qui un gruppo di lettere da Vienna, dove il Lami soggiornò dall’agosto del 1728 al febbraio del 1729 lavorando assiduamente alla sua prima opera di erudizione, De recta Nicoenorum Patrum fide, e utilizzando le ricche offerte di libri rari della Biblioteca Imperiale e della Biblioteca del principe Eugenio. Le lettere non parlano però di questa sua attività di erudito né dei suoi incontri con letterati e studiosi italiani alla corte di Vienna, come lo Zeno e il Giannone, e descrivono invece, disposte in un piacevole, anche se non molto intenso, agio narrativo-pittoresco, le visite del viaggiatore nei dintorni di Vienna, le lunghe passeggiate lungo il Danubio, assicurando (in uno stile piuttosto secco, ma qui piú alleggerito da uno spirito di compiaciuta fantasticheria, di edonistica contemplazione) notevoli impressioni di cose viste, e nuove per il «turista» italiano: il paesaggio danubiano coperto di neve, la grande distesa del fiume ghiacciato, le colline selvose che ispirano un «piacevole orrore» (e in queste passeggiate solitarie il viaggiatore gode delle insolite offerte del paesaggio, o, come ripete piú volte, «se la sciala»), e insieme lo spettacolo gradito e curioso del popolo avvolto in pellicce e tabarri («le donne medesime paiono tanti marescialli, coi loro berrettoni di pelle di volpe di Moscovia, e ricchi poi d’oro e d’argento; e piccole che sieno, come gli hanno in testa, crescono subito mezzo braccio») e magari di cerimonie popolari rilevate nel loro aspetto divertente e macchiettistico, come quella della notte dei morti: «Deve sapere che qua si seppelliscono i morti con poche cerimonie a ciel sereno, perché l’andar in chiesa non è da tutti, a cagione che tutti non hanno una buona somma di fiorini da pagare l’ingresso. Adunque si seppelliscono in certi sterrati che sono intorno alle chiese, o in cimiteri aperti; e gettata loro una poca di terra addosso, ognuno se la batte. Ora la notte indietro, questi buoni uomini e donne, volendo sollevare i morti davvero, stettero tutta la notte a zappare e smuovere la terra di sopra i cadaveri acciò vi stesse sofficiona, e non pesasse loro tanto, e si sentissero un poco riavere da quel gran carico. Questo è dar sollievo a’ morti nel giorno de’ morti...». Dove spunta un sorrisetto divertito e poco pungente che altrove si corrobora con l’atteggiamento piú chiaramente ironico del razionalista e del cosmopolita che indugia su aspetti della pietà religiosa del popolo austriaco, su aspetti del suo costume morale, insieme casto e spregiudicato (vi tornerà piú tardi il Da Ponte nelle sue Memorie tanto piú efficaci ed acute), ben diverso dal costume italiano («io ho detto che non vi è la virtú di pudicizia: l’ho detto senza pregiudicare alla castità, che ve n’è piú assai che in Italia; ma dell’astinenza in verità non ve n’è ombra»), come diversa da certa parsimonia italiana è l’abbondanza, lo sprezzo del denaro, la vita comoda e spensierata che il Lami ammirò tanto anche nel soggiorno parigino. Né mancano accenni interessanti di uno spirito piú libero, pur dentro l’accettazione dell’ortodossia (ma piú tardi il Maffei considerava il Lami addirittura «un salariato del partito giansenistico in Italia»), nelle osservazioni sulla relatività delle fedi confessionali, sull’importanza maggiore del «vivere cristiano» piuttosto che delle impostazioni teorico-teologali. «Ho caro di vedere la Germania spazialmente per avere occasione di trattare cogli eretici. Io credo assolutamente che essi facciano vergogna alla loro religione, siccome noi la facciamo alla nostra. Questo però in maniera molto diversa. Perché essi sono ordinariamente migliori di quello che i loro riformatori prescrivano, noi molto peggiori di quello che la nostra professione richieda. Se ciò è vero, compatendo io i loro errori teoretici e desiderando loro lume da chi illumina ogni uomo che viene in questo mondo, non saprò non commendare ed approvare la loro cortesia ed umanità, che è essenziale della carità cristiana...». Spirito piú aperto, sollecitato da un’esperienza viva di altri paesi e coerente a quella posizione razionalistica, anche se prudente, di cui il Lami è rappresentante assai notevole nel primo Settecento italiano. Anche queste lettere cosí, come quelle francesi (e si desidererebbe una pubblicazione intera di tutte le lettere della Laurenziana), sono documento interessante per la storia del periodo dell’incipiente illuminismo e per la prosa epistolare settecentesca.

Corrado Rosso, L’illuminismo francese e Pietro Verri, «Filosofia», VI, 1955, fasc. 3, pp. 413-442.

Il Rosso studia il Discorso sull’indole del piacere e del dolore di Pietro Verri lumeggiando suggestivamente (ma non senza pericolo di qualche forzatura) la figura complessa e ricca di quell’illuminista «come pochi altri inquieto» e particolarmente mosso da personali fermenti di novità preromantica nell’interessantissima opera qui indagata. L’esame parte dalle «fonti» francesi del Discorso: anzitutto naturalmente da quell’Essai de philosophie morale del Maupertuis che concludendo per l’assoluta prevalenza del dolore sul piacere nella vita umana (ma volgendo poi tale conclusione pessimistica ad una soluzione stoica o, piú veramente, religiosa-cristiana) suscitò tante polemiche nel secondo Settecento sia in Francia che in Italia, dove si svolse una lunga querelle (i cui testi furono raccolti e pubblicati dall’editore veneziano Valvasense, nel 1756-76: Raccolta di trattati di diversi autori concernenti alla religione naturale e alla filosofia morale dei cristiani e degli stoici) fra il padre C.I. Ansaldi, sostenitore, su base cattolica, del Maupertuis, il Barbieri, suo fautore in direzione stoica, e i loro avversari, F.M. Zanotti, P.T. Schiara, G. Antonelli. Il Verri riprese, dopo averne discusso col fratello, il tema di quell’opera nel Discorso svolgendolo in maniera piú complessa del Maupertuis e, seppure con incomprensioni e con frammentazioni dovute al suo procedimento analitico, giunse vicino ad un concetto unitario della vita sentimentale, mentre sviluppava la conclusione negativa non nel ricorso alla speranza cristiana, ma in una affermazione del dolore come bene, come stimolo essenziale nella vita degli uomini: affermazione che appare, al Rosso, singolarmente suggestiva come preludio alla valorizzazione e all’ebbrezza romantica del dolore. Affermazione non puramente concettuale e intellettualistica perché, secondo il Rosso, nel Verri, «sia che si lamenti della triste sorte degli uomini, sia ch’egli ponga in luce gli aspetti benefici del dolore, c’è sempre in lui un’accensione sentimentalela quale risponde ad una mentalità diversa da quella del Maupertuis. Si comincia cioè, lungi dall’abborrirlo, ad apprezzare il dolore. E giorno verrà in cui Chateaubriand e tanti altri con lui ne assaporeranno tutta l’intima ebbrezza». D’altra parte anche nell’esame dell’arte il Discorso può indicare una soluzione piú nuova e in certo modo preromantica nel Verri di fronte a quella, celebre e diffusissima anche fra gli illuministi italiani, del Du Bos, per il quale l’arte era un mezzo di evasione dall’ennui e dal dolore, mentre nel Verri tanto piú forte è il rilievo di una poetica del dolore che par «quasi sfiorare l’ideale della nuova estetica del sublime», mentre la ripresa di un motivo tipico del Du Bos, il rapporto di opposizione fra la prosperità generale e il fiorire dell’arte, viene sviluppata fino ad una sorta di religione del dolore, alla nozione del dolore come privilegio e grazia delle anime sensibili e grandi. Sviluppo verriano ulteriormente confermato dal Rosso con un ultimo paragone con la posizione conciliativa di un altro illuminista francese, il Robinet (che tuttavia difficilmente il Verri poté conoscere direttamente) – uguaglianza degli uomini nella bilancia di dolore e piacere –, rispetto alla quale il Verri, in forza del suo «pessimismo energetico», segna un netto rifiuto, pur ritraendosi davanti al dilemma estremo: è meglio per l’uomo essere grande o felice?, e rifugiandosi in un equilibrio razionalistico, edonistico-utilitaristico, in un finale prevalere della sua coscienza civile ed umana di illuminista.

Naturalmente il Rosso avverte chiaramente, sia nello sviluppo del Discorso sia nelle sue conclusioni, la presenza di chiari motivi illuministici-razionalistici che limitano la novità e la coscienza di novità, in senso preromantico, di posizioni la cui effettiva tensione rinnovatrice andrebbe anche meglio verificata in relazione a tutta l’opera, a tutti gli aspetti della personalità del Verri. Ché (come anche io indicai nelle pagine dedicate a P. Verri in un capitolo del mio Preromanticismo italiano diretto a rilevare nel «Caffè» e soprattutto in Pietro e, ancor piú, in Alessandro Verri sintomi preromantici legati ad un interessante sviluppo di sensismo in sentimentalismo) le posizioni del Verri mancano di una decisione finale, di una vera accentuazione del significato tragico della lotta fra piacere e dolore, e il sentimento del dolore (che solo nell’Alfieri assume, in epoca settecentesca, un valore profondo di vocazione originale dell’anima grande, di angoscia drammatica, mentre in altri preromantici svaria fra degustazione letteraria e sviluppo di una nuova tematica ripresa da testi stranieri, in presentimenti piú decisi, ma troppo bruschi e provvisori o viceversa involti e moderati in forme tradizionali) si inscrive pur sempre in un cerchio sostanzialmente piú intellettuale e razionale (e lo stesso linguaggio pur lo denuncia), cosí come per quel che riguarda l’arte certe intuizioni del Verri han sempre il limite dei canoni dell’orazianesimo settecentesco.

Carlo Battisti, Note bibliografiche alle traduzioni italiane di vocabolari enciclopedici e tecnici francesi nella seconda metà del Settecento, Publications de l’Institut français de Florence (II série, «Opuscules de critique et d’histoire», n. 8), Florence, 1955, pp. 72.

Importante raccolta di titoli di traduzioni italiane di vocabolari enciclopedici e tecnici francesi (con precise indicazioni bibliografiche sui testi originali e sulle traduzioni, sulle loro varie edizioni e sulle biblioteche italiane che le possiedono) pubblicate durante la seconda metà del Settecento, quando piú forte fu l’avidità italiana per simili strumenti tecnico-enciclopedici (specie dopo il ’70) e straordinariamente vasta fu la produzione francese, specie fra il ’50 e l’80, periodo in cui si possono contare una cinquantina di dizionari tecnici. (Aggiungerò in proposito dell’ultimo rilievo che già il Maffei durante i suoi viaggi a Parigi e a Londra – fra il ’32 e il ’36 – lamentava la assoluta sproporzione fra l’abbondanza francese e la povertà italiana quanto a «dizionari d’arte e scienze» – lettera al Poleni, Parigi, 10 dicembre 1734 –). La raccolta è preceduta da utili osservazioni su tale fenomeno culturale e sulla sua importanza per l’afflusso di voci nuove venute coi lessici tecnici tradotti dal francese, sulla reazione italiana a tale afflusso, nel secondo Settecento, quando dopo l’ondata neologistica piú spregiudicata, e giustificata dal «Caffè» «per non sacrificare i concetti alle voci», si arriva all’accettazione moderata di tipo cesarottiano, precisata autorevolmente nei criteri del maggiore vocabolarista enciclopedico, Francesco d’Alberti, che si appoggiava su di una tradizione di piú libero cruscantismo (Menzini, Redi, Magalotti ecc.) e che possedeva idee molto chiare sull’importanza della registrazione lessicale di vocaboli dotti e tecnici, sull’accettazione di voci straniere indispensabili o utili per il continuo aggiornamento del lessico italiano: criteri e posizioni di principio che continuarono ad essere accettati sostanzialmente dai grandi vocabolaristi ottocenteschi. In altre parti del discorso introduttivo si precisano brevemente i caratteri generali culturali della fase sopra indicata («ambientamento esterofilo» e predominio della cultura francese mediatrice, anche in tal campo, di opere inglesi) e si ricordano opere lessicali italiane autonome, ma complessivamente intonate alla produzione estera.

Alfred Noyer-Weidner, Erwachendes Deutschlandinteresse und italienische Präromantik, «Romanische Forschungen», LXVI, 1955, 3-4, pp. 305-341.

Ricordati gli studiosi che si sono occupati, dal Thiemann e dal Flamini in poi, della diffusione della letteratura tedesca in Italia durante la seconda metà del secolo XVIII, il Noyer-Weidner si applica a precisare ulteriormente l’atteggiamento dei letterati italiani di fronte alla Germania e alla letteratura tedesca già in zona illuministica: atteggiamento ispirato a quello dei francesi, i cui primi documenti di un interesse piú preciso per la letteratura tedesca (Idée de la poésie allemande del Dorat, 1766, traduzioni e Choix de poésies allemandes dello Huber) agirono come primo stimolo del maggior divulgatore della letteratura tedesca, il Bertola. Mentre le stesse opere di un conoscitore diretto della Germania, il Denina (Lettere brandeburghesi, 1730, La Prusse littéraire sous Frédéric II, 1790-91 – e si noti che nel precedente Discorso sulle vicende della letteratura del 1761 la letteratura tedesca era appena ricordata in poche righe –), concordano con l’atteggiamento piú generale degli illuministi francesi e italiani in una forte limitazione delle possibilità letterarie tedesche, alla luce di una nozione classicistica-illuministica della letteratura e del pregiudizio che contrapponeva «il freddo tedesco» (come diceva il Bettinelli), privo di «attica urbanità» e di civiltà letteraria, al francese e all’italiano accomunati in un primato di tradizione e civiltà illuminata e sensibile. Di fronte alla crescente anglomania, assai limitata è la diffusione e l’efficacia della letteratura tedesca, limitatezza accresciuta dalla difficoltà della lingua e dalla ripugnanza dell’«orecchio» italiano alla asprezza fonica germanica (e si potrebbe suggerire un gustoso campionario di tale ripugnanza o nell’Alfieri che satireggia il tedesco «che parlando mugge» – e dell’antipatia e dell’incomprensione alfieriana per la civiltà tedesca prova estrema è il sonetto VI della II parte, in cui il «tedesco, a cui null’arte arride», è considerato l’«aborto» della natura; sonetto che solo piú tardi, nell’impeto della passione misogallica, egli volse in invettiva contro la Francia – nonché nel Monti che, pur entusiasta del Messias klopstockiano, e desideroso di tradurlo, dichiarava di non voler imparare quella «lingua aquilonare» temendo che «alla pronunzia di quelle parole infernali tutte le immagini e i pensieri poetici» si spaventassero e fuggissero via per la paura). Riconfermata piú ampiamente la scarsa comprensione dei viaggiatori italiani in Germania (Denina, P. Verri, Bianconi, Pilati) per lo « spirito» del popolo tedesco, il Noyer-Weidner osserva come – in relazione con l’incipiente gusto preromantico – piú sensibilmente alcuni di essi si aprano alla suggestione del paesaggio nordico e alpino, anche se tale suggestione si risolve piuttosto in pezzi di bravura descrittiva (Bettinelli) o in equivalenze e rese piú pittoriche che sentimentali, come sarebbe, per il Noyer-Weidner, il caso del Bertola, la cui sensibilità preromantica ci appare qui troppo ridotta in pure forme classicistico-arcadiche-rococò che pur non escludono piú sottili venature di sentimentalismo preromantico. E del resto lo stesso Noyer-Weidner, pur rilevando come nelle stesse versioni gessneriane del Bertola vi sia un’ulteriore riduzione di ogni movimento che nel suo modello gli appaia esagerato, ardito, con una piú forte accentuazione melodica, con una piú netta distinzione delle gradazioni coloristiche, ritrova nel Bertola e specie in certe sue descrizioni di natura il maggior risultato dell’influenza tedesca nell’ambito del moderato preromanticismo italiano. Limitato cosí fortemente il primo momento di contatto fra Germania e Italia, lo studio si conclude con un accenno al secondo momento della influenza tedesca coincidente con la diffusione del wertherismo.

Studio assai attento e cauto, informato, che poteva però tener maggior conto di un altro aspetto del contatto tedesco-italiano in ambito preromantico (e, d’altra parte, difficile e alla fine un po’ arbitrario è il separare nel preromanticismo italiano l’efficacia «nordica» dei testi tedeschi da quella dei testi inglesi, che agirono contemporaneamente e su di una base prevalentemente letteraria e non bisognosa di comprendere lo «spirito» nazionale di testi validi, soprattutto, come offerta di temi nuovi, di nuovi paesaggi, come generale stimolo di sensibilità) sul filone del «sublime», del meraviglioso «metafisico» che utilizzò (e si pensi al Monti del Discorso al Visconti del ’79) la suggestione klopstockiana, con l’inerente violenta reazione di letterati tradizionalisti come il Vannetti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1956.

Ferruccio Ulivi, Dialettica e unità della poesia settecentesca, «Paragone», 68, 1955, pp. 17-31.

Dichiarando di voler evitare i pericoli del «solito sommario storicismo», a cui però riconosce il merito di aver voluto «veder chiaro» in una epoca complessa e confusa e di aver decisamente usato quelle classificazioni «che potrebbero sembrare schematiche e magari scolastiche» e che pure in effetti avrebbero «preparato a vedere in un modo piú accostante e piú acuto», l’Ulivi si propone di reagire alla tentazione di cancellare frettolosamente tali classificazioni («neoclassicismo, preromanticismo») utilizzandole invece nella ricerca di una «unità in sede dialettica e magari polemica». Di tale ricerca e di tale programma egli vuol dare qui indicazioni essenziali servendosi anzitutto dell’esempio dello sviluppo di altre culture letterarie straniere (quella inglese in cui, attraverso l’estetica empiristica, si assisterebbe al passaggio da classicismo a preromanticismo, quella francese, in cui, sulla base di un particolare classicismo, lo sviluppo preromantico e neoclassico «non uscirebbe mai che dal fondo della cultura sei-settecentesca nazionale»). Per la situazione italiana si presenterebbe una linea particolare che, muovendo da un classicismo di primo Settecento, già ricco di fermenti di possibili sviluppi neoclassici e preromantici, troverebbe un «saldo nucleo culturale e tematico a cui “poterono” attingere scuole e uomini di provenienze diverse» nella nuova dottrina figurativa, da cui partirebbe una sostanziale «neoclassicità», «limite del non abbandono settecentesco». Fra gli estremi di un neoclassicismo figurativo-erudito e di un «preromanticismo puro o selvaggio» (specie nei traduttori preromantici), si estenderebbe la larga zona unitaria di un «neoclassicismo preromantico o classico-romantico», con esempi di pavidi conservatori e di affrettati rivoluzionari, con un sostanziale limite rispetto al vero romanticismo (documentato nello stesso Foscolo, anche come critico e pensatore di estetica), con una scarsa, o nessuna, coscienza delle ragioni della crisi sia nei classici sia nei preromantici, e con un rapporto centrale musica-figuratività («luci che smuoiono in suoni e musiche armonie che generano nuove gamme di colori»). Verrebbe cosí individuato un «nucleo di settecentismo unitario», «essenziale per ogni ricerca sulla storia della espressione poetica settecentesca», e contraddistinto da caratteri di «riformismo letterario» (in analogia con le condizioni del pensiero politico e delle ideologie) e da una sostanziale chiusura di fronte alla libertà romantica: sicché il simbolo di tale poetica potrebbe essere «una prigione tanto ampia da fingere la libertà», «un cerchio cristallino, dove gli “acuti” non infrangono mai la convenzione razionale».

Queste le proposte dell’articolo, forse piú folto che interamente perspicuo, concepito appunto come densa esposizione programmatica di esigenze e direttive per uno studio del gusto poetico settecentesco, scaturite da precedenti studi parziali dell’autore e da una cauta discussione dei risultati di quella storiografia critica sul Settecento che l’Ulivi ritiene piú valida e degna di ripensamento.

Senza scendere qui a osservazioni particolari (in parte fatte in altri numeri di questa rassegna a proposito di altri saggi settecenteschi dell’Ulivi), vorrei in generale notare che l’interessante tentativo di sistemazione della letteratura poetica settecentesca presentato da questo saggio mostra (in contrasto con i rischi possibili di schematizzazione troppo rigida di correnti e di periodi, spesso accentuati dalla necessità di evidenziare linee direttrici, essenziali raggruppamenti entro epoche complesse e ricche di riprese e anticipazioni di cultura e di gusto) il pericolo di una nuova schematizzazione in senso troppo unitario-settecentesco e di un livellamento, sia di distinzioni di «poetiche» legate a condizioni storico-culturali (come l’illuminismo, cosí importante, ad esempio, nella particolare situazione del Parini che in questo saggio non vien calcolata), sia dei piú forti elementi di novità, specie nella direzione preromantica, che appaiono in genere qui troppo risolti entro un clima medio troppo facilmente unitario e «letterario». In tal modo si può finire anche per chiudere troppo in un cerchio «settecentesco» moderato e letterario persino il gusto foscoliano e per perdere gli elementi di novità e di suggestione per i romantici, insiti in alcuni essenziali testi preromantici (soprattutto nel caso dell’Ossian cesarottiano), trascurando poi la presenza rivoluzionaria dell’Alfieri che non appare considerata in questo disegno.

Mentre appar discutibile sia l’eccessivo peso dato al «nazionale» specie pensando al forte contatto europeo del periodo illuministico e preromantico, sia la ricerca di una fase fortemente unitaria e unitariamente anticipatrice nei riguardi dello sviluppo neoclassico e preromantico, nel primo Settecento (come si può vedere anche nei saggi particolari dell’Ulivi sul Gravina e sul Conti schedati nel n. 1 del 1956 della nostra rivista).

Mario Fubini, Postilla alla recensione di A.M. Brizio del vol. «Atti del Quinto Congresso Internazionale di letterature moderne», «Giornale Storico della letteratura italiana», LXXIII, 1956, 401, pp. 128-129. [Questa recensione è stata riproposta poi con il titolo «Postilla a una postilla» in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo, Firenze, La Nuova Italia, 1963].

Alla fine di una recensione che la Brizio ha scritto sul volume degli atti del congresso fiorentino di letterature moderne del 1951 (recensione in cui si dava un breve giudizio del mio saggio Parini e il neoclassicismo compreso in quel volume dedicato ai rapporti fra letteratura e arti figurative), il Fubini ha ritenuto di «dover aggiungere poche osservazioni sul saggio suddetto, certo uno dei piú notevoli di questo volume, che vuol essere non tanto uno studio definitivo quanto l’avviamento ad un nuovo studio del Parini, la proposta di un tema che attende di essere svolto e approfondito e merita anche per questo la piú attenta considerazione».

Credo utile render conto qui di questa breve «postilla» e aggiungere a mia volta qualche osservazione in proposito, data l’autorevolezza dello studioso e l’importanza del tema discusso, anche se mi riservo di riprendere piú ampiamente tale discussione quando sistemerò il saggio entro il disegno dei miei studi sul classicismo e neoclassicismo italiano del Settecento.

Riconosciuto «importante in special modo quel che il Binni osserva sui Programmi di belle arti come documento del nuovo gusto pariniano e sull’efficacia dello studio delle arti figurative sulla poesia della maturità», e riconosciuta anche «l’attenuazione dell’irruenza giovanile nel Parini piú maturo», il Fubini osserva – in questa utile e cordiale discussione – che egli «non opporrebbe due fasi distinte e quasi contrastanti nella poesia pariniana (una fase «illuministica-sensistica» e una «neoclassica») e che, mentre egli ritiene impropria la definizione «sensistica» non solo per tutto il Parini (secondo la nota tesi dello Spongano già discussa dal Fubini in una recensione raccolta nel vol. Dal Muratori al Baretti), ma anche per una parte e fase di essa (mentre poi «l’illuminismo è presente nell’opera tutta del poeta e del maestro, né è in contrasto col suo gusto neoclassico»), lo lasciano in dubbio i cenni alle correzioni del Giorno come segno di un predominio della nuova poetica neoclassica e come vittoriosa affermazione di una nuova poesia. Correzioni che sarebbe «difficile ricondurre tutte ad un’unica direzione» e per le quali non si potrebbe dire «che, tranne in alcune pagine luminose, si affermi una nuova poesia. Troppo spesso ci troviamo di fronte ad un lavoro di artefice, che per evitare incontri di suoni o di espressioni troppo vivaci, e che possono sembrare poco chiare o improprie, corregge a danno dell’unità del discorso: tipiche correzioni di una mente fredda, analitica, staccata ormai dal suo lavoro. L’uniformità di tono, a cui evidentemente il poeta tende (e sarebbe qui da vedere il gusto piú fortemente classicheggiante), si risolve molto spesso in un effettivo impoverimento del discorso» (tipiche in tal senso quelle dell’episodio della “vergine cuccia”).

Ora a me pare, per quel che riguarda la presente postilla (e ripetendo che una discussione piú precisa e di fondo implicherebbe tutta una discussione anche con la generale interpretazione pariniana del Fubini, quale la si conosce nel saggio Arcadia e Illuminismo e nelle dispense milanesi del ’52-53: Parini, Milano, Malfasi), che il Fubini finisca per accentuare la netta distinzione e il contrasto fra le «due poetiche» piú di quanto risulti nel mio saggio, che insisteva su di uno sviluppo («senza postulare miracolosi cambiamenti e avvertendo che di sviluppo e non di rottura si tratta in un’esperienza vitale e artistica cosí continua e meditata») da un periodo in cui la costante classicistica (da me ben affermata anche nella fase da me chiamata appunto di classicismo illuministico-sensistico) si compone con elementi illuministici e sensistici piú chiari ed energici (specie nelle prime Odi) ad un periodo successivo in cui, nel contatto fecondo del Parini con i teorici e gli artisti neoclassici e in relazione con un’intima maturazione dell’animo pariniano, quella costante si precisa in un piú sicuro neoclassicismo, nell’aspirazione ad una poesia piú distaccata, serena, nobile e calma che si realizza poeticamente soprattutto nelle ultime Odi. Né in tale sviluppo, contro ciò che il Fubini sembra attribuirmi, si perdono gli essenziali elementi illuministici, come affermai ampiamente nel capitolo pariniano del mio Preromanticismo italiano, come faccio vedere in una conversazione radiofonica sul Parini che sarà letta al Terzo Programma della RAI in una serie di trasmissioni sull’illuminismo italiano, diretta dallo stesso Fubini, e che sarà poi pubblicata, e come mi pare chiaramente detto anche nel saggio in discussione, a p. 273 e altrove.

Quanto alle correzioni del Giorno, ammetto senz’altro che il problema della loro precisa realtà sia da rivedere con molta cautela e abbondante documentazione, e che discutibile sia certo la determinazione di un «miglioramento» generale rispetto al testo del ’63 e del ’65 delle prime due parti. Ma mi sembra pure che in quella revisione artistica ci sia qualcosa di piú di una semplice cura di artefice genericamente classicheggiante, e che, anche se si ammetta in molte di quelle correzioni un impoverimento del testo originario (e non certo la riprova di una generale involuzione del poeta cosí pieno e maturo proprio nelle ultime Odi), si dovrebbe comunque rilevare anche in ciò il segno che ad una poetica piú tesa all’efficacia satirica-descrittiva si era venuta sostituendo, nel piú tardo Parini, una poetica piú chiaramente neoclassica, piú calma e serena, che, se poté anche provocare attenuazioni peggiorative di singoli passi nel contesto preciso delle prime parti del Giorno, trovava però una congeniale attuazione sia nelle parti ultime del poemetto sia, e soprattutto, nelle ultime Odi, frutto alto della maggiore maturità del Parini. Il che mi par ricondurre alla verifica di validità di una linea di svolgimento della poetica pariniana, del suo sviluppo entro condizioni storiche di cultura e di gusto originalmente rivissute in una esperienza vitale e poetica dinamicamente e unitariamente svolta, quale è presentata sostanzialmente dal saggio discusso.

Marino Berengo, La società veneta alla fine del 700, Firenze, Sansoni, 1956, pp. 360.

In questo volume, degno di molta attenzione, e meritevole di un esame particolareggiato in sede specificamente storica, il Berengo offre una vasta e documentata ricostruzione della società veneta negli ultimi decenni del Settecento, che ben precisa le ragioni complesse della decadenza della repubblica veneziana, della sua caduta all’urto della rivoluzione francese, e delle scarse reazioni vitali della intera società veneta di fronte a tale urto e a tale crollo. Particolarmente pregevole da tal punto di vista appare il quadro (frutto di una attenta utilizzazione degli studi precedenti generali e particolari, e di una personale indagine di documenti d’archivio) delle condizioni politiche dello stato aristocratico veneziano, con il suo profondo contrasto fra stato cittadino e stato regionale, fra la salda e reazionaria rocca cittadina privilegiata (salda, malgrado i vani tentativi da parte della nobiltà inferiore di scuotere il dominio assoluto del patriziato senatorio e di partecipare al potere) e la terraferma, divisa in particolari situazioni locali e scontenta del sempre crescente assolutizzarsi del carattere aristocratico-cittadino dello stato a scapito della sua primitiva (anche se già limitata) forma federale-regionale. Difficoltà istituzionali cui corrisponde una non minore debolezza e crisi degli organismi amministrativi, e che insieme contribuiscono allo sfasciarsi di uno stato incapace di una unità non fittizia e chiuso al benefico rinnovamento riformatore dell’illuminismo.

D’altra parte l’autonomismo delle province non dà neppur luogo ad una forte vita locale, ché anche nelle province fortissima è la divisione fra il ceto nobiliare e il popolo, del tutto indifferente ad ogni rivendicazione autonomistica. Perché un altro motivo della debolezza veneta è rappresentato dalla scarsa vitalità della borghesia, «insieme discorde di gruppi diversi», poco attivi economicamente; mentre il vecchio artigianato va scomparendo nel processo di concentrazione capitalistica e al faticoso ritmo di produzione di una economia in decadenza fa riscontro un sempre piú basso livello di vita degli operai, abbandonati sempre piú agli arbitri dell’imprenditore. Donde un quadro squallido di miseria delle classi subalterne (malgrado una notevole attività assistenziale del governo, insufficiente però e naturalmente priva di ogni giustificazione di giustizia sociale) documentata anche dal preciso esame della alimentazione del popolo, delle classi inferiori, e particolarmente della popolazione rurale, sulle cui condizioni di vita economico-sociale il Berengo scrive un capitolo davvero esauriente e convincente, rilevando poi nell’abbandono e nel disprezzo del ceto contadino una delle ragioni piú forti della decadenza dello stato veneto.

Meno compiuto e interamente persuasivo può apparire invece lo studio della vita culturale, in cui la ricerca della effettiva realtà di tale aspetto della società veneta par cedere ad una piú rigida verifica di alcune linee fondamentali di arretratezza, conservatorismo, scarsa vitalità, meglio e piú sicuramente rilevate nello studio delle dirette condizioni economiche, politiche, sociali. Con un certo scapito almeno del preciso rilievo di quella vita letteraria in cui il canone di interpretazione storica a base economico-sociale appare meno adeguato a cogliere aspetti di interesse effettivo e calcolabile entro una storia piú duttile e complessa dei fatti culturali-letterari, dei fenomeni del gusto e della sensibilità. Cosí, solo per fare accenni che meriterebbero ben maggiore sviluppo, par significativa l’assenza di ogni riferimento all’importanza degli ambienti letterari veneti nella storia del preromanticismo e del neoclassicismo, e di ogni esame (accanto ai rapidi accenni a letterati come G. Gozzi o M. Cesarotti) di personalità interessanti come quelle dei due Pindemonte, interessanti anche proprio in rapporto a motivi di apertura o chiusura di fronte alle nuove idee riformatrici e rivoluzionarie. Si deve notare del resto che l’interesse dello studioso verte soprattutto sull’aspetto filosofico e religioso della cultura veneta, «che è quello di maggior peso nella vita culturale di un paese», e in tal senso anche in questo capitolo molto interessanti sono le osservazioni e le documentazioni sulla censura della repubblica veneta saldissima nella difesa del «binomio cattolicesimo-governo», sulla stessa vita religiosa veneta, sulle esitazioni delle correnti moderate di quello che si potrebbe chiamare «illuminismo cattolico» di fronte ai testi francesi piú decisi (come Helvétius), sulla diffusione dei libri e dei giornali, con posizioni piú complesse e non prive di una certa vitalità e di certe timide aperture, sollecitate anche dalla pratica anticurialista del governo, per quel che riguarda la materia religiosa; mentre piú chiusi appaiono in genere gli uomini di cultura veneta (anche quelli della corrente laica conservatrice) nei riguardi del pensiero illuministico egualitario. Né mancano il rilievo di avvii verso una cultura piú moderna e civile e antiautoritaria specie in alcuni gruppi locali, come quello bresciano, e il rilievo ben precisato della presenza e della importanza dei vari gruppi massonici.

Mentre il capitolo successivo (Esperienza di giacobini e di ribelli) studia alcune personalità variamente decise, velleitarie e confuse (e certo in realtà ben poco «giacobini» e veramente «ribelli» appaiono poi uomini come il Pepoli che finiva per non trovare un’incolmabile diversità fra la repubblica francese e quella veneziana, o come il Formaleoni davvero «giacobino e confidente d’occasione»), ancor piú interamente convincenti e armonicamente fusi appaiono il capitolo sul cattolicesimo e le nuove idee, ricco di risultati e di spunti (l’invito ad una storia del giansenismo veneto, «storia difficile per quella ricchezza di germi giurisdizionalistici che qui il movimento racchiude», o la individuazione di un clero solido, ma non sanfedistico, con tendenze verso un cattolicesimo antireazionario che comportano «alcuni tra i germi piú fecondi del movimento giacobino in Italia», o il rilievo, in una zona di laici fedeli alla religione, della maturazione di «una visione religiosa della libertà») e il capitolo finale, La diffusione delle idee rivoluzionarie nella repubblica veneta, che acutamente studia tale diffusione a Venezia, a Bergamo, a Brescia, nello Studio di Padova e in minori città piú evolute come Salò, e precisa le relazioni fra aspetti politici e disagio economico, e le reazioni del «basso popolo» e delle campagne di fronte alla rivoluzione francese: reazioni assai minori rispetto a quelle dei gruppi piú avanzati della nobiltà meno legata alla conservazione dei suoi privilegi, e della borghesia piú vivace. Ché anzi mentre «il basso popolo» di Venezia si trovò unito al patriziato senatorio nella fedeltà alla vecchia repubblica, i contadini rimasero sostanzialmente indifferenti come i popolani di terraferma che anche nell’unico caso di sommossa (quella delle celebri Pasque veronesi) sarebbero stati mossi alla sanguinosa ribellione solo dalle angherie francesi, non da precisi motivi sanfedistici o da uno slancio di fedeltà a Venezia.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 2, aprile-giugno 1956.

Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento (1700-1815), Milano, Feltrinelli, 1956, pp. 428.

Segnaliamo questo primo volume di una storia dell’Italia moderna (un secondo volume si occuperà del periodo 1815-1849, un terzo di quello 1849-1870, altri tre svolgeranno la storia dell’Italia dal 1870 al 1946) come un utilissimo manuale di storia settecentesca, specie dell’ultimo Settecento piú ampiamente trattato in relazione all’assunto e alla tesi del Candeloro di un Settecento italiano come periodo che «pur non facendo parte del Risorgimento, perché nel corso di esso non compaiono ancora dei gruppi politici tendenti a lottare per l’unificazione e per l’indipendenza dell’Italia, costituisce una specie di premessa al Risorgimento stesso: in questo periodo infatti maturano le condizioni sociali, politiche e culturali, dalle quali, negli ultimi anni del secolo, sotto lo stimolo e l’impulso della Rivoluzione francese, il Risorgimento prenderà le mosse». Storia ben delineata (e con una abbondante bibliografia, che si mostra concretamente utilizzata nella composizione del lavoro, anche se con minore attenzione e utilizzazione, mi sembra, della produzione e dei documenti stranieri) e stimolante anche nel suo orientamento prevalentemente economico-sociale che, tutto sommato, conduce insieme all’utilizzazione sintetica di studi particolari piú lontani dalle possibilità di informazione del non specialista e sollecita – proprio nella impressione di zone coperte da ipotesi piú che da risultati – a piú precisi studi ed indagini sulla situazione economico-sociale di tutti i vari stati italiani del Settecento. Piuttosto gracile mi sembra il libro (che, ripeto, è utilissimo come messa a punto dei risultati storiografici piú recenti sul Settecento e come stimolo ad una considerazione concreta dell’aspetto economico sociale di quell’epoca) per quanto riguarda la situazione culturale, anche se il Candeloro non manca qua e là di rilevare la presenza di elementi anche di sensibilità e di gusto che arricchiscono il quadro, specie dell’ultimo Settecento.

Giuseppe Martano, rec. a Antonio Corsano, Giambattista Vico, Bari, Laterza, 1956, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXV, 1956, III, pp. 439-442.

Dopo aver rilevato come anche recentemente la grande opera del Vico abbia stimolato interpretazioni diverse a seconda degli orientamenti degli studiosi, che vengono indotti dalla complessità ed enorme ricchezza di quel pensiero e dalla sua importanza storica a ricercarvi un antesignano delle proprie posizioni (cosí per la posizione cattolica dell’Amerio, per quella idealistica del Nicolini, per quella esistenzialistica del Paci), il Martano espone le idee del nuovo volume vichiano con cui il Corsano rivede autocriticamente il suo lavoro di vent’anni fa (Umanesimo e religione di Giambattista Vico) e sviluppa una linea di svolgimento del pensiero vichiano e della coscienza vichiana, dall’ispirazione profetica e pedagogica delle Orazioni alla prima impostazione della posizione speculativa nella Metafisica, ricca di inquietudine agnostico-nominalistica, alla rinunzia delle premesse agnostiche e umanistiche con un saldo agganciamento ad un principio ontologico-metafisico di marca agostiniana nel De uno che sembra cedere ad una nuova impostazione storicistica nella prima Scienza nuova, per ritornare invece piú sicura nella seconda in cui «lo spirito profetico e la poetica visione sommergono ogni preoccupazione critica». Pessimismo cristiano o pessimismo esistenziale? Per il Corsano «il Vico si poneva fuori di ogni definizione modernamente e cristianamente accettabile della libertà». Segue alla esposizione una breve aggiunta personale del recensore che indugia, in forma piú di dubbio che di soluzioni, sulla enigmaticità del vero fondo della coscienza del Vico poeta e filosofo, cristiano professante e consapevole dei limiti della sua posizione, «avvertendo la suggestione di Cartesio e denunciando l’angustia di ogni speculazione che ignora il mondo degli uomini, sentendo la grandezza dell’uomo e il correlativo pascaliano senso della povertà».

Erich Auerbach, Giovambattista Vico e l’idea della filologia, «Convivium», XXIV, 1956, 4, pp. 394-403.

Questo saggio, del noto autore di Mimesis, già uscito in tedesco nel 1936 (negli «Estudios Universitaris Catalans»), punta sull’individuazione della piú importante delle scoperte del Vico: «lo studio dell’uomo, della forma spirituale degli uomini, agli albori del suo stato sociale». Studio da cui «emanano tutte le concezioni del Vico sul linguaggio, sulla poesia, sul diritto, sulla dottrina dello stato e sull’economia». A tale scoperta il Vico fu condotto dal suo metodo di interpretazione dei miti, dei documenti giuridici e linguistici piú remoti e dei poemi piú antichi: una vera e propria «nuova arte critica» elaborata sul materiale cosí lacunoso offertogli dall’epoca tardobarocca. Nuova arte critica che adotta il metodo della filologia, ripreso non senza difficoltà particolare, dato che in questo caso «un uomo del primo Settecento cerca di intendere la natura degli uomini primitivi», di uomini cioè di mente corposa e sensibile, incapace di astrazione. Il Vico superò la difficoltà ricorrendo al «senso comune» degli uomini, che non è un dato di ragione, e conduce non al verum, ma al certum. E cosí il sensus communis diviene non soltanto il principio oggettivo dell’evoluzione storica corrispondente, ma anche la fondazione soggettiva di una comprensione storica, ossia di quella filologia che il Vico attuò cosí interamente, e il cui contenuto è l’essenza intimamente umana della storia che ne consente all’uomo la conoscenza, come il patrimonio di cui è creatore. Secondo l’Auerbach, anche se il Vico chiamò la sua nuova arte ermeneutica «filosofia» (e anche se per la maggior parte delle sue osservazioni ricorre a due ordini di prove: filosofiche e filologiche), il centro del sistema rimane l’esegesi – dunque filologia – di documenti come Omero, le dodici tavole, e l’interpretazione dei miti: pur precisando ancora (e ci pare con molta opportunità): «certo è una filologia filosofica e in genere una filologia nell’accezione piú larga», ma «sta di fatto che proprio dal Vico vengono definizioni della filologia che vi corrispondono pienamente».

Riportate alcune definizioni vichiane della filologia, l’Auerbach conclude affermando che «sarà pertanto legittimo considerare la Scienza nuova come un’opera filologica, la prima opera della filologia come intendere», e che il Vico ne fu il fondatore nel presupposto della comunanza dell’umano («ciò che contava per lui era l’uomo in generale»). In questo senso la filologia diventa la quintessenza della scienza dell’uomo in quanto essere storico e include tutte le discipline che postulano il medesimo oggetto, a cominciare dunque da quella che in accezione rigorosa si dice scienza storica. «Postulato fondamentale, ripetiamo, la possibilità della reciproca comprensione degli uomini, della realtà di un mondo umano comune partecipabile e accessibile a ogni individuo». Comunanza che il Vico comprese «non in un senso evoluto, illuministico e progressivo, ma nell’ampia e tremenda realtà totale della storia».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 60°, serie VII, n. 3-4, luglio-dicembre 1956.

Arnaldo Momigliano, Gli studi classici di Scipione Maffei, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXIII, 1956, 403, pp. 363-383.

In questo importante articolo il Momigliano presenta una «immagine provvisoria» (in base al materiale noto e in attesa dei risultati di piú ampie esplorazioni che egli annuncia di avere intrapreso insieme a Franco Venturi nel ricco materiale maffeiano inedito) delle caratteristiche e del significato degli studi classici del Maffei nella cultura europea settecentesca e della loro importanza nella cultura classica italiana successiva. Dopo avere indicato le carenze della cultura classica in Italia all’inizio del secolo (vi mancava qualsiasi istituto di ricerca sul tipo di quello dei Maurini) e il carattere autodidattico degli studiosi italiani (ma autodidatti che pur contribuirono a cambiare la faccia degli studi classici e medievali con la scoperta dei codici della Capitolare di Verona, nel 1712, con la scoperta della civiltà etrusca, con la scoperta di Ercolano e infine con la pubblicazione dei Rerum italicarum scriptores), il Momigliano indica nel Maffei il rappresentante piú cospicuo della straordinaria vigoria, ma anche della insufficiente disciplina e maturità mentale della cultura italiana nel primo Settecento, «l’autodidatta per eccellenza, l’uomo che per tutta la vita cercò, solo parzialmente riuscendovi, di padroneggiare le tecniche di lavoro che gli erano necessarie», e che, pur non essendo ben sicuro nel suo dominio di conoscenze, cercò di supplirvi anche con lo strafare, a volte, e con lo sfruttare spregiudicatamente il lavoro altrui.

L’attività del Maffei viene seguita cosí nel periodo della utilizzazione della celebre scoperta dei codici di Verona, in cui lo studioso genialmente vide le conseguenze che ne derivavano sull’unità della cultura medievale e sulla posizione che in quella ebbero l’Italia settentrionale e Verona, aprendo insieme un solco essenziale allo studio filologico del Lachmann e del Traube, e poi nel successivo periodo dal ’12 al ’20 (il piú fecondo e creativo), nel quale il Maffei giunse alla proposta di una riforma del metodo di studio italiano con l’introduzione dei metodi di critica dei Bollandisti e dei Maurini. Minore appare poi al Momigliano il contributo maffeiano negli studi di storia ecclesiastica, nei quali prevale nel Maffei il proposito di difendere l’ortodossia (punto difficile e poco studiato anche per i rapporti con i gesuiti) a cui si ispira l’Istoria teologica, interessante comunque per il tentativo di una esposizione storica in materia dottrinale, che al Momigliano appare nuovo e originale rispetto alle altre opere degli apologeti cattolici italiani di primo Settecento.

Questa diminuzione di forza critica rilevata anche nella storiografia municipale del Maffei (solo nel Consiglio politico del 1732 per la repubblica di Venezia il Maffei si avvicinò ad una storiografia civile vera e propria) è, secondo il Momigliano, collegata, piú che ad una timidezza spirituale o ad un indebolimento senile, ai limiti generali del Maffei: «I limiti del Maffei sono piú gravi, ma non intaccano la grandezza dell’uomo, mirabile per attività, acume, ricchezza di interesse, mirabile anche per ciò che in lui c’è di donchisciottesco. Nella debolezza del Maffei si definisce la debolezza della cultura italiana della prima metà del Settecento. Essa non riuscí a stabilire un contatto serio con il mondo classico né attraverso la questione religiosa né attraverso l’interesse e l’amore per la storia municipale. Né il Maffei né altri seppe creare una scuola, un addestramento tecnico nell’edizione e nel commento dei testi greci, essenziale per ogni lavoro di storia antica che potesse essere seme di futuri sviluppi. La rivoluzione degli studi classici si compie in nazioni dai piú profondi conflitti politici e religiosi, e che sapevano meglio il greco».

Fiorenzo Forti, Studi maffeiani, «Giornale Storico della letteratura italiana», LXXIII, 1956, 404, pp. 585-603.

Questa densa e attenta rassegna degli studi maffeiani del centenario si apre con la recensione dell’Epistolario, curato dal Gabotto, su cui il Forti, pur rilevandone la grande importanza, fa varie riserve sia sul testo (mancanza di esposizione da parte del curatore dei suoi criteri editoriali, grafia troppo diplomaticamente riprodotta, presenza di numerosi errori tipografici e di lettura), sia sull’ordinamento delle lettere e su alcune erronee datazioni, sia sulle annotazioni spesso insufficienti. Quanto alle offerte dell’epistolario agli studiosi del Maffei, le osservazioni centrali del Forti vertono sul carattere prammatico e sul valore prevalentemente documentario delle lettere maffeiane: valore documentario il cui pieno interesse (anche se le lettere non bastano a risolvere certi problemi di fondo che vanno comunque definiti nell’opera stessa del Maffei) si verifica specie a proposito di vicende e questioni importantissime nella vita del Maffei, come quella svoltasi intorno al De fabula equestris ordinis constantiniani, o circa il carattere della relativa impreparazione del Maffei nei vari campi di studio a cui egli era portato a reagire con l’impetuosa foga di nuovi studi vastissimi e assorbenti tutta intera la sua forza vitale, il suo impegno, i suoi interessi (gli studi eruditi prima, quelli teologici poi in relazione alla Storia teologica). Piú breve invece è, naturalmente, il resoconto e la discussione degli Studi maffeiani del Liceo di Verona (da noi schedati nel n. 4 dell’anno scorso), considerati utili, ma risolti in contributi piuttosto marginali; del libro del Gasperoni (Scipione Maffei e la Verona settecentesca, Verona 1953; recensita sul n. 2 del ’55 di questa «Rassegna» da G. Ziccardi) di cui si rileva l’abbondanza di utili notizie sull’ambiente e erudito e letterario veronese, ma insieme si nota il carattere un po’ frammentario e «legato a forza» del libro, un certo suo eccesso di apologia e di polemica contro ogni limitazione della preparazione erudita del Maffei; infine del libro del Silvestri (Un europeo del Settecento, Scipione Maffei, Treviso, 1951) di cui il Forti loda (secondo me con qualche generosità) il carattere di felice sintesi, notando però (e si veda in proposito la mia scheda del n. 1 del ’55 di questa rivista) la unilateralità e diversità delle fonti critiche su cui il Silvestri si appoggia specie per quanto riguarda l’aspetto piú specificamente letterario dell’attività maffeiana. Su questa il Forti tende a meglio precisare la posizione del Maffei rispetto a quella del Gravina e di altri teorici-pragmatici di poetiche arcadiche, insistendo sulla lettera al Garzadoro sul Maggi: distinzione che meriterebbe piú preciso sviluppo e discussione entro una generale sistemazione delle correnti della poetica arcadica e in un largo chiarimento dei rapporti Seicento-Arcadia per quanto riguarda la relazione Marino-Maggi.

Nerina Cremonese Alessio, Carteggio di Ippolito Pindemonte. Bibliografia, «Atti dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona», Serie VI, vol. V, 1953-1954, Verona, 1955, pp. 146.

È certo questo il contributo piú utile offertoci per lo studio del Pindemonte in occasione del secondo centenario della sua nascita (segnalammo a suo tempo un vivace saggio di F. Riva e la pubblicazione di trenta lettere inedite – non tutte però effettivamente tali – da parte della Bosco Guillet). Il volumetto si apre con una breve introduzione che espone i criteri del lavoro bibliografico, la storia dei precedenti tentativi di una pubblicazione integrale dell’epistolario pindemontiano (quelli di Giuseppe Biadego e di Pietro Sgulmero, il quale lasciò nella Biblioteca Comunale di Verona due cataloghi, uno cronologico e uno alfabetico, ma non completi, delle lettere, un elenco di pubblicazioni contenenti lettere pindemontiane e le copie di molte lettere conservate fuori di Verona) e qualche rapido appunto sul valore e sullo stile dell’epistolario pindemontiano: appunti in verità poco incisivi e da rivedere specie nell’affermazione di una scrittura «lepida, alla buona, senza pretese» che non pare tener conto del particolare impegno del sottile e finissimo letterato nella attuazione consapevole di un tono epistolare discorsivo, affabile (giustamente collegato «alla finezza ed arguzia del signore, abituato alla conversazione dei salotti aristocratici e cosmopolitici»), ma pur controllato e letterariamente attentissimo. Ma il valore del lavoro è proprio nell’offerta – utilissima agli studiosi del Pindemonte e al futuro attuatore di una edizione integrale di questo epistolario – di un ricco strumento preparatorio ai fini della suddetta edizione e comunque di una larga base per la ricerca delle singole lettere pubblicate o conservate manoscritte. Per le prime si dà un elenco alfabetico con sigle per ogni pubblicazione in cui compaiono lettere del Pindemonte o a lui dirette e una bibliografia delle lettere a stampa in ordine cronologico; per le seconde, siano esse del Pindemonte o a lui dirette, si danno indicazioni circa la loro attuale collocazione, secondo l’ordine alfabetico dei corrispondenti. Si tratta di circa 1500 lettere conservate in biblioteche pubbliche o in raccolte private italiane e straniere (specie in Austria e in Inghilterra); fra queste, gruppi cospicui particolarmente per numero e interesse sono: il gruppo di 426 lettere al Bettinelli (nella biblioteca di Mantova), quello di 87 lettere al Gargallo (nell’Archivio Gargallo di Castel Lentini) e il gruppo di 166 lettere di Mario Pieri (nella Riccardiana di Firenze). Completa il lavoro un indice alfabetico dei corrispondenti con brevi notizie bibliografiche e sulla loro relazione col Pindemonte: notizie però che mancano per alcuni corrispondenti e che potevano venire completate con maggiori ricerche, non sempre troppo difficili. Cosí come certi «probabilmente» circa la effettiva pubblicazione o meno di lettere di cui esistono i manoscritti potevano essere evitati con una maggiore e diretta ricerca e confronto. Né sarebbe stato inutile distinguere ulteriormente le lettere effettivamente inedite in un catalogo a parte rispetto a quello che raccoglie tutte quelle che, pubblicate o meno, si conservano manoscritte.

Ma anche con queste riserve il lavoro, ripeto, è ben utile e costituisce un passo avanti verso quella pubblicazione dell’epistolario pindemontiano che io mi auguro possa venir presto effettuata magari ad iniziativa di qualche ente pubblico veronese.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 1, gennaio-marzo 1957.

Giorgio Falco, Sulla coscienza civile del Settecento italiano, «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 90, 1, 1955-1956, pp. 19.

In questo sintetico saggio del Falco (un discorso di prolusione all’anno accademico dell’Accademia delle Scienze di Torino) fondamentale è la lucida ed efficace definizione del passaggio dalla ragion di stato secentesca alla settecentesca «pubblica felicità»: «ad una concezione in certo qual modo statica, la quale accentra nel principe i compiti della conservazione, dell’ingrandimento, e della potenza dello stato, si è venuta sostituendo una concezione polemica, critica e dinamica, la quale per un verso guarda alla vita pubblica dal basso, diciamo cosí, cioè dalla parte dei sudditi che s’avviano a diventare cittadini, per l’altro pone come compito supremo dell’assetto politico il provvedere all’utile comune e il procurare la comune felicità». «Sicché la conquista del secolo è l’economia civile, o pubblica o politica, come viene variamente chiamata, che mira a procurare il maggior benessere al maggior numero di cittadini». Il principe si trasfigura cosí nella legge, nella giustizia per tutti, nel diritto e dovere per ognuno di lavorare e fruire del frutto del proprio lavoro, la popolazione sana ed attiva diviene la vera ricchezza degli stati, un impulso di libertà e di giustizia, pur in una certa cautela di saggezza conservatrice, anima i riformatori sin dalla zona che potremo chiamare di preilluminismo dove campeggiano le figure del Muratori e del Maffei. Già questi e tanto piú i veri e propri illuministi (e nella continuità di interesse civile mi pare che vada pur fortemente sottolineato il passaggio alla maggior decisione e consapevolezza dei veri illuministi nel loro generale carattere di coraggio intellettuale e pratico magistralmente definito dal Kant nel suo «Was ist Aufklärung?») appaiono sensibili e variamente applicati – pur fra remore e possibili casi di involuzione – all’individuazione o alla soluzione dei grossi problemi posti dalla realtà sociale ed economica del tempo: quelli della nobiltà, della mendicità, della società ecclesiastica, dell’agricoltura, del commercio, con le inerenti gravi questioni dell’usura, del lusso e dell’annona. E nella cultura il nuovo slancio ai fini della pubblica e privata felicità si ripercuote in una nuova storiografia, non piú dinastica, militare, diplomatica, ma economica, sociale, attenta allo sviluppo delle istituzioni, dei costumi, delle invenzioni e delle scoperte.

Ne risulta tutto un largo movimento di nuove forze (anche se non si può, senza forzatura, documentare nel Settecento italiano una vera coscienza di classe borghese) che si muovono nello stimolo largo di correnti europee: ché l’Italia vive in un vivo contatto con le altre nazioni europee e «voler rivendicare – come pure è stato fatto da qualcuno fra i nostri maggiori studiosi – un’autonomia nazionale a questo moto di cultura significa non arrendersi alla realtà italiana e rifiutare la testimonianza stessa degli scrittori». E se sarebbe anche errato attribuire al Settecento una coscienza nazionale che nasce con il romanticismo, pure anche in questo senso qualcosa di nuovo c’è. Non solo qualche accenno e precorrimento come il celebre scritto del Carli, ma, ciò che piú conta, la nuova sollecitudine civile, la fiera lezione di disciplina e di energia, di fiducia e di speranza che sale dalle pagine dei riformatori: dal «darsi animo» del Muratori alla polemica del Genovesi contro l’inerzia del «non si può».

Guido Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Società Tipografica Editrice Modenese, Modena, 1957, 2 voll., pp. 483.

Sollecitato dagli spunti geniali di Gobetti e dalle recenti indagini di F.Venturi sul Radicati e sulla condizione sociale, economica e culturale del Piemonte nella prima metà del Settecento, il Quazza ha compiuto in questi due volumi un vasto e documentato studio generale di analisi della vita sociale e politica piemontese sotto il regno di Vittorio Amedeo II e di Carlo Emanuele III, che potrà richiedere a sua volta altri studi ancor piú particolari su determinate questioni (ad es. sulle precise vicende della proprietà e della sua distribuzione), ma che già di per sé offre molte risposte agli interrogativi lasciati dalla storiografia precedente e una valutazione generale di quel periodo sostanzialmente accettabile e rinnovatrice, specie rispetto a certe e non del tutto spente interpretazioni apologetiche e ad uno stesso possibile loro impaziente e totale capovolgimento.

Dopo un’iniziale presentazione dei principali artefici delle riforme piemontesi di primo Settecento (Vittorio Amedeo II, inquieto, malinconico, diffidente e impetuoso, spinto da un energico concetto assolutistico, fra l’esempio di Luigi XIV e la scuola del Botero, e limitato culturalmente dalla sua formazione poco profonda; G.B. Gropello, Pietro Mellarède, l’uomo di maggior cultura del gruppo vittoriano; il marchese d’Ormea, che segna il passaggio fra l’era piú attiva delle riforme e l’inaridimento piú chiaramente rappresentato dal Bogino; Carlo Emanuele III che appare soprattutto come un amministratore eccezionalmente ordinato, un regolatore quasi perfetto d’una macchina già da altri preparata; e i minori collaboratori, il gruppo dirigente di avvocati-burocrati – Saint-Laurent, Bertarini, Petitti, Zoppi, Caissotti – che rappresentano «l’immedesimazione della borghesia forense e amministrativa con lo Stato sabaudo»), il Quazza analizza la nuova struttura amministrativa iniziata nel 1717 con il riordinamento delle segreterie e delle aziende centrali e con la revisione dell’apparato amministrativo periferico, ispirati a fondamentali criteri di funzionalità (che in qualche caso sembrano anticipare le riforme teresiano-giuseppine e leopoldine, specie nella creazione di leggi che regolano l’amministrazione locale piú controllata dal centro in funzione antifeudale), ma anche limitato dalla tendenza assolutistica e accentratrice, piú arretrata specie per quel che riguarda la magistratura, e precisa la composizione sociale dell’apparato burocratico e giudiziario confermando le caratteristiche essenziali di questo movimento riformatore nei suoi aspetti di progresso e di limite assolutistico anche in quella sicura immissione di borghesi nelle cariche amministrative che muove sí forze nuove, ma insieme le lega indissolubilmente alla volontà del sovrano anche piú di quanto sarebbe stato possibile con la nobiltà piú potente e ribelle. Ugualmente una riprova degli scopi e dei caratteri di accentramento e di controllo del dispotismo riformatore sabaudo e della sua volontà di creare uno strumento piú efficace per affrontare le vicende della politica internazionale si ha nelle particolari cure dedicate alla diplomazia e all’esercito, nel quale notevole appare il perfezionamento dell’amministrazione e dell’addestramento, specie per l’artiglieria e il genio, anche se si deve subito notare che, mentre nella strategia sabauda permane una arretrata concezione tattica (e quindi al solito una capacità di perfezionare gli organi esistenti piú che di rinnovare i metodi e gli scopi), anche nella politica riguardante la composizione sociale della diplomazia e dell’esercito si rivela dominante la preoccupazione di accentrare il massimo dei poteri nelle mani della dinastia e la tendenza non già a mutare cosí il concetto della funzione sovrana con una modificazione dei rapporti di forza tra le classi, ma anzi a render quella di fatto piú capace di controllare e metter a frutto le energie esistenti nel regno. Caratteri generali che precisano la particolare condizione di riforme spesso efficaci e utili, ma sempre limitate da una concezione generale dello stato e dei suoi scopi piuttosto arretrata e piú vicina a certo assolutismo secentesco che al vero assolutismo illuminato, e che il Quazza verifica ancora nella politica di riassetto delle finanze, il cui successo notevole (effettivo aumento delle entrate, riduzione delle sperequazioni di carichi fra provincia e provincia e fra classe nobiliare, ecclesiastica e borghese) deve essere valutato nel rapporto di un effettivo progresso (nuove possibilità di rafforzamento economico e di maggior peso sociale di vari gruppi borghesi) e della sua funzione di rafforzamento della capacità accentratrice della monarchia anche nella sua parziale limitazione della potenza nobiliare ed ecclesiastica. Come ugualmente deve essere valutato il successo considerevole ottenuto dall’azione svolta dall’assolutismo riformatore sabaudo nel campo industriale con una politica produttivistica (specie nel settore della seta e della lana) a direzione prevalentemente mercantilistica e protezionistica che agevolò la formazione di un embrionale ceto industriale borghese senza però che i riformatori si rendessero ben conto delle conseguenze implicite nella politica industriale da loro iniziata, mancando insieme di audacia e di comprensione dei problemi nuovi del tempo e dei complessi legami fra i vari settori dell’economia e della vita del paese: donde la loro trascuratezza di fronte al problema delle vie di comunicazione e dell’attrezzatura commerciale.

Trascuratezza poi tanto piú chiara di fronte ai problemi agricoli, ché anzi in questo settore l’azione riformatrice si palesa inesistente, o quasi, di fronte allo squilibrio distributivo della proprietà e debole e incoerente si rivela l’intervento statale riguardo ai rapporti di lavoro nelle campagne, alle condizioni terribili dei contadini (specie in montagna), il cui attaccamento alla dinastia e il cui sentimento guerriero vengono dal Quazza squalificati come luoghi comuni di una tradizione storiografica inaccettabile, come lo stesso sforzo di organizzare piú ampiamente l’attività assistenziale (certo assai migliorata rispetto al passato, ma chiusa nelle angustie del paternalismo caritatevole, proprio di una società del privilegio) induce a ricercare quale sia la vera natura del sistema sociale-politico costruito in quasi mezzo secolo dal riformismo sabaudo. E la ricerca – contrariamente a certe facili apologie tradizionali – conclude per un quadro desolato della vita delle classi rurali (che richiama quello cosí efficacemente descritto dal Berengo per le classi rurali venete), la cui miseria e incultura spiega spesso quei silenzi dei documenti tante volte invocati da storici reazionari come riprova di un’idilliaca pace e di una serena accettazione di una povera vita da parte dei contadini, mentre tanti documenti ben testimoniano poi un fermento continuo, una irrequieta tensione di questa zona sociale, cosí come risulta un quadro meno fosco, ma pur sempre negativo nelle condizioni della vita cittadina. In tutto il paese si avverte una fondamentale contrapposizione di dipendenti e padroni sul terreno economico, e, tanto su questo, come in quello politico-amministrativo, di avversi gruppi familiari e persino di singoli membri d’uno stesso ceppo: contrapposizione che non rompe il sistema per un nuovo equilibrio, come le riforme hanno corretto e ridotto difetti ed eccessi, ma non instaurato un nuovo ordine sociale. Fondamentale resta l’alleanza dell’oligarchia col dispotismo, e se questo ha assimilato nel gruppo dirigente una notevole zona borghese rafforzandosi cosí e portando pure un certo progresso verso una situazione di meno gravi disparità civili, esso ha insieme operato a soffocare i fermenti rinnovatori che le forze borghesi avrebbero potuto portare e ha mantenuto sostanzialmente un sistema incapace di giustificare le proprie basi e i propri fini in una coerente costruzione giuridica ed etica: che è la conclusione di un denso capitolo sull’ordine giuridico, sulle costituzioni vittoriane cosí significative per l’insensibilità del re e dei suoi collaboratori verso ogni questione etico-civile, verso ogni problema di garanzia di libertà, verso ogni sia pur lontano spunto di compassione umana di tipo umanitario, illuministico o preilluministico: donde un’anchilosi crescente in un sistema soffocato nello sviluppo di progresso e di modernità dal dispotismo anche nella seconda metà del secolo, come si vede nelle costituzioni del ’70 che ricalcano quelle vittoriane senza alcun sentore del rinnovamento italiano ed europeo in corso (e ciò proprio, sottolineerei, nell’epoca dell’energica spiemontizzazione dell’Alfieri e del troppo esaltato prerisorgimento piemontese di tipo calcaterriano).

Uguale conferma dell’assenza di ogni profonda spinta ideologica nel riformismo dispotico sabaudo (direi davvero riforme in funzione di dispotismo, in netta distinzione dal dispotismo illuminato invocato dagli illuministi come concentramento di potere capace di profonde riforme in funzione progressiva e civile) si ha nelle stesse vicende dei rapporti Stato-Chiesa (su cui tanto ha già detto il libro del Venturi sul Radicati) ispirati alla massima spregiudicatezza pratica, e al solo scopo di salvaguardare i diritti e la libertà d’azione dell’assolutismo monarchico, come dimostrano il Concordato del ’27, la vergognosa cattura del Giannone, la stessa soluzione puramente pratica, opportunistica della questione valdese.

Ma la intrinseca inadeguatezza del «realismo pratico» che ispira l’opera riformatrice sabauda a costruire un equilibrio politico-sociale veramente nuovo e un certo difetto di vitalità spirituale delle forze sociali con le quali l’opera riformatrice viene compiuta si rivelano soprattutto nella politica scolastica e nel clima culturale. Certo la base culturale, alla vigilia dello sforzo riformatore, dei gruppi sociali piemontesi era molto scadente: istruzione di pedagoghi privati scadentissimi e di un collegio gesuitico del tutto formalistico e arretrato per i nobili e i borghesi, università povera di cattedre e arretrata rispetto non solo ai movimenti scientifici ed eruditi del razionalismo ed empirismo europeo, ma anche di fronte alla scuola galileiana toscana ignorata o malvista in Piemonte, mancanza di ogni forma di opinione pubblica e persino di singoli scrittori e studiosi degni di nota. In tale situazione, notevole è la riforma dell’università e degli studi, ma anch’essa è tutta determinata dalla volontà pragmatica di Vittorio Amedeo e dei suoi consiglieri siciliani, Pensabene e d’Aguirre, di mentalità strettamente giuridico-avvocatesca e vòlti essenzialmente alla formazione di uomini adatti al servizio del re. Sicché le note proposte di riforma degli studi presentate da Maffei trovano remore e diffidenze specie per l’esigenza storica e critica che era il loro centro animatore, e se i riformatori accettano i consigli del Gravina e del Grimaldi nella scelta di professori non papisti in relazione alla spinta giurisdizionalistica e regalistica anticuriale (invito al Lama, al Vallisneri, al Torti, all’Averani), le costituzioni universitarie del 1720 ben documentano la volontà del sovrano di mantenere il piú stretto controllo politico sulla scuola e di farne lo strumento ideologico e tecnico del dispotismo riformatore, servendosi anche degli elementi della polemica religiosa, ma senza permettere che se ne sviluppasse un movimento pericoloso per l’ortodossia, come dimostrano gli interventi regali volti a troncare, quando la convenienza politica o il timore di una eccessiva spinta critica lo consiglino, ogni polemica troppo accesa contro la Chiesa e contro gli stessi gesuiti a cui pur si tendeva a togliere il monopolio scolastico. Del resto, dopo il Concordato, il D’Aguirre e gli altri riformatori della scuola vennero allontanati e, se pur furono istituite molte scuole regie di accesso all’università e il collegio delle province, nell’ambito stesso di queste scuole e dell’Università prevalse, specie con l’Ormea, una concezione chiusa e ortodossa, mentre cresceva il rigido controllo della censura sulla stampa. Vero è che non si può negare un certo rinnovamento pedagogico, specie nella direzione antibarocca ed arcadica di rivalutazione della «buona letteratura» e dello studio dei classici e specie del greco, ma anche qui pare trattarsi di un timido adeguamento a un clima culturale già da tempo affermatosi in Italia piú che di un preannuncio di nuovi progressi, e nella stessa cultura letteraria di tipo arcadico-classicistico (rappresentata dal Regolotti, dal Lama, dal Tagliazucchi) troppo si rimane su di un piano di cura stilistica senza il legame tanto piú vivo in altri ambienti culturali arcadici e preilluministici, fra buon gusto, nuovo interesse storico e critico, e l’impegno civile che il razionalismo implica e sviluppa nella fase «preilluministica» caratteristica di quei decenni.

Insomma c’è un certo risveglio culturale, ma esso è contenuto nei limiti voluti dalla politica che lo ha promosso e, specie fuori dell’Università, non c’è circolazione di idee, non c’è vera vita letteraria e la stessa attività delle accademie arcadiche (su cui pure occorrerebbe far maggiori ricerche) è caratterizzata (oltre che dalla significativa esclusione delle donne) da un timido passaggio da forme barocche a quelle del moderatismo «tagliazucchiano». Tutto è in funzione della monarchia e gli stessi caratteri dei piemontesi formati in questo periodo appaiono privi di ardore e di slanci, proclivi al conformismo, piú adatti a fedeli servitori del potere assoluto che non a liberi protagonisti di una civiltà rinnovata e progressiva.

In conclusione tutta la storia di questo periodo (con le implicazioni che esso ha nei confronti del secondo Settecento) appare dallo studio del Quazza notevole sí quanto a rafforzamento dello stato sabaudo, quanto a preparazione pratica e tecnica di un’amministrazione fedele e coscienziosa (in cui prendon valore molti elementi borghesi), e non priva quindi di un avanzamento moderno e di un vantaggio sicuro rispetto all’arretratissima situazione secentesca, ma fortemente limitata rispetto alla evoluzione generale dell’Europa e dei piú progrediti stati italiani contemporanei: esempio chiaro della differenza fra un dispotismo assoluto anche se riformatore e il vero dispotismo illuminato.

Arduo era il compito di graduare storicamente il quanto di progressivo e il quanto di limitativo, di intrinsecamente limitativo, era nelle riforme sabaude di primo Settecento e forse potrà dirsi che il paragone del Piemonte con altri stati italiani sembra a volte un po’ proiettato in condizioni relativamente piú tarde anche negli altri stati chiedendo, a volte, una coscienza illuministica che anche altrove maturerà in anni successivi all’epoca 1713-1740, ma resta comunque comprovato il fatto che il moto riformatore sabaudo non aveva in se stesso le radici e le possibilità di quegli svolgimenti successivi, ed anzi finiva per isolare piú fortemente, proprio in virtú dell’accentramento e del controllo monarchico piú sicuro, il Piemonte dal vivo movimento civile, economico, culturale del resto d’Europa e d’Italia, provocando in tanti piemontesi piú vivi e toccati dalla cultura nuova (dal Radicati al Vasco, sino al massimo caso dell’Alfieri) quel moto prepotente di ribellione e di evasione, quell’impossibilità di collaborare con lo Stato sabaudo che sarà smussato solo dal fluire di idee liberali specie dopo il periodo napoleonico. Il libro del Quazza porta cosí una conferma decisa alla rottura di certe vecchie configurazioni apologetiche che dalla ipervalutazione delle riforme sabaude di primo Settecento passavano all’esagerato apprezzamento del contributo piemontese-sabaudo al nostro Risorgimento, e serve bene oltretutto a chiarire sempre meglio la situazione in cui venne a reagire la personalità giovanile dell’Alfieri.

Mario Fubini, recensione a Scipione Maffei, Il Consiglio politico alla Repubblica Veneta, a cura di Luigi Messedaglia, Verona, 1955, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXIV, 1957, 405, pp. 127-131.

Il Fubini mette in luce, nell’ambito del «preilluminismo», il particolare valore dello scritto maffeiano non tanto per la sua portata politica, quanto per la meditazione storica su cui poggia e che ne fa un vero saggio di pensiero storico innervato in un chiaro e vigoroso pensiero politico superiore a quello dell’assolutismo paternalistico di un Muratori, e fecondamente legato ad una vasta e assimilata lezione machiavellica sul cui generale significato nel Settecento (la tradizione machiavellica «persiste e si rinnova nell’incontro con una nuova realtà e nuove esigenze nel corso del Settecento, non soltanto in contrasto, come talora fu detto, ma accanto ed entro il pensiero illuministico») il Fubini augura un particolareggiato studio.

Franco Venturi, Un amico di Beccaria e di Verri: profilo di Giambattista Biffi, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXIV, 1957, 405, pp. 37-76.

In questo nuovo contributo che il Venturi dà ad uno studio del Settecento illuministico, rinnovato con dirette indagini anche su personalità meno comunemente note e considerate, vengono, con lucido acume e armonia di disegno, ricostruite la vita e l’attività del cremonese G.B. Biffi (1736-1807), la storia dei suoi rapporti con l’ambiente illuministico milanese: rapporti ben vivi e costanti nel periodo centrale della sua vita (dopo una prima educazione illuministico-classicistica a Parma e gli studi universitari a Pavia), come documenta, fra l’altro, una miscellanea di suoi scritti inediti chiaramente indirizzati, fra filosofia e letteratura, nella direzione del «Caffè» (a cui il Biffi non collaborò anche per la eccessiva audacia dei temi proposti per articoli in quella rivista), e contraddistinti particolarmente da una singolare attenzione ed interesse per la letteratura inglese (vari scritti sono addirittura in inglese), anche se non mancano prove vistose della sua attenzione all’illuminismo francese, come l’interessante versione di De l’esprit dell’Helvétius e del Fils naturel del Diderot. Ma, a parte le sue velleità di scrittore, il Biffi partecipò alla vita dell’illuminismo lombardo anche con la sua attività cittadina di patrizio illuminato, di notabile di nuovo tipo, esercitando in Cremona l’ufficio di presidente delle scuole, di membro della camera degli artigiani, e soprattutto quello delicatissimo di censore, in cui cercò in ogni modo di proteggere librai audaci, come il Manini, dallo zelo ecclesiastico e di allargare il piú possibile le maglie della censura: uffici esercitati con chiaro spirito di riformatore, anche se con una certa cautela tipica anche di uomo che, aperto alla comprensione dei diritti delle classi povere, non dimenticava la sua qualità di patrizio, ed anche se con il peso di una certa lentezza e limitatezza provinciale. A questo provincialismo il Biffi cercò del resto di reagire con numerosi viaggi, fra il ’73 e il ’76, nell’Italia settentrionale e in Francia, vero «filosofo pellegrinante», mosso da un desiderio di conoscenza di uomini e paesi, da un particolare interesse per l’arte e per «il vario e variopinto passato italiano». Ne nacquero quelle « lettere itinerarie» che meriterebbero intera pubblicazione (in appendice il Venturi ne pubblica due da Venezia, e annuncia la pubblicazione di tutte quelle da Genova in una prossima «Miscellanea di storia ligure» a cura dell’Istituto di Storia moderna dell’Università di Genova), sia per il loro valore in vista della ricostruzione di minori ambienti illuministici italiani (ad es. quello di Ferrara), sia naturalmente per la completa caratterizzazione di questa interessante personalità, della sua maturazione ed evoluzione assai caratteristiche, entro l’esperienza dei viaggi e con il suo forte interesse per il passato italiano che si riflette poi, dopo il ritorno a Cremona, in un piú deciso amore per la città natale e la sua storia, che a poco a poco si confonde con una certa nostalgia di vita patriarcale e tradizionale trovando un particolare equilibrio attivo (fra aspirazioni riformatrici e un complesso mondo sentimentale non privo di vaghi motivi religiosi) nella fervida professione massonica (il Biffi fu «maestro di cattedra» della loggia «S. Paolo la celeste», divenuta poi, nel 1780, «L’Aurore de la Lombardie»), prima di rivolgersi in una senile chiusura piú decisamente tradizionalista, «con un ritorno agli ideali e, forse, persino alla religione del suo ambiente e dei suoi antenati».

Storia di una personalità indubbiamente minore rispetto a quelle di un Beccaria o di un Verri, ma che mi pare molto interessante anche per graduare concretamente la diffusione e la viva assimilazione delle idee illuministiche in condizioni ambientali e personali particolari, il loro complesso sviluppo entro particolari reazioni di mentalità e di sensibilità. Proprio la sensibilità appare già avviata nel Biffi – nell’appoggio di una forte influenza rousseauiana ed entro una personale disposizione malinconica e tenera (che lo rendeva anche un po’ ridicolo, troppo «flebile», agli occhi dei suoi amici milanesi) – verso incerti svolgimenti preromantici (anche nella direzione di uno sviluppo da sensismo a sentimentalismo avvertibile in varie personalità del secondo Settecento pur animate da una sostanziale fede illuministica); mentre il suo amore per la tradizione, per il passato cittadino e nazionale si situa nell’ambiguo (e spesso maldefinibile) incontro di involuzione, d’indebolimento di centrali motivi illuministici e di preannuncio di nuove esigenze che avranno il loro pieno e nuovo valore nella spiritualità romantica.

Annibale Bozzola, Casanova illuminista, Modena, Società Tipografica Editrice Modenese, 1956, pp. 157. [Questa recensione è stata riproposta poi con il titolo «Casanova illuminista» in W. Binni, Classicismo e Neoclassicismo, Firenze, La Nuova Italia, 1963]

Lo studio del Bozzola, volto a riscontrare nelle opinioni e negli atteggiamenti del Casanova una sostanziale mentalità illuministica e a precisarne le particolari forme non solo nei Mémoires, ma nelle altre opere voluminose e caotiche dell’avventuriero veneziano, si articola in vari capitoli: il primo analizza la Confutazione della Storia del governo veneto di Amelot de la Houssaye, scritta nel 1769 allo scopo di acquistar benemerenze presso la Signoria veneziana, il secondo, basandosi soprattutto sulla Istoria delle turbolenze della Polonia, del 1774, e sull’Icosameron, del 1788, rileva gli interessi storici e la simpatia del Casanova per l’assolutismo illuminato e le teorie fisiocratiche, mentre il terzo vuol ricostruire la morale e la religione casanoviane nella loro mescolanza di motivi illuministici e di un sostanziale edonismo con il culto delle virtú tradizionali e con la fede nell’immortalità e nel Dio della tradizione cristiana; il quarto indaga sul Casanova massone e umanitario e il quinto ribadisce, attraverso l’esame del duro giudizio casanoviano della rivoluzione francese, la fedeltà dell’illuminista moderato al paternalismo assolutistico. Il capitolo conclusivo sostiene ancora la validità di un inquadramento enciclopedistico del pensiero casanoviano, mostrando però, in relazione alle numerose contraddizioni, confusioni e incertezze già rilevate nel corso dello studio, come quel «pensiero» nasca entro una «cultura abborracciata e approssimativa» e difetti di meditazione, di metodo, di disciplina, sia caratterizzato da chiare forme di presunzione, di ostentazione, di opportunismo.

Pensatore dunque il Casanova? Meglio senz’altro definirlo, come fa alla fine il Bozzola, «un mediocre e talora un cattivo dilettante del pensiero con qualche non raro lampo d’ingegno».

Conclusione senz’altro accettabile, come accettabile è il generale inquadramento del Casanova nel clima illuministico, ma, a parte la precisazione dei «lampi di ingegno» piuttosto dubbi (come nel chiaro caso di ipervalutazione di presunti precorrimenti di un senso dialettico della storia superiore a quello settecentesco), deve piú risolutamente dirsi che non solo dilettante, ma radicalmente frivolo, privo di serietà morale era il Casanova. E che perciò, se giusta appare la qualifica di lui quale illuminista come lata designazione di una sua fondamentale coloritura culturale e di epoca e se può essere non inutile ricercare in lui il riflesso, il documento di tante idee di quel tempo (ma sempre rivissute in maniera superficiale e qualche volta significativamente volgare come nel caso, ad esempio, della celebre disputa sulla somma prevalente nella vita dei beni e dei mali, dei piaceri e dei dolori risolta a favore dei primi col disprezzo della soluzione pessimistica come dovuta ad uomini malati o poveri che, «s’ils jouissaient d’une bonne santé, s’ils avaient la bourse bien fournie, la gaieté dans le coeur, des Ceciles, des Marines», cambierebbero parere), non sembrano poi utili e possibili i tentativi di precisare una sua meditata morale, una sua religione, una sua tormentosa esigenza di conciliare posizioni illuministiche e credenze tradizionali.

Le quali ultime poi sono riflessi spesso di una prima formazione seminaristica, spia di residui piú superstiziosi che religiosi in un libertino non sempre coerente e coraggioso, esibiti nei Mémoires, alla pari di certe riflessioni di buon costume, non senza una certa tinta di furbesco accaparramento dei lettori e con un gusto piuttosto istrionesco e pretenzioso, che non manca di colorire nel resoconto della sua morte, nei Fragments del principe de Ligne, perfino la dichiarazione finale e solenne: «J’ai vécu en philosophe et je meurs en chrétien». Per non dire di quando, piú coerentemente alla sua sensualità, la preghiera è pimento di una rievocazione di scena amorosa (ad esempio nella descrizione dell’idillico possesso di Nanette e Marton), come lo sono a volte le lacrime o la compassione per qualche fanciulla sedotta.

In realtà meglio sarebbe, a conclusione di una ricerca che serve soprattutto ad escludere ogni interpretazione troppo «seria» di Casanova, dichiarare che la sua vera fede era il piacere, la fruizione sensuale esaltata come bene supremo proprio nella sua realtà piú sensoria e immediata («Cultiver le plaisir des sens fut toujours ma principale affaire: je n’en eus jamais de plus importante»): una fede che volgarizzava il sensismo settecentesco nel suo aspetto piú grossolano fino alla significativa mescolanza, nel ricordo estasiato, dell’odore e del gusto delle vivande squisite e dell’odore e del possesso delle donne godute. Lí era il centro vivo dell’uomo e della sua eccezionale vitalità, lí è il centro animatore della sua vera opera, i Mémoires, colossale e volgare, ma pur viva epopea del senso e dell’affermazione vitale nell’avido, strenuo perseguimento di un bene che poi la memoria (nella luce patetica della senilità stremata ed esangue, ma ansiosa almeno di un recupero di ricordo che la «ringiovanisce» e la esalta) ricerca puntando anche sui piú minuti particolari di un amplesso con lo struggimento appunto di un bene supremo perduto.

Non è qui il luogo per indicare come poi nei Mémoires questo centro di interesse vivo dell’uomo si intrecci, non senza effetti di varia intensità narrativa, con tutto un gusto di individualistica avventura e con una affascinante capacità di resa dell’avventura (la fuga dai Piombi, o la narrazione picaresca del giovanile viaggio attraverso l’Italia con frate Stefano), con un interesse per luoghi e persone rivissute in relazione al loro contributo al piacere dell’autore, ed anche con quei riflessi, in un uomo frivolo, ma intelligente e vivo, di una cultura e di un gusto che rendono documentariamente interessanti i Mémoires e significative certe loro testimonianze entro la particolare dimensione della personalità edonistica dello scrittore: come il fanatismo per la libertà fantastica in chiave libertina dell’Ariosto, l’amore per Orazio «le poète de la raison» e piú del «carpe diem», nonché i riflessi dei moduli narrativi settecenteschi nel taglio del dialogo e della scena, fra romanzo illuministico, romanzo di tipo picaresco e accenni persino di «sensiblerie» fra rococò e preromanticismo.

Per non dire delle infinite offerte di notizie utili nello studio del costume degli avventurieri, dei giocatori, del mondo teatrale, e dei loro contatti con principi e alte personalità magari della corte romana. Ma, ripeto, tutto rivisto nello specchio dell’egotismo sensuale del Casanova, alla luce della sua vocazione fondamentale e della sua valutazione di utilità ai fini della propria fruizione instancabile delle offerte della sensualità: donde anche quella certa monotonia, a volte quasi oppressiva, di chi troppo si aggira nel chiuso circolo della sensualità.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 2, aprile-giugno 1957.

Ettore Bonora, «Teodoro in Corsica» e i melodrammi giocosi di Giambattista Casti; G.B. Casti, Teodoro in Corsica, a cura di Ettore Bonora e Renata Leydi, «Giornale storico della letteratura italiana», LXXIV, 1957, fasc. 406-7, pp. 169-248.

A questa prima edizione del Teodoro in Corsica, curata dal Bonora e dalla Leydi sul manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale di Parigi (il testo è dato nella seconda redazione – già considerata migliore dal Pistorelli che in anni lontani parlò di questa opera inedita nel suo scritto I melodrammi giocosi inediti di G.B. Casti, «Rivista musicale italiana», 1897 –, ma in una nota finale si danno le varianti della prima redazione a sottolineare il modo con cui il Casti rifacendo mirò ad adeguarsi ad un suo ideale di spigliata drammaticità e di leggerezza melodica), il Bonora premette una introduzione illustrativo-critica di notevole interesse per la caratterizzazione del nuovo melodramma e di tutta l’attività del Casti quale autore di melodrammi giocosi. Questa attività di indubbio valore (del resto ricorderò che già nella Scelta di melodrammi giocosi del secolo XVIII della collezione dei «Classici italiani», Milano, 1826, il Casti fa la parte del leone occupando i due quinti del volume e il suo ritratto apre la raccolta come quello del piú importante autore del «genere») viene ripercorsa dalla prima debole prova (Lo sposo burlato, del 1777), alla fase piú intensa e fortunata aperta da Il re Teodoro in Venezia, dell’84, e proseguita con La grotta di Trofonio, Prima la musica e poi le parole, il Cublai, il Teodoro in Corsica (dell’86-87), nonché con il Catilina, i Dormienti, l’inedito Orlando furioso (che è pure alla Nazionale di Parigi insieme alla Rosmunda, allo Sposo tradito, e a un melodramma senza titolo).

Certo attività occasionale, stimolata dalla sua carica di poeta dei teatri imperiali conferitagli da Giuseppe II, ma sostanzialmente congeniale alle qualità dello scrittore che in quel periodo tardo della sua vita trovò nella forma teatrale il mezzo piú adatto per esprimersi raffinando alcune doti che confusamente aveva manifestato già nella sua produzione di lirico e di narratore: e specie quell’estro comico che, impacciato nelle fredde e noiose Novelle, pur si era fatto luce in alcune rare pagine di quelle, ed ora nel dialogo spigliato, nel movimento dei personaggi, nella disposizione musicale del melodramma (disposizione che il Casti sviluppa di per sé già prima dell’intervento del musicista), si realizza in una simpatica festevolezza (il prefatore della scelta dei «classici» puntava già sulla «attraente festività» del Casti), in un tono di piacevole grottesco che «equilibra» motivi suoi e insistenti nella letteratura del tempo e trasforma in forme piú scanzonate e maliziose situazioni già provate meno felicemente (come il Bonora mostra con opportuni confronti) in altre sue opere non teatrali. Con uno spirito inventivo piú alacre e sicuro, di cui la prova piú convincente è giustamente per il Bonora il Re Teodoro in Venezia, nel quale tuttavia la comicità insita nel protagonista resta un po’ sacrificata nell’accentuazione di grazia melodrammatica di Belisa. Piú apertamente e coerentemente comico è invece l’effetto cercato nel Teodoro in Corsica, che traduce in costante parodia e in scherzo gustoso gli elementi già di per sé comici della stessa cronaca del singolare tentativo dell’avventuriero tedesco, accrescendone la piacevolezza con la parodia del melodramma serio il qual pure serví al Casti per fissare i caratteri dei personaggi e del loro movimento a incontro di coppie (con riflessi della coppia del cervantino Don Chisciotte) e con la piú generale parodia e satira di tutto un linguaggio convenzionale e di aspetti del costume dell’epoca.

Osservazioni sostanzialmente giuste e sviluppabili in puntuali riscontri di cui la lettura del gustoso melodramma è abbondante, anche se ci sarebbe forse da far qualche riserva quanto al giusto equilibrio dei toni nella diversità a volte aperta e non ben fusa fra mimesi parodistiche del patetismo melodrammatico metastasiano (v. la parlata di Elisa alla scena IX del I atto) che piú ritengono della squisita eleganza del modello e battute pesantemente comiche dello stesso personaggio. Mentre, al di là delle esigenze di questa breve ed efficace introduzione, sarebbe desiderabile un ulteriore inquadramento dell’esperienza giocosa del Casti nella sua ripresa di situazioni e moduli della precedente tradizione settecentesca fra melodramma giocoso vero e proprio e certi drammi eroicomici alla spagnola, specie del Gigli.

Renzo De Felice, L’evangelismo giacobino e l’abate Claudio della Valle, «Rivista storica italiana», LXIX, 1957, II, pp. 196-250.

È la prima parte di un saggio atteggiato come «contributo alla conoscenza dell’aspetto religioso del triennio rivoluzionario 1796-99». Partendo dall’esigenza codignoliana di ben distinguere nella storia del ’700 giansenismo, illuminismo cattolico e illuminismo tout court, e ancora, da quella e del De Stefano (Rivoluzione e religione nelle prime esperienze costituzionali italiane, Milano, 1954) e dei recenti studi del Cantimori, di distinguere fra giansenismo, illuminismo cattolico, e giacobinismo, evangelismo giacobino e utopismo religioso, il De Felice si propone di delineare il ristretto, ma preciso gruppo ideologico-politico dell’evangelismo giacobino finora molto discusso in interpretazioni fortemente contrastanti (irreligiosi per il Rodolico, moderati per il Rota, illuministi puri e semplici per il Codignola, iniziatori del movimento cattolico-liberale per l’Alatri). Ora il De Felice nega il pieno cattolicesimo di quel gruppo e cerca di precisare le varie posizioni dei cattolici per i quali il nuovo ordine portato dai francesi rappresentò un vero problema: democratici-cattolici che distinguono fra cattolicesimo come fede e riforme necessarie per adeguare la struttura della Chiesa al nuovo ordine politico (non dunque tolleranza religiosa), cattolici che subiscono il nuovo ordine ed evangelici-giacobini.

In questi l’elemento evangelico era primo e la rottura con la Chiesa inevitabile anche prima della loro adesione al fronte democratico filofrancese, sicché essi non eran piú tanto cattolici quanto cristiani o addirittura deisti, in una posizione a tre componenti: illuminismo, tradizione ereticale, idealità rivoluzionaria, con al centro una fondamentale esigenza democratica. Donde richiesta di elezione del papa, condanna del diritto ecclesiastico, soppressione dei beni ecclesiastici, lingua italiana nei riti, ecc. Questa posizione di cristianesimo rivoluzionario non privo di una sensibilità politica nuova, rimase però senza vera presa sulle masse.

Dalla descrizione generale del gruppo (Poggi, Ranza, Galdi, ecc.) l’autore passa poi ad illustrare la figura di Claudio della Valle, romano, nella sua interessante evoluzione fino al deismo e nelle sue vicende politiche a Roma e nella Cisalpina.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 61°, serie VII, n. 3-4, luglio-dicembre 1957.

Luigi Poma, Intorno ad «Alcune poesie di Ripano Eupilino», «Studi letterari per il 250° anniversario della nascita di C. Goldoni», «Studia ghisleriana», serie II, vol. II, 1957, pp. 209-256.

Dopo una breve storia delle posizioni critiche riguardanti la prima raccolta di versi pariniani e dopo averne ricavato la conclusione che alla critica attuale non si aprono in proposito «orizzonti rivoluzionari di scoperte e novità sensazionali», ma «il compito piú modesto di proseguire nell’avvio delle direttive instaurate dalle indagini precedenti a una dimostrazione piú puntuale e appoggiata su tutto il tessuto connettivo, concreto e drammatico di questa raccolta», il Poma premette al suo studio la considerazione preliminare dell’origine dei versi giovanili del Parini non da un’urgenza di confessione autobiografica ma «da una volontà piú pacata e riflessa di sperimentazione formale secondo la pratica e le concezioni di un’epoca in cui la letteratura era intesa anzitutto come prova di bello stile».

L’esame si articola poi secondo i gruppi di «genere» e di «tradizione letteraria»: anzitutto quello di componimenti piú «petrarchistici» e piú chiaramente rispondenti ad un metodo compositivo ibrido, contaminatorio, dispersivo anche se unificato da una preoccupazione prevalente di elettezza, chiarezza, pacatezza classica piú sicura e precisa che non negli arcadi veri e propri, e da un gusto realistico schietto, ma nettamente diverso da un pieno realismo ottocentesco e sostanzialmente ancora sviluppo di una volontà arcadica di «restaurazione classica intesa programmaticamente come avvio e guida costante ad una precisa definizione espressiva, ricca di forza icastica, di nitore e di compostezza». Poi i sonetti «magici» ricondotti (evitando le tentazioni di adeguazione a toni romantici) alla suggestione bucolica virgiliana e documento anch’essi di un classicismo pariniano (autenticamente fedele e insieme positivamente innovatore) e di una tecnica descrittiva assai progredita e piú sicura nell’impiego del colore e della forma. Conclusione cui conduce anche l’esame delle traduzioni e imitazioni dei classici, verificato sul paragone con alcuni precedenti esempi di traduzioni arcadiche di Anacreonte e Orazio (Salvini e Frugoni). Quanto ai sonetti di intonazione religiosa ed etica essi servirebbero proprio a provare ancor meglio (e proprio in contrasto con i rilievi di precoce forza morale ricavatine dalla Bobbio nel volume pariniano da noi recensito nel n. 3-4, 1955, pp. 627-629) come questo giovanile Parini si distingua sempre per maggior sicurezza stilistica dagli arcadi anche in questo filone di poesia oratoria, sacra, commemorativa, ma come questa sicurezza sia veramente letteraria e non etica, priva ancora di quei decisivi riferimenti civili e sociali che interverranno piú tardi a rafforzare l’ispirazione pariniana. Infine, dopo una esemplificazione assai ampia del classicismo pariniano in questo volume contraddistinto soprattutto dalla novità della costruzione sintattica non piú musicale come quella generalmente arcadica, l’esame passa alle rime giocose, riavvicinate, malgrado le apparenze, alle «serie» dall’intima esigenza di letterarietà e di adesione ad una precisa tradizione di stile bernesco e rusticale quattro-cinquecentesco, ma contraddistinte da una forte presenza di vocazione comica, mimica, caricaturale che è sicuro avvio al Giorno.

Studio indubbiamente diligente e assennato, né privo di osservazioni puntuali e di rilievi antologici accettabili, e certamente bene orientato nella ricerca di una fase pariniana prevalentemente sperimentale, mossa da precedenti arcadici e tuttavia già piú matura in senso classicistico e realistico. Che è constatazione piuttosto ovvia, ma non inutilmente suffragata da riprove replicate nella direzione dei vari gruppi di poesie.

Direi però che, a parte certa sottigliezza analitica che spesso rimane sul piano dei particolari senza risalire a stringenti e graduati rilievi sintetici, lo studio del Poma rimanga in parte piú promettente che realizzato, soprattutto per quel che riguarda quella interessante volontà di «dimensionamento storico» della raccolta pariniana «entro un quadro della letteratura settecentesca unitaria ma nel contempo sottilmente graduata nei suoi vari momenti e piani di elaborazione e complessità formale, e sezionata orizzontalmente nelle sue diverse diramazioni e nei suoi orientamenti, nei suoi vari centri e indirizzi di cultura», e per quel che riguarda le inerenti intenzioni di far sentire nell’esame delle rime la «sottesa problematica storica» e l’importanza della particolare tradizione letteraria lombarda.

In realtà ben poco si dice a proposito di tale tradizione (fosse pure per provarne nelle rime la relativa importanza) e malgrado alcuni accenni (specie per le traduzioni e imitazioni dei classici) poco si precisa in concreto quel rapporto-distinzione con la vera e propria Arcadia, nella sua articolata complessità di tendenze e di offerte. Sicché, ad esempio, anche per la novità delle inversioni sintattiche che indubbiamente il Parini assume con originalità e con possibilità di originale sviluppo, ci sarebbe da dire che già in certi filoni di classicismo arcadico piú deciso esempi di tal genere non mancano specie proprio nella traduzione e rifacimento dei classici o di scrittori classicistici come il Pope (certe prove del Conti traduttore di Pope e di Callimaco). E per le poesie giocose meglio si sarebbe dovuto misurare la novità del Parini (o il suo arretramento al Cinquecento secondo la formula carducciana) calcolando la presenza di forme bernesche e specie rusticali (Fagiuoli, Baldovini) nella fase prearcadica e arcadica specie toscana.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1958.

Cesare Beccaria, Opere, a cura di Sergio Romagnoli, Firenze, Sansoni, 1958, 2 voll., pp. CIX-649, 962.

Questa nuova edizione beccariana offre una vasta raccolta delle opere dell’illuminista lombardo finora parzialmente raccolte in edizioni per lo piú ottocentesche e non sempre di facile accesso. Particolarmente apprezzabile l’offerta dell’epistolario, che è la silloge piú completa delle lettere del Beccaria finora sparse in varie raccolte (e con il recupero di una lettera inedita, la piú tarda che ci rimanga), e quella del corpus delle consulte amministrative e giuridiche che permettono di aver presenti, in maniera compatta e cronologicamente disposta, questi notevoli documenti dell’attività e del pensiero «applicato» ad occasioni di pratica riforma del Beccaria (dal ’71 al ’94) collaboratore del governo austriaco in Lombardia. E se l’edizione non si dichiara critica, essa comunque ha il grande vantaggio della completezza, dell’ordinamento chiaro e di una documentazione bibliografica delle varie edizioni ben utile anche ai fini di una possibile ulteriore opera di sistemazione di qualche testo come quello di Dei delitti e delle pene. Esauriente anche la nota bibliografica degli scritti sul Beccaria e ricche di informazioni e precisazioni cronologiche le introduzioni alle singole opere o alle sezioni che raccolgono l’epistolario, le consulte, i frammenti. Introduzioni che integrano, con analisi piú particolari, l’ampia introduzione di apertura.

Di questa è notevole la volontà di ricostruire, entro una dimensione storico-culturale precisa, l’arco della attività e della vita del Beccaria in una sua linea armonica di sviluppo e di continuità su cui a lungo il Romagnoli indugia, polemizzando contro vecchi schemi di periodizzazione (in particolare quello dell’Amati) che finivano per far cadere una cesura troppo decisa fra i due primi periodi (periodo di formazione fino al ’61, periodo del pubblicista dal ’62 al ’70) e l’ultimo, fino alla morte, nel ’94, che non offrirebbe nulla «che sia degno di memoria». A tale ultima divisione e alla svalutazione dell’ultimo periodo il Romagnoli oppone, con lungo discorso, la sua tesi di una sostanziale continuità della battaglia condotta in gioventú, nella attività dell’estensore delle consulte in cui il Beccaria avrebbe trovato la possibilità di uscire dal teorico e dall’astratto per affermarsi nella realtà della vita sociale (in accordo del resto con una simile evoluzione dal teorico al pratico degli altri illuministi del «Caffè» del quale il R. mette in particolare rilievo il carattere prevalentemente etico-politico in senso illuministico, piú urgente e importante di quello letterario linguistico: ma i due aspetti non son poi radicalmente collegati nell’impegno unitario di quei letterati e pensatori «militanti»?) e avrebbe sviluppato e concretato, senza rinunce e involuzioni, appunto l’ispirazione piú viva del suo giovanile pensiero umanitario e civile. Svalutazione del periodo posteriore all’attività pubblicistica a cui contribuirono sia la disparità fra i programmi e le attuazioni di opere di largo respiro da parte del Beccaria, sia l’ostinato livore dei Verri che nel loro carteggio accuratamente formularono la celebre accusa di pigrizia e debolezza dell’uomo, riducendo la forza del Beccaria ad «eloquenza» e la possibilità dei suoi successi allo stimolo e ai suggerimenti di Pietro, disgustati come furono soprattutto dal celebre episodio del viaggio parigino e dell’anticipato ritorno in patria per debolezza di carattere e attaccamento geloso alla giovane moglie. La discussione della reale portata di quell’episodio (che del resto ha la sua documentazione piú viva nelle lettere) e la rivalutazione del carattere dell’uomo e della sua personale ispirazione (sostenuta e riscaldata dall’amicizia di Pietro, ma capace di autonomo svolgimento) e dell’importanza e continuità della successiva attività beccariana, dopo la fine dell’amicizia coi Verri, son presentate dal Romagnoli soprattutto come base unitaria alla sua illustrazione delle opere dell’illuminista dopo aver dissolto l’equivoco di un progressivo decadimento del suo ingegno, e dato valore di «opere», di superiorità all’accidente che le aveva provocate, «alle consulte di solito considerate semplici lavori d’ufficio». È questa, come dicevo, la parte piú impegnativa della introduzione del Romagnoli (ché la presentazione delle opere piú celebri è tutto sommato equilibrata, ma piú ovvia e meno si dà tutto il rilievo che meriterebbero agli atteggiamenti di gusto e di mentalità del Beccaria nei frammenti, nell’epistolario o negli scritti letterari) e certo essa costituisce una proposta interessante, un correttivo a vecchi giudizi, un’apertura alla considerazione del valore dell’opera concreta del burocrate illuministico (e di scorcio un invito a una nuova considerazione della concretezza e coerenza illuministica della élite illuministica lombarda nella matura applicazione delle sue idee e nella collaborazione con il governo teresiano e giuseppino). Ma mi pare che, in tale giusta direzione, l’introduzione del Romagnoli abbia finito per eccedere (con una certa aria di plaidoyer che colora un po’ retoricamente certe parti del suo per altro lucido e ben disteso discorso), suscitando l’obbiezione che malgrado tutto nell’evoluzione del Beccaria vi fu pure una reale diminuzione di tensione e che, se le consulte costituiscono documenti notevoli anche per la vita intellettuale e per la continuità di ideali del Beccaria, innegabile è la distanza che corre fra di esse e la larghezza di respiro, l’incontro essenziale di entusiasmo e ragione, la vastità di problemi del pensatore, del cittadino e del Weltbürger delle opere del secondo periodo e soprattutto del Dei delitti e delle pene con cui il Beccaria si inseriva autorevolmente nella grande battaglia illuministica europea. Su quella linea l’ambizione del Beccaria era ben altra e lo dimostrano quei frammenti preparatorii di una grande opera non attuata, in cui le esigenze dello studioso di diritto e di economia (uno studio distintivo fra quelli, di appunti di lettura di testi francesi e di personali meditazioni, sarebbe davvero importante) si appoggiavano alle ambizioni del pensatore e del moralista spesso cosí penetrante e suggestivo (si citi almeno il bellissimo frammento sulla gioventú dove il sensismo mostra tutta la sua ricchezza di stimolo ad una meditazione psicologica sull’uomo e le sue implicazioni preromantiche) quale era già apparso nelle opere centrali e quale non poteva dispiegarsi compiutamente nei margini stretti delle consulte. Ben diversa fu la evoluzione tarda di Pietro Verri, di fronte al quale la forza di sviluppo e la stagione creativa del Beccaria non possono non apparire piú limitate. E del resto, nella particolare condizione delle consulte, un esame di linguaggio (e sullo scrittore avremmo desiderato una maggiore attenzione) pur mostra la ben diversa ricchezza di fermenti e di potenzialità delle opere precedenti, pur nel giusto riconoscimento dell’alternarsi in quelle di impeti eloquenti e di forme piú inviluppate e contorte.

Per quel che riguarda la presentazione delle varie opere, che costituisce la seconda parte dell’ampio discorso del Romagnoli, particolarmente notevole mi pare la parte riguardante gli articoli apparsi sul «Caffè», in cui giustamente si rileva la singolare vivacità e la presenza di un sottile psicologo e di un moralista risentito, mentre piú incerte appaiono le pagine sulle Ricerche sullo stile da considerare piú decisamente entro la poetica del sensismo e per le offerte ad uno studio sulla fecondità del sensismo nello sviluppo preromantico, una volta rotto l’involucro piú retorico e razionalistico che pure a quella particolare fase culturale è essenziale (fra Parini ed altro). Giusta comunque la conclusione, col Mondolfo, che in quello scritto il Beccaria piú che ad una precettistica si adoperava ad una analisi psicologica (e si potrebbe aggiungere che l’apparente precettistica in parte si svolge, e piú si sarebbe potuta svolgere nel secondo libro interrotto, come preparazione piú al sentimento e all’eccitazione della poesia che non alla sua giustificazione teoretica). Notevole infine, fra le introduzioni, quella alla Prolusione del ’69 di cui, in contrasto con un giudizio del Verri, si sottolinea giustamente la singolare forza di concreta eloquenza: uno dei documenti piú belli, direi, dell’eloquenza illuministica nella sua esaltazione della civiltà umana nel suo cammino verso una società concorde e fraterna, utilitaria per il bene comune, antiascetica e antifanatica: insomma pervasa ancora del calore che aveva animato i punti piú alti delle pagine sulla tortura e sulla pena di morte nel Dei delitti e delle pene.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 62°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1958.

Giambattista Vico, Tutte le opere, a cura di Francesco Flora, I, pp. LXIV-1221, Milano, Mondadori, 1957.

Questo primo volume della nuova edizione di tutto Vico nella collezione dei «Classici Mondadori», curata dal Flora, comprende la Scienza Nuova secondo l’ed. 1744, la Scienza Nuova Prima, le varianti dell’ed. 1725 e delle correzioni e aggiunte precedenti l’edizione definitiva, le postille alla Scienza Nuova Seconda, le Dediche e i Pareri per la stampa delle edizioni 1744 e 1730, i due ragionamenti «dintorno alla legge delle 12 tavole venuta fuori in Roma» e «intorno alla legge regia di Triboniano». Il testo, tenendo conto della fondamentale base costituita dall’edizione Nicolini (al cui Commento storico alla Seconda Scienza Nuova il Flora dichiara di avere necessariamente attinto con larghezza per quanto riguarda le note), risale all’edizione originale (e all’autografo) della Scienza Nuova Seconda e a quella della prima, tendendo il piú possibile a rimaner fedele «alla pronunzia piú filologicamente vichiana», serbando fra l’altro il colore di certe forme letterarie care al Vico.

L’introduzione riprende le pagine dedicate dal Flora alla posizione del Vico nel Settecento e ai modi dello stile vichiano nella sua Storia della letteratura italiana, ma le arricchisce con una lunga «descrittiva» della filosofia e dello stile ad un tempo, con esposizione e citazioni della Scienza nuova già qualificata nella Storia della letteratura come «narrazione mitologica e poetica», opera di un filosofo-poeta o poeta-filosofo. In relazione alla polemica sul preciso significato della filosofia laica o cattolica del Vico, il Flora rileva che la premessa di storia sacra e la professione di fede cattolica del Vico non tolgono che il suo pensiero effettivo prescinda da tali premesse e fondi un sistema tutto umano e terreno in cui la provvidenza coincide con la storia fatta dall’uomo e perciò da lui conosciuta (storia, fra l’altro, in cui manca la considerazione e del peccato originale e della Redenzione).

Giambattista Vico, Opere, a cura di Paolo Rossi, Milano, Rizzoli, 1959, pp. 918.

Questa nuova edizione vichiana, curata da Paolo Rossi, raccoglie gli Affetti di un disperato, l’Autobiografia, La scienza nuova, secondo l’edizione del 1744, un’antologia delle lettere, passi dal De nostri temporis studiorum ratione e dal De antiquissima italorum sapientia (per le quali ultime opere è dato il testo latino e una nitida traduzione del curatore), e, in appendice, la Riprensione delle metafisiche di Renato Delle Carte, di Benedetto Spinosa e di Giovanni Locke, la Pratica di questa Scienza nuova, il Ragionamento secondo d’intorno alla legge regia di Triboniano. II testo, che riproduce sostanzialmente l’edizione del Nicolini (Milano-Napoli, 1953) e quella laterziana, pure del Nicolini, per i due scritti latini (e accoglie qualche variante dall’edizione del Flora, e da quella del Fubini per l’Autobiografia, Torino, 1947), è corredato di note essenziali ed è introdotto, oltreché da due accurate note, biografica e bibliografica, da un sostanzioso saggio che va anzitutto positivamente indicato per la lucida esposizione della situazione della critica vichiana, attualmente presa fra l’interpretazione idealistico-crociana del Vico «antenato dell’idealismo» e «antidoto all’intellettualismo», storicista e fondatore dell’estetica (interpretazione che, con tutti i suoi limiti, ha avuto il merito grandissimo di immettere Vico nel circolo della cultura contemporanea e su cui si basano le piú sicure e valide ricerche del maggiore studioso del Vico, il Nicolini, e quelle del Fubini sullo stile vichiano), e nuove esigenze di storicizzazione del pensiero vichiano tolto dalla posizione di «precursore solitario» nella quale lo ha confinato la storiografia idealistica, ma finora scarsamente realizzate, alla luce delle filosofie esistenzialistiche e marxistiche (che pure hanno ben posto in rilievo aspetti fondamentali del pensiero vichiano sui quali gli idealisti avevano preferito sorvolare e certo assai piú produttive dei tentativi cattolici che, mossi dalla volontà di ricondurre il Vico nell’ambito della piú ortodossa tradizione tomistica, han rinunciato a priori ad ogni ricerca tendente a collocare il Vico nell’età che fu sua). A questa esposizione (poi ripresa e precisata nella nota bibliografica) seguono notevoli pagine di presentazione della situazione culturale italiana e napoletana di fine Seicento e primo Settecento, nella vitalità di scambi con quella europea e di richiami alla tradizione, e di quella particolare napoletana animata da istanze antiautoritarie e antisistematiche. Di fronte a questo rinnovamento della cultura napoletana (fra cartesianismo e atteggiamenti naturalistici e scientifici) il Vico assunse, fin dal 1710, un atteggiamento di critica e di rifiuto, che è spesso anche espressione di un conservatorismo culturale, specie in campo scientifico («in nome della sua religiosità cattolica, il Vico condannava dunque ogni atteggiamento empiamente aggressivo e in nome del suo anticartesianismo aveva del pari rifiutato, come altrettanto empio, ogni forma di platonismo matematico»), ma anche nel campo dell’erudizione antiquaria. Ma sul terreno della storia e delle umane cose civili, in un dialogo di respiro europeo con Bacone, con Grozio, con Cartesio, Vico si propose problemi essenziali e prospettò soluzioni alle quali, sottolineando aspetti diversi del suo pensiero, si richiamarono piú tardi il positivismo e lo storicismo. Ché giustamente il Rossi, se si oppone alle esaltazioni eccessive dei sostenitori di un Vico senza limiti e senza confronti, si oppone anche alla tesi secondo cui la Scienza nuova sarebbe «opera di alta poesia» (anche per Machiavelli si è tentato, e qui per precise intenzioni partigiane, di risolvere il suo pensiero politico in poesia), priva però di valori filosofici, e rileva la decisa importanza delle varie «discoverte» vichiane in campo storico ed estetico (sintesi filologia-filosofia, teoria omerica, ricostruzione del diritto feudale come avvio ad una nuova valutazione del Medioevo, ecc.) e, piú, della fondazione vichiana della storia come scienza pari e superiore alla scienza della natura.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1959.

Aurelio Lepre, Nota sull’Algarotti, «Società», XV, 1959, I, pp. 80-99.

Dopo le pagine del Fubini e gli articoli dello Scaglione, a suo tempo da me segnalati e discussi, questo articolo del Lepre viene a testimoniare di una rinnovata attenzione critica alla personalità e all’opera dell’Algarotti, che pongono notevoli problemi sul loro significato e sulla loro precisa collocazione storica. Il Lepre parte appunto da un problema preliminare circa il rapporto fra l’attività di «poligrafo» dell’Algarotti e la società del tempo: «Fu questa attività dovuta soltanto all’operosa e intelligente curiosità di uno spirito alacre e sensibile, o risponde, in misura piú o meno accentuata, ad una precisa esigenza, e venne perciò a svolgere, nei suoi ben determinati limiti, una necessaria funzione?». Il Lepre è per la seconda ipotesi e vede nel tentativo costante dello scrittore di prendere posizione precisa nel dibattito culturale e di porre nello stesso tempo alcune questioni nuove – quella del pubblico ad esempio – la caratterizzazione storica dell’Algarotti profondamente diviso fra vecchio e nuovo, fra spinte contraddittorie che cerca strenuamente di conciliare. Alla luce di questo motivo conduttore il Lepre esamina il cosmopolitismo dell’Algarotti che sarebbe al punto di incontro fra un cosmopolitismo tradizionale e il cosmopolitismo illuministico a cui lo scrittore veneziano si avvicinerebbe senza però riuscire a coglierne e viverne lo spirito rivoluzionario (donde il rifiuto dell’immagine fubiniana di un Algarotti come «esempio primo di quello che sarà il tipo di uomo e di scrittore dell’illuminismo» perché privo dell’appoggio di una vera classe borghese: ciò che lo portava insieme «a confinare su un piano utopistico ed esclusivamente letterario il suo vagheggiamento dell’unità nazionale»).

L’avvicinamento dell’Algarotti all’illuminismo sarebbe dunque tutto intellettualistico e la stessa novità (rispetto al suo maestro Manfredi) di una concezione globale dei problemi culturali del tempo (scienziato e poeta unificati nell’intellettuale) non poté essere sviluppata concretamente da lui avendola «ricevuta di riflesso dagli illuministi e non assorbita dalla società nazionale». Tuttavia tale nuova concezione è singolarmente importante e il Lepre ritiene utile studiarne la lenta formazione attraverso la storia del Newtonianismo e dei Dialoghi sopra l’ottica newtoniana che di quello sono l’ultimo stadio di trasformazione: maturazione intellettuale e culturale e insieme linguistica e stilistica (da pedanteria, «gonfia ancora di secentismo», e da francesismi che pur funzionarono come utile strumento di rottura, a «maggior spigliatezza»).

Anche la storia dei rapporti dell’Algarotti con Federico Il (fra speranze e progressivo allontanamento) appare utile al Lepre per precisare alcuni problemi nuovi di cui l’Algarotti si rende conto (la funzione degli intellettuali, quella dei principi, quella delle accademie, di fronte a cui l’Algarotti rivendicherebbe una superiore libertà degli intellettuali, cosí come tra francofilia e italianità egli combatterebbe per una «pacifica patria»: le Muse, vale a dire la cultura). In conclusione malgrado i «punti a favore (il suo sincero entusiasmo per la scienza, l’allargamento dell’orizzonte culturale, la chiarezza di giudizio che egli porta nel considerare le questioni culturali)» rimarrebbe pur sempre una faccia fortemente negativa nel ritratto dell’Algarotti: la posizione intellettualistica da cui questi esamina ogni problema, da cui deriverebbe la cautela che lo ferma di fronte alla religione dominante e che, come già detto, sarebbe causato dalla mancanza di un pubblico adeguato, non fatto solo di dotti, ma da una classe in sviluppo, a cui pure egli sembrava aspirare almeno nelle forme, di nuovo intellettualistiche, di un pubblico «medio», e cioè di media preparazione culturale.

L’articolo non manca di osservazioni e di esigenze giuste e interessanti, ma, mentre molti punti sono estremamente ovvii (tutta la parte riguardante il percorso dal Newtonianismo ai Dialoghi con la conclusione assai povera di una maggiore «spigliatezza»), altri richiederebbero maggiori chiarimenti di motivi generali: cosmopolitismo, problema dei rapporti con Federico II e i principi in genere, e soprattutto il problema della ricerca e della mancanza di un pubblico «medio» e borghese in cui il Lepre applica motivi e schemi gramsciani in maniera piuttosto scolastica e incerta, in una specie di discutibile storia dei «se» in cui l’immagine dell’Algarotti riesce piuttosto sfocata e troppo in funzione di uno schema del passaggio fra zona arcadica e zona illuministica delineato in maniera non abbastanza approfondita.

Giuseppe Petronio, Parini. Storia della critica, Palumbo, Palermo, 1957, pp. 136.

La nuova storia della critica pariniana del Petronio, corredata di un’antologia della critica (in cui il taglio dei pezzi critici è, in verità, spesso troppo avaro perché il lettore possa avere un’idea diretta e sicura delle ragioni dei critici presentati), presenta una linea assai lucida e sintetica che si caratterizza per una forte accentuazione delle motivazioni soprattutto culturali e ideologiche dei vari giudizi critici e che tanto piú apertamente si impegna (distinguendosi piú chiaramente dal noto volume del Caretti: ché per il resto la scelta antologica e il diagramma di sviluppo non son molto diversi, a parte un utile inizio basato su dichiarazioni della poetica pariniana) nella parte riguardante la critica novecentesca. È qui che il Petronio dà alla sua storia un carattere di vivace discussione e di partecipazione attiva all’attuale problema critico pariniano con l’esigenza di una interpretazione storicistica che tenga massimo conto degli elementi di fondo della poesia pariniana, della posizione culturale e ideologica del poeta. Alla luce di questa esigenza il Petronio (diversamente dal Caretti che tende piú ad un rilievo problematico delle ultime posizioni con un appello al futuro che potrebbe apparire un po’ generico) trova un progresso dalle interpretazioni di primo Novecento e da quelle piú recenti che finirebbero per risolvere il Parini in una squisita letteratura e troppo l’immergerebbero nella continuità della letteratura arcadica (sull’avvio del Croce, la precisazione essenziale del Fubini, e la ripresa da questo del Caretti) a quelle che lo Spongano e il sottoscritto avrebbero piú storicamente promosso con l’attenzione alla poetica pariniana e ai suoi rapporti con la poetica sensistica, illuministica e neoclassica. E tuttavia tale storicizzazione non sarebbe piena come invece lo sarebbe quella dei critici marxisti, cioè il Sapegno (ma si può davvero chiamar marxista il Sapegno delle pagine sul Parini?) e lo stesso Petronio, autore di un discorso critico introduttivo ad un’edizione delle Opere del Parini (da me segnalato nel n. 3 del 1958) qui in parte raccolto nell’antologia. Discorso che si distingue soprattutto per la parte finale del percorso pariniano in cui (e forse ancor meglio si evidenzia la direzione dell’interpretazione nella presentazione che qui il Petronio ne fa che non nel saggio stesso) lo svolgimento in senso neoclassico da me indicato viene accettato, ma inteso come «involuzione». Non è certo il caso di discutere tale problema direttamente: e del resto mi par di avere ancor meglio precisato la mia posizione nell’ultimo mio saggio pariniano raccolto nel volume diretto da Fubini, La cultura illuministica in Italia, che Petronio ricorda e approva in nota e che forse avrebbe, se potuto considerare in tempo, corretto in parte la posizione di storicizzazione solo culturale e di gusto che il Petronio mi attribuisce sulla base dei miei precedenti saggi. Qui voglio solo osservare che proprio nello stimolo ad una discussione che va al di là della storia della critica si rivela l’interesse maggiore dell’interessante volumetto di Petronio: ma anche il suo rischio che è pur quello notato e piú vistoso nel volumetto goldoniano (ma qui, nel caso del Parini, anche piú debole è poi la possibilità di parlare davvero di un rinnovamento della critica marxista come il Petronio la intende). Cosí come si può notare a volte una certa eccessiva rapidità e schematizzazione che non rendono pienamente accettabili anche giudizi sostanzialmente giusti, come quello, per me, della letterarizzazione eccessiva della interpretazione crociana-fubiniana.

Illuministi italiani, III, Riformatori lombardi piemontesi e toscani, a cura di Franco Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1958, pp. XXIII-1149.

Questo volume, che si può considerare come una delle offerte migliori e pienamente positive della collezione Ricciardi, costituisce un poderoso contributo alla ricostruzione dell’illuminismo italiano, alla storia del movimento ideologico settecentesco piú strettamente legato a concrete funzioni di rinnovamento (il caso della Lombardia austriaca e della Toscana lorenese) o comunque a tentativi di gruppi e di individui entro situazioni meno propizie (il caso del Piemonte e dello Stato veneto). La breve ed energica introduzione delinea un quadro chiaro e complesso della «riforma» in Italia, còlta soprattutto nella settima decade del secolo, quando lo spirito illuministico si traduce in volontà di riforma concreta, in progetti, in piani, in leggi proposte e spesso attuate e si configura in modi diversi a seconda che essa si incarni in individui o gruppi lombardi, veneti, piemontesi o lombardi. In quel periodo i «riformatori» (numericamente pochi, ma sostenuti da un concorde entusiasmo e dalla forza e dal consenso del movimento europeo) tentarono di attuare la riforma sulla base della preparazione rappresentata dall’attività nel venticinquennio precedente delle forze del giurisdizionalismo, del regalismo, del giansenismo, del preilluminismo, «portando l’Italia a divenire una provincia dell’impero dei lumi». Certo non si trattò di una battaglia solidamente vittoriosa ché il contatto stabilitosi con l’Europa dei lumi allargava la visuale intellettuale e morale, ma talvolta rendeva piú arduo il compito pratico ed immediato. Cosí in Lombardia la convergenza delle iniziative che giungevano da Vienna e delle proposte e polemiche del gruppo dell’«Accademia dei pugni» confluisce in una esperienza particolarmente riuscita di dispotismo illuminato, ma insieme conduce a un certo frazionamento del gruppo iniziale fra la scuola del Beccaria (con una linea che porta a Cattaneo e a Manzoni) e uomini come il Carli o il De Giuliani in cui l’ideale della perfetta amministrazione tende a diventare utopia e l’egualitarismo utilitarista si scontra con la realtà delle classi sociali: e la realtà finisce per inaridire lo slancio ideale. Mentre in Piemonte le forze retrive limitano le possibilità dei riformatori o le deviano in forme piú astratte di ribellione, e a Venezia alla diffusione della cultura illuministica non fa riscontro un rinnovamento delle classi dirigenti, e a Roma i piú timidi avvii di riforma, sotto Benedetto XIV e Clemente XIV, si dissolvono, sotto Pio VI, in un inizio di reazione che farà sentire i suoi riflessi anche in altre parti d’Italia. Perciò la sfiducia, e talvolta la ribellione e l’esilio vengono sostituendosi all’entusiasmo e anche là dove (come soprattutto a Milano sotto Giuseppe II) il dispotismo illuminato continua ad operare ed anzi si afferma compiutamente, le esitazioni, le riluttanze della classe colta si fanno piú evidenti e piú profonde e si vien precisando quella via del costituzionalismo che tien conto di una nuova realtà e sembra trovare piú chiara coscienza in Toscana, nel Gianni. E questi, insieme al Fabbroni, saprà (anche meglio di Verri, Gorani, Longo e diversamente da Carli e De Giuliani spinti alla reazione) proseguire il compito d’illuminazione e di riforma nel clima nuovo determinato dalla rivoluzione francese.

Quadro denso e raccorciato, ricco di problemi e di caratterizzazioni della linea e delle fasi del movimento illuministico-riformatore e delle diverse situazioni e versioni regionali e personali che trovano poi piú precisa articolazione nelle bellissime note introduttive ai quindici scrittori rappresentati, con opere e brani estremamente significativi, in questa antologia: Beccaria, Longo, Frisi, Biffi, Carli, Gorani, Pilati, De Giuliani, Denina, G.B. Vasco, F. Dalmazzo Vasco, Bandini, Neri, Gianni, Fabbroni. Un’imponente raccolta di testi, di interpretazioni, di materiale bibliografico che ben appare come una base essenziale per quell’ulteriore lavoro di «conoscenza» e di interpretazione che il Venturi avverte come ancor necessario, sia nella direzione del «movimento» in genere (e dei suoi rapporti con quello europeo), sia nella direzione degli «uomini», suggerendo giustamente la necessità di «una sistematica ricerca nei carteggi del nostro Settecento», «una esplorazione metodica nelle carte che ci permettano di conoscere davvero, l’un dopo l’altro, gli uomini piú rappresentativi dell’età delle riforme».

Non occorrerà qui ricordare quanto abbia già fatto lo stesso Venturi in questo volume e in tanti altri suoi studi particolari (sul Biffi, sui fratelli Vasco, ecc.) che sono stati volta a volta segnalati in questa rassegna, attenta (e non certo per ragioni esterne) agli studi storici, essenziali alla ricostruzione anche letteraria del nostro Settecento. Ché, oltre tutto, sarà ben chiaro come la conoscenza dei riformatori illuministi, che il Venturi orienta naturalmente nel loro primo interesse storico-politico, sia fondamentale premessa per lo studio della prosa illuministica italiana e per la prospettiva generale entro cui saran sempre piú da rivedere anche le correnti e gli uomini piú direttamente volti ad esiti artistici, ed entro cui si alimentano di vita storica, consonando o reagendo, le poetiche dell’epoca illuministica, preromantica, neoclassica.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1959.

Sergio Bertelli, Appunti e osservazioni in margine ad una nuova edizione dell’autobiografia giannoniana, «Giornale Storico della Letteratura Italiana», LXXVI, 1959, 414, pp. 169-235.

Frutto di una nuova raccolta di dati e materiali, in parte inediti (fatta per una nuova edizione dell’autobiografia giannoniana che uscirà presso l’editore Feltrinelli in una collana di classici diretta dal Muscetta), questo articolo offre una importante messe di precisazioni sia sulle fonti utilizzate (e cosí si stabilisce che il carteggio giannoniano posseduto dalla Nazionale di Roma è l’originale curato da Giovanni Giannone), sia sull’esattezza del racconto autobiografico dello scrittore napoletano, storia e denuncia insieme della persecuzione subita. Storia che qui viene ricostruita nelle sue varie fasi: dalla polemica scatenata dalla stampa della Istoria civile alla fuga e al soggiorno viennese nuovamente illuminato nei rapporti del Giannone con lo Zeno ed altri scrittori della corte imperiale, nella complessa attività dello storico fra la nascita del Triregno e quella della Apologia dell’Istoria civile preparata attraverso minori dissertazioni e accompagnata dalla revisione dell’Istoria civile. Si illustrano poi la prosecuzione della sua polemica giurisdizionalistica (il Trattato de’ veri e legittimi titoli delle regali preminenze, che i re di Sicilia hanno sempre conservato in quel regno, ed esercitato per mezzo del tribunale della monarchia e la Breve relazione de’ consigli e dicasteri della città di Vienna) e la nuova partecipazione, con la Professione di fede, alla ripresa della polemica contro di lui che si allargava ormai su piano europeo, e che, dopo la sua partenza da Vienna, provocava l’espulsione del Giannone da Venezia e il suo ritiro a Ginevra. E su questo ultimo periodo di libertà dello storico l’indagine del Bertelli porta a meglio motivare l’atto che fece cadere il Giannone nella trappola tesagli dal marchese d’Ormea, in relazione alla sua sincera fedeltà alla confessione romana e in una netta distinzione fra il suo regalismo, la sua proposta di una riforma della chiesa e il rifiuto di una posizione eretica e di discussione del dogma. Fedeltà ortodossa e intima religiosità del suo pensiero che potrebbero meglio spiegare anche gli episodi della richiesta di assolutoria del 1723 e l’abiura del 1738.

Luigi Russo, La fama del Parini; Le «Odi» e la poesia del Parini; Il «Giorno» e la poetica del Parini, «Belfagor», 1959, 2, pp. 129-145; 4, pp. 381-405; 3, pp. 501-525.

I tre saggi presenti costituiscono effettivamente un compiuto discorso critico sul Parini che immaginiamo già come parte della storia della letteratura italiana al cui completamento il Russo attende dopo la pubblicazione del primo volume (Firenze, Sansoni, 1956) recensito su questa rivista da E. Bigi (1958, I, pp. 71-75). Animato da una forte simpatia per il Parini e da un’affermazione risoluta della sua «poesia» di contro alle limitazioni del Croce e del Citanna (e il saggio è interessante anche per una complessa discussione con certi aspetti del metodo crociano e specie con il canone di poesia-non poesia e con la distinzione poesia-letteratura e le inerenti esclusioni dal regno della poesia di vari scrittori che la coscienza critica moderna non ritiene di poter accettare), il discorso critico del Russo precisa anzitutto una storia del problema critico pariniano puntando fortemente sul rinnovamento operatone dal Petrini nel senso di una piú complessa vitalità poetica e storica dello scrittore lombardo caratterizzata anzitutto dalla sua esperienza e coscienza illuministica e dall’effettivo superamento della sua educazione arcadica a cui il Croce interamente lo collegava reagendo alla novità personale e storica che il De Sanctis gli aveva attribuito. Accertata tale diversa collocazione storica del Parini (arricchita e precisata al di dà della formulazione petriniana da vari studiosi, in realtà meno concordi ed univoci di quanto potrebbe apparire dalla loro citazione comune), il Russo propone l’immagine del Parini come «ultimo poeta dell’umanesimo» e svolge tale tesi nel capitolo sulle Odi in cui piú forte appare l’attenzione del critico al linguaggio pariniano educato alla scuola oraziana e ricco di una sua attualità storica, specie nell’originale funzione dell’aggettivo «che fa un corpo solo col sostantivo; che esalta subito un’immagine e un’idea, certamente rigirata all’antica, ma risucchiante in sé tutta una fresca linfa poetica che accenna a tempi nuovi».

Attenzione soprattutto portata concretamente nella distesa lettura del Messaggio, del Pericolo, di Alla Musa e – piú rapidamente e in funzione di una precisazione dei modi personali con cui illuminismo e Arcadia son rivissuti dal Parini – nel rilievo e nel giudizio di altre odi scritte prima e dopo il Mattino.

Il capitolo sul Giorno, dopo alcune considerazioni sul valore della satira settecentesca («la satira non va considerata come un genere letterario, ma piuttosto come un’attitudine connaturata, una vocazione storica, un’inclinazione dell’anima universale, il preannunzio e il commento, l’antifona che precedeva e accompagnava la grande Rivoluzione») e sul valore dell’uso settecentesco e pariniano del verso sciolto, discute il problema del protagonista del poemetto («non è il giovin signore, ma il sentimento poetico e il gusto morale di Giuseppe Parini, che ritrae alcune scene, felicissimamente, di quella che fu la vita della società a lui contemporanea») e quello dell’ironia pariniana («commento assiduo d’uno spirito pensoso e vigile alla vita d’una società a cui egli partecipa vivamente, e di cui egli stesso non disdegna le grazie e l’eleganza»). E ne mostra i particolari modi espressivi indugiando sulla felicità della ritrattistica del Giorno e (forse la parte che piú energicamente porta nuove indicazioni di una lettura critica attenta e diretta) sottolineando una capacità epica che a volte supera l’avvio caricaturale nell’abbandono fantastico del poeta al mito e al mito epico. Anche qui la volontà del critico tende a sollevare la poesia pariniana al di là di una sua dubbia immagine di elegante letteratura e a rilevare motivi poetici schietti e nuovi (e tali da sollecitare nuova poesia in altri poeti come il Foscolo): oltre il motivo epico, quello paesistico.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 63°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1959.

Giorgio Falco, Momenti e motivi dell’opera muratoriana, «Rivista storica italiana», LXXI, 1959, III, pp. 382-399.

Questo limpido e denso profilo del Muratori, tratto dall’introduzione ad un volume antologico di prossima pubblicazione nella collana Ricciardi, rappresenta in sintesi lo svolgimento intero della vita e dell’attività del grande erudito settecentesco nel vivo contatto con la cultura e la storia del suo tempo: «dall’esuberanza festosa dei primi incontri e delle prime esperienze letterarie, al tirocinio erudito, al baldanzoso, universale messaggio di riforma, alle superbe fatiche medievali, all’approfondimento del pensiero religioso e morale e civile, alla conclusione della Pubblica felicità e degli Annali». Al centro di questo profilo (in cui meno vivace è la presenza degli interessi letterari del riformatore arcadico e del pensatore d’estetica) sono il motivo storiografico della scoperta del medioevo e il motivo religioso-civile su cui il Falco (come già nel saggio compreso nella Cultura illuministica in Italia) particolarmente insiste a indicare l’atteggiamento complesso, e in certo senso drammatico, della serietà del Muratori, preso fra istanze ortodosse, o addirittura di origine controriformistica, e l’atteggiamento critico del pensiero illuminato o preilluministico, fra una sincera pietà religiosa (il cui approfondimento implica un momento decisivo nella vita muratoriana fra il 1711 e il 1720) e l’antigesuitismo, l’antipatia per ogni forma di superstizione, il bisogno di svolgere il cristianesimo in sollecitudine sociale e civile in difesa degli umili e in concreta collaborazione alla creazione di quella pubblica felicità che rappresenta il nuovo atteggiamento civile e politico di un uomo e di un tempo che si allontanavano ormai decisamente dagli ideali della ragion di stato.

Franco Venturi, Alle origini dell’illuminismo napoletano, «Rivista storica italiana», LXXI, 1959, III, pp. 416-456.

Alla pubblicazione di quindici lettere di Bartolomeo Intieri al Cocchi, e di cinque del Galiani allo stesso destinatario, Franco Venturi premette un ritratto efficacissimo dell’Intieri, figura di grande importanza nell’avvio del moto illuministico napoletano, istitutore della cattedra di economia politica del Genovesi e amico e stimolatore del Genovesi e del Galiani. Passato a Napoli dalla nativa Toscana, nel periodo del dominio austriaco, quando il regalismo era in netta posizione di difesa, l’Intieri, amministratore dei possessi agricoli di grandi famiglie toscane, fautore di un indirizzo culturale e civile antiecclesiastico e antimetafisico, sperimentale e pratico (di cui egli portava a Napoli la continuità della tradizione toscana galileiana), fu appunto al centro dell’avvio del nuovo volgersi dei migliori ingegni meridionali verso lo studio della società, dell’agricoltura, del commercio. Del suo senile entusiasmo per la vita e per la nuova civiltà piú libera e umana, anche se presentita come conquista lunga e difficile (e sullo sfondo pacato e sereno di una consapevolezza dei limiti dell’uomo e della sua sorte, della innata malvagità di certi uomini e di certi tempi), le lettere al Cocchi, cosí cordiali e calde nel loro stile dimesso e disadorno, sono efficacissima, commovente espressione: e, attraverso l’umanità che rivelano, testimoniano anche, in una zona piú umile, ma non sprovveduta, della calda autentica umanità di una élite intelligente e concreta che dette all’illuminismo la sua base piú sincera di impegno concreto, di quotidiana e persuasa fede in valori umani e civili di un umanesimo piú realistico e pratico che veniva legando i problemi e le idee alle cose e alla realtà storica ed umana.

Luigi Dal Pane, Lo stato pontificio e il movimento riformatore del Settecento, Milano, Giuffrè, 1959, pp. 798.

In questo volume che raccoglie e sistema organicamente numerosi saggi pubblicati dal noto studioso di storia economica dal 1932 ad oggi, e che, nel caso del movimento riformatore nello stato pontificio nel Settecento, intendono applicare un tipo di indagine sulle strutture appoggiate a «rilevazioni per totalità», può interessare soprattutto lo studioso della cultura e della letteratura del Settecento il saggio Spunti per la storia sociale settecentesca nell’epistolario di Vincenzo Monti che assai vivacemente utilizza molte lettere montiane del periodo romano sia per una diretta documentazione sulla situazione sociale romana nell’ultimo Settecento (condizione economica, nepotismo di Pio VI, ecc.), sia per una non inutile illustrazione di certi aspetti del Monti come tipico rappresentante di una famiglia provinciale in via di elevazione economica e sociale attraverso le occasioni di concessioni e di pressioni in cui la posizione del letterato segretario del nipote del papa permetteva interventi fruttuosi e rapide ufficiose informazioni. Mentre lo studio delle lettere del periodo fra la Basvilliana e la fuga nella Cispadana offre un quadro vivace delle reazioni del Monti al graduale trapasso della situazione politica: con una conclusione un po’ troppo semplice («il Monti è accusato di aver mutato sovente atteggiamento; ma l’accusa si ritorce contro la società che cosí lo formò, una società che non garantiva all’intelligenza regolari carriere, ma che dispensava i posti in ragione del denaro, del privilegio, dell’adulazione, e delle arti piú vive») e che comunque conferma la scarsa forza morale dell’uomo incapace di superare profondamente la sua prima formazione e troppo piú legato alla «cronaca» che alla «storia» del suo tempo. Del resto la natura del Monti, diviso fra il desiderio di partecipare e di mescolarsi agli avvenimenti (e portato a ciò dalla stessa concezione della poesia come esaltazione dei fatti storici di cui il poeta è responsabile solo per la sua forma splendente e per l’entusiasmo con cui consuona con gli entusiasmi collettivi del tempo) e il gusto della pace idillica e privata dell’umanista inteso alla letteratura, ai bei miti, ai bei carmi, fra l’ossequio ai potenti e una sua, persino ingenua, privata onesta bontà, è ben documentata dal pezzo piú gustoso del gruppo di diciassette lettere inedite, indirizzate a Monsignor Alessandro Alessandretti, vicario apostolico di Comacchio, qui raccolte. È la lettera del 26 luglio 1794 da cui riporto la parte piú significativa: «Aggiunga a tutte le cause fisiche le morali, voglio dire le soppressioni di Napoli piucché mai nostra inimica, le rotte degli alleati nelle Fiandre, le minacce di 150 mila non so se uomini o demoni, che si dice piombino in Italia dalla Francia meridionale, i non pochi disordini dell’interno, e cent’altri pensieri, il minimo de’ quali altera il cuore, e la testa, come l’alterano realmente a chi dovrebbe averla sempre serena per il bene pubblico. Monsignore amatissimo, o la paura mi multiplica agli occhi gli oggetti, o io veggo per l’aria un nuvolo di mali, che ci renderà tutti infelici. Oh quanto adesso desidero la paterna solitudine! Oh quanto sono stanco di veder delitti, abbominazioni, ingiustizie, e vederle dappertutto! Se non mi trattenesse una moglie, che amo, e due figli, che qualche volta mi richiamano sulla bocca un sorriso, io avrei già preso partito, quello cioè d’un uomo che ama la sua quiete, i suoi simili, e la sua religione; perché quest’ultima si perde anche fuori di Francia, che gliel dich’io».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1960.

Paola Berselli Ambri, L’opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Biblioteca dell’«Archivium Romanicum», Olschki, Firenze, 1960, pp. 236.

Questo studio espone con metodo piú narrativo che precisamente critico – dopo aver delineato la vicenda del viaggio del Montesquieu in Italia e la serie delle sue amicizie italiane – le posizioni di accettazione o di critica a cui fu sottoposta l’opera di Montesquieu, e soprattutto l’Esprit des lois, da parte di studiosi e letterati italiani raccolti a seconda degli stati in cui essi operavano. La conclusione è che la maggior attenzione all’opera di Montesquieu si esercita a Venezia, a Napoli, in Toscana e nella Lombardia, ma che la maggiore influenza dell’Esprit des lois si può ritrovare a Milano e a Firenze e può configurarsi nella suggestione del suo «relativismo» che fece considerare da alcuni uomini di governo la possibilità di servirsi dell’Esprit come di un nuovo codice del buon governo, come di un manuale dello statista moderno.

L’indagine è ampia per quanto riguarda le precise prese di posizione verificatesi nei confronti dell’opera di Montesquieu, ma, mentre scarso è il mordente critico e speculativo di tale indagine, può meravigliare il fatto che al di là della indagine diretta manchi, come risposta alla domanda della conclusione (che cosa ha dunque rappresentato l’opera di Montesquieu nel nostro Settecento), il riconoscimento dell’influenza di tale opera anche in uomini che non scrissero recensioni dei suoi libri. Come è il caso dell’Alfieri, di cui manca ogni traccia in questo libro se non in una nota dove si parla della tesi esagerata di un Piemonte settecentesco creatore solo di esuli. Che è a parte tutto legata ad affermazioni assai incaute e troppo calcaterriane sullo stato intellettuale del Piemonte da considerare (si veda il libro del Quazza qui non calcolato) in varie fasi con diversissima apertura culturale. E fra i particolari giudizi non accettabili indicherei quello sul Conti troppo facilmente adeguato a Filippo Venuti come uomo incapace di sintesi e di pensiero senza nulla di originale.

Ernesto Lama, Il pensiero pedagogico dell’Illuminismo, Coedizione Giuntine-Sansoni, Firenze, 1958, pp. XLVlII-593.

Munita di sufficienti notizie bio-bibliografiche e di una introduzione generale, questa grossa antologia di scritti pedagogici settecenteschi si presenta utile e stimolante a nuove ricerche e a nuovi studi sul pensiero pedagogico dell’età illuministica anche se l’insegna illuministica meno precisamente compete a scrittori di primo Settecento come il Muratori, il Maffei, il Vico, il Gravina, il Salvini (piú precisamente razionalisti e al massimo preilluministi) o a pensatori antilluministi come il Gerdil al quale ultimo forse il Lama concede spazio e rilievo maggiori del merito. Oltre a pagine piú note del Vico, del Gozzi, del Carli o del Filangieri e Genovesi, molti sono i recuperi di testi piú nuovi e meno accessibili ai lettori: come quelle del De Cosmi, del Pellizzari, del Salvini, del Torri o del giacobino Bocalosi (di cui, in relazione al discorso allo Championnet del Foscolo, andrebbe meglio rivisto, nella storia delle posizioni politiche 1799, il discorso Volete salvare l’Italia e la Francia?, «proposizione del cittadino Bocalosi al popolo e ai suoi magistrati», Genova, 1799), e del riformista toscano F.M. Gianni di cui qui si pubblica lo scritto L’educazione nazionale tratto dai manoscritti conservati nell’Archivio di Stato di Firenze.

L’introduzione è anticipata da una premessa che spiega certe assenze (Soave, Pilati, Chelucci, De Felice ecc.) per ragioni editoriali di spazio, ricordate anche per quel che riguarda gli interessi pedagogici di poeti e letterati come Alfieri e Parini (e tutta la grossa polemica sull’educazione delle donne); e giustamente insiste sul nesso particolarmente illuministico fra scritti pedagogici e concreti momenti della storia civile e culturale settecentesca (cosí l’opera riformatrice proposta dal Gozzi per le scuole di Venezia e Padova non si può storicamente intendere senza riferirsi alla soppressione della Compagnia di Gesú che segnò il crollo di un ordinamento scolastico e di un metodo educativo). Ma tale giustissima istanza è poi meno effettivamente riportata e sviluppata nell’introduzione che si articola in tre parti (riassunto espositivo-critico della definizione kantiana di illuminismo, panorama dei motivi essenziali della filosofia dell’illuminismo italiano ed europeo, valutazione generale della pedagogia italiana settecentesca) e presenta, in forma piuttosto divulgativa, idee generali che forse si sarebbero potute piú fortemente storicizzare alla luce di quanto si è sopra osservato e secondo la stessa acuta istanza dell’autore. Da notare comunque in questo senso le pagine sul giansenismo e la lotta contro i gesuiti (la cui crisi costituí un’occasione favorevole alla nascita della scuola moderna) e le indicazioni almeno direttive dei problemi piú filosofici dei meridionali e di quelli piú pratici dei settentrionali, entro una comune dimensione di effettiva tensione di riforma e di rapporti con i fatti politici. Mentre, d’altra parte, in rilievi piú, inevitabilmente, di seconda mano, utile è la considerazione del valore preilluministico dell’Arcadia: «il dissolvimento dei miti, il rifiuto implicito nel barocco, l’ideale configurato nella semplicità dei modi e dell’espressione, l’apertura alle correnti del pensiero europeo sono espressioni di un mutato atteggiamento di interessi e sensibilità, di un nuovo costume che affiora e si manifesta non soltanto in una piú moderna esplicazione di forme e rapporti sociali».

Infine, se si può essere d’accordo con alcuni giudizi generali («la pedagogia dell’illuminismo ci ha tramandato il concetto della soggettività dell’allievo e un profondo anelito di rinnovamento educativo e sociale che sono i germi fecondi dai quali si verranno sviluppando il moto di redenzione e la moderna pedagogia della dignità umana»), si possono discutere e l’eccessiva riduzione degli scrittori del «Caffè» a brillanti saggisti e l’estensione troppo facile dell’idea secondo cui l’illuminismo non fu movimento irreligioso o antireligioso, ma soltanto antidogmatico e antimetafisico: che è idea da particolareggiare in una ben diversamente ricca prospettiva di tensioni a cui non mancano posizioni non solo anticattoliche, ma piú generalmente non cristiane e antireligiose. Naturalmente con una definizione necessaria e storica di ciò che può intendersi per irreligioso, antireligioso e religioso (religiosità teistica e massonica, religiosità giansenistica, illuminismo a base cattolica ecc. ecc.).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 64°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1960.

Sergio Bertelli, Erudizione e storia in Ludovico Muratori, Napoli, Istituto italiano per gli studi storici, 1960, pp. 545.

Questo poderoso volume è non solo essenziale alla conoscenza del Muratori storiografo, ma lo è anche alla diagnosi di tutta la sua vicenda umana, e morale e intellettuale. E basterebbe in proposito notare come continuamente vi si svolgano i problemi del rigorismo agostiniano del Muratori e lo sviluppo dei suoi necessari alleggerimenti e concretamenti a contatto con avvenimenti e meditazioni personali sulla grazia e sul libero arbitrio, fino all’amara denuncia finale di un inevitabile accomodamento: «M’accorgo infine che bisogna lasciare il mondo com’è e cercherò di accomodarmivi anch’io» (denuncia finale che sottolinea proprio l’assiduo impegno muratoriano fra tensione rinnovatrice e senso del limite della realtà). Ma, come dicevo, il volume è soprattutto la ricostruzione minuta e minutamente documentata della formazione e dello sviluppo della storiografia muratoriana che da questo esame risulta illuminata nelle sue ragioni storiche e personali, nelle sue vigorose implicazioni metodologiche, nei suoi risultati concreti. Fondamentale per la illuminazione della formazione della metodologia muratoriana, sottratta al semplice ambito di una erudizione fine a se stessa (distintiva semmai di una fase iniziale di ricerche e scoperte di documenti non ancora orientate nella loro funzione), è la dimostrazione della crisi della erudizione maurina verso la fine del Seicento e della liberazione che da essa il Muratori operò con il concorso delle posizioni di Leibniz, le quali lo aiutarono al passaggio essenziale dall’erudizione ecclesiastica alla storia civile e all’identificazione del Medio Evo come matrice dello studio storico-politico (e in questo il Muratori mostrò la sua fermezza e moderazione e l’essenziale impostazione «civile» che gli permise di sostenere con interesse personale la causa estense contro le pretese pontificie nella celebre disputa intorno a Comacchio, ricostruita in tutti i suoi particolari dal Bertelli). E cosí, viste alla luce delle istanze storiografiche mature del Muratori, le due opere maggiori dello storico modenese, i Rerum italicarum scriptores e le Antiquitates italicae Medii Aevi, vengono ad assumere il loro pieno valore storiografico: la prima volle essere non, come spesso si pensa, una semplice raccolta di documenti per la storia del Medio Evo italiano, ma una vera e propria storia di quello attraverso i documenti contemporanei, e la seconda è «il piú compiuto tentativo di sistemazione critica della storia medievale che ci abbia dato la storiografia italiana settecentesca».

Si potrà osservare – come fa l’Arnaldi in un articolo uscito sul «Mondo» del 1 agosto – che il giudizio d’insieme sulle singole opere è un po’ sacrificato alla volontà del Bertelli di non affrontare l’analisi dettagliata delle varie opere e, inoltre, che di queste si illuminano prevalentemente le ragioni e le intenzioni, ma a me pare che proprio puntando in questa direzione il Bertelli abbia potuto offrirci un libro fondamentale a meglio confermare l’ispirazione storiografica del Muratori, a sottrarlo all’immagine stanca del puro, anche se formidabile, erudito, a storicizzarne la linea evolutiva nel pieno del suo tormento metodologico, civile, morale, religioso, a recuperarne la profonda serietà. Da questa ricostruzione interna e storica, accordata con elementi generali già vivi, ad esempio, nelle note pagine del Falco, si potranno trarre elementi essenziali a piú interi ritratti del Muratori recuperandone la unitarietà delle sue presenze attive nei vari campi del suo fervido impegno e quindi anche in quello dell’estetica e poetica, e della riforma arcadica, che (malgrado lo studio essenziale del Fubini e quello piú discutibile del Forti) pare richiedere ancora ricostruzioni piú storicamente scandite nella dinamica dell’epoca arcadico-razionalistica e in quella della intera personalità muratoriana.

Lirici del Settecento, a cura di Bruno Maier con la collaborazione di Mario Fubini, Dante Isella, Giorgio Piccitto, Introduzione di Mario Fubini, Milano-Napoli, Ricciardi, 1959, pp. CXXIV-1208.

Si tratta indubbiamente di uno dei volumi piú pregevoli della collana Ricciardi sia per l’accuratezza del commento sia, e soprattutto, per l’introduzione del Fubini cosí impegnativa ed ampia. La scelta è vasta e sostanzialmente accettabile, anche se si sarebbe potuto desiderare per l’epoca arcadica (data la giusta inclusione di autori vissuti nell’ultimo Seicento e nei primissimi anni del Settecento, come il Guidi) una scelta di altri rimatori della prearcadia e della primissima Arcadia, come Filicaia, Maggi, De Lemene, e la presenza di qualche altro esempio minore come il Forteguerri (trascurando semmai Lazzarini e Ghedini). E cosi nell’ultimo Settecento non avrei trascurato Giovanni Paradisi e avrei pensato a qualche esempio estremo di preromantici minori come il Viale. Desideri che, naturalmente, tenendo conto dei limiti dello spazio, potrebbero allargarsi nella richiesta, entro le singole antologie, di ulteriori poesie o di diversa scelta: ad esempio, nel caso della Maratti (alla cui presentazione avrebbero giovato sonetti come Ombrose valli e solitari orrori o Ahi ben mel disse in sua favella il core che sono molto efficaci e caratteristici della delicata corrispondenza poetica fra patetismo e paesaggio), o in quello del Manfredi, in cui si poteva preferire la canzone per una monaca di casa Davia a qualche sonetto di tema civile, o in quello del Rezzonico, in cui non avrei trascurato l’ode per Ticone Aerofilo, o in quello del Frugoni per il quale avrei desiderato la presenza di componimenti lirico-discorsivi, sia per la tecnica dello sciolto sia per certo tono familiare e realistico spesso piú convincente di molto canzonettismo un po’ ozioso. E piacerebbe che, nella ampia scelta del Pindemonte, fosse presente quell’epistola alla Mosconi in cui anche il Fubini, nella sua introduzione, trova una parte che è fra le cose piú belle del Pindemonte.

Sobrie e necessariamente non critiche (dato il discorso introduttivo che le avrebbe rese ripetitorie in tal senso) le introduzioni ai singoli autori, munite di buone bibliografie: potrei solo osservare in proposito che a volte il richiamo di libri citati nella nota bibliografica dell’introduzione sarebbe stato opportuno e piú preciso.

Comunque il contributo maggiore del Maier è certo da vedersi nel vasto e minuto commento, che, recuperando il frutto di precedenti commenti e di lavori particolari spesso assai rari, e integrandoli con nuove ricerche, offre soprattutto un abbondante materiale di riferimenti letterari utili a documentare, dagli arcadi in poi, la cura e serietà almeno letteraria di questi scrittori settecenteschi, la trama di cultura letteraria classicistica o straniera moderna dei vari momenti dello sviluppo settecentesco. Sarà un materiale non sottolineato e diretto alla sua esplicita funzione storico-critica, ma ciò esulava dai compiti del commentatore che si è preoccupato comunque di offrircelo in vasta copia, magari suggerendo anche una storia post-settecentesca che potrebbe invogliare ad ulteriori arricchimenti (cosí, ad es., per la storia del saviolismo, magari nella mediazione bertoliana, richiami alla raccolta Naranzi del Foscolo).

Meno utile, ma richiesto dal carattere della collezione, l’abbondante esplicazione di miti e personaggi mitologici.

Ottimi anche i commenti ai poeti dialettali riportati nell’antologia (e a cui si potrebbe desiderare magari l’aggiunta del genovese De Franchi) a cura dell’Isella, del Fubini, del Piccitto (il quale ultimo offre anche un interessante e preciso capitolo sulla lingua del Meli).

Ma, come dicevo all’inizio, il volume si raccomanda agli studiosi soprattutto per la introduzione del Fubini che si presenta come una vasta definizione critica dei lirici settecenteschi e va cosí considerata e valutata come un essenziale nuovo contributo alla storia del Settecento da parte dell’illustre autore dei saggi raccolti nel volume Dal Muratori al Baretti e della monografia vichiana.

Appoggiata al saggio fubiniano Arcadia e illuminismo, e a molti giudizi critici carducciani e crociani (usufruiti anche entro un sottile intreccio di definizioni nuove e di storia della critica presente in tutto il discorso), la nuova delineazione critica della lirica settecentesca si imposta soprattutto in una serie di ritratti critici lucidi, e finemente particolareggiati in esempi con citazioni di testi secondo l’istanza essenzialmente monografica crociana, ma arricchita da un’attenzione continua e ben fubiniana al linguaggio poetico (anche come ponte fra le crociane nozioni di letteratura e poesia) e da alcuni elementi di passaggio nella storia del gusto e del linguaggio, come quello, molto giusto, del mutamento della tendenza del linguaggio di primo Settecento da un’aspirazione prevalente al canto ad una tendenza piú figurativa, o la considerazione, specie in zona arcadica, della componente teatrale e scenica. Né mancano accenni alla sentimentalizzazione della zona preromantica (anche se il Fubini tende in genere a meno accentuarne la presenza) e alla precisazione neoclassica della generale componente classicistica (con la polemica neoclassica contro il facilismo metastasiano) individuata giustamente anche nei traduttori come il Pagnini, considerato (donde anche la sua nuova presenza nell’antologia) nella sua importanza di elaboratore di linguaggio neoclassico e collaboratore di uno sviluppo di questo nella direzione del Foscolo: in pieno e rilevato accordo con un mio apposito studio (uscito nel primo numero del ’53 di questa rivista).

Vi sono dunque, al di là dell’impostazione monografica (anche se in questa prevalentemente risolti), spunti ed elementi di storia letteraria considerevoli per chi voglia ulteriormente approfondire una scansione storica della poesia e della poetica settecentesca, e cosí particolarmente all’inizio del saggio è presente una piú ampia caratterizzazione della zona arcadica di cui inoltre (come di tutto il Settecento) il Fubini rileva l’importanza storico-letteraria nei confronti della civiltà poetica ottocentesca che guardò a quei poeti e non ai secentisti a cui si rivolgono invece «per simpatia ideologica e gusto decadentistico» alcuni studiosi contemporanei ritrovando in quelli «una consonanza col proprio sentire e non so quale precorrimento della piú moderna poesia»: affermazione che potrebbe aprire un lungo discorso e che comunque appare importante per un’implicita valorizzazione adeguata (e notoriamente già sostenuta dal Croce e dal Fubini) già dell’epoca arcadico-razionalistica in senso non puramente letterario; anche se poi graduabile nelle stesse rivolte antiarcadiche di successivi momenti di civiltà e di poetica del Settecento.

Già da quest’ultimo accenno può trasparire come, dal mio punto di vista, non tanto di fautore degli «ismi» (secondo la qualifica che il Fubini dà, nella nota bibliografica, dei miei studi settecenteschi pur cosí positivamente valutati), quanto di convinto assertore della storia della poetica, dei nessi storici di questa e di un’articolazione dinamica storico-critica della letteratura, portata a rilevare il piú possibile il mutamento e la novità delle varie fasi settecentesche, il saggio in esame possa apparire discutibile sia nella sua prevalente serialità monografica, sia nella prevalente istanza della continuità sulla forza dei mutamenti, che richiama, pur con maggior ricchezza di notazioni distintive, la tesi crociana della continuità arcadica in tutto il Settecento. Ma queste sono cose note agli studiosi della storiografia letteraria settecentesca e non occorrerà a lungo insistervi, anche perché la mia personale proposta (che pur tanto deve agli studi del Fubini per la sistemazione della fase arcadica) è costituita dai miei studi, già pubblicati in volume o in rivista, sul preromanticismo, sull’Arcadia, sul Parini, sul rococò, sul neoclassicismo e verrà meglio, e piú sinteticamente, riorganizzata in una storia della letteratura settecentesca che sto scrivendo per la storia letteraria Garzanti.

Dirò solo che nella serialità delle monografie fubiniane si avverte (malgrado gli spunti notati e approfondibili e malgrado la costante attenzione al linguaggio poetico come elemento a suo modo storico e termine di legame fra i vari autori) sia un certo isolamento fra i singoli ritratti, sia una certa mancanza di sfondo generale storico-culturale, specie per il secondo Settecento, a cui finisce per contribuire la stessa prospettiva troppo isolata di una considerazione di questi autori come elaboratori di linguaggio e di forme metriche e meno come personali espressioni di tensioni poetiche ricollegabili a precise zone culturali e storiche, a forme generali di civiltà e società.

Sicché, sol per parlare della zona arcadica (che è comunque quella piú caratterizzata dal Fubini), le esperienze dei vari rimatori studiati avrebbero preso maggiore evidenza e significato se piú fortemente considerate in rapporto con la loro rappresentatività di tendenze vive nella cultura e nella poetica di quel periodo, e, in sede generale, può apparire discutibile l’affermazione secondo cui molti di questi scrittori «non richieggono uno studio della loro personalità o desanctisianamente del loro mondo, bensí quello solo della forma metrica e del modulo dei loro componimenti». Ché se di mondo personale in senso profondo sarà difficile qui parlare, varrebbe sempre la pena di accertarne, almeno sinteticamente, la storicità non sol letteraria, il loro modo personale (anche se in forme gracili e poco profonde) di interpretare modi e tensioni espressive, culturali, di costume di società.

E per quel che riguarda il secondo Settecento mi par chiaro che le singole esperienze di tipo preromantico avrebbero guadagnato da una delineazione di sfondo generale ed anche da una considerazione dell’opera dei traduttori preromantici (in una zona, fra l’altro, in cui piú difficile è distinguere del tutto fra l’esperienza lirica e la piú generale tensione poetica che in quei traduttori, massime nel Cesarotti, piú chiaramente si documenta).

Si potrebbe ancora osservare la relativa esaurienza (ricollegabile al notato motivo della continuità arcadica) di certe definizioni arcadiche del Bertola e del Savioli (nuova prova di Arcadia) per lo stesso Pagnini («ultima, piú intima e raffinata Arcadia») o quella della designazione di «secentismo provinciale» del Minzoni che, a suo modo, si inserisce (con tutta la sua retorica giustamente osservata come peso tipico di tanta letteratura italiana posteriore e con limiti provinciali) piuttosto in quella reazione anti-illuministica e anti-poesia didascalica e conversevole in nome del desiderio di una grande poesia, di un «fare grande» immaginoso e grandioso che in parte si rifà al Frugoni, in parte esternamente coincide con le velleità, fra preromanticismo e neoclassicismo, di Mazza e Rezzonico e con la ben diversa e profonda reazione dell’Alfieri contro il secolo «tanto ragionatore e nulla poetico».

È ovvio infine che le necessità del volume escludendo il Parini meno permettono la delineazione di un quadro in svolgimento a cui la forza di quella presenza avrebbe dato maggior rilievo di scansione; mentre la presenza del Metastasio (non solo, secondo me, esempio di poesia-mestiere per gli scrittori del Settecento, ma per loro, secondo la formula di Rousseau, poeta del cuore) avrebbe meglio precisato e concretato il culmine, il significato e i limiti della vera poetica arcadica.

Tutto ciò non toglie che il contributo del Fubini sia considerevolissimo e moltissimi siano gli spunti nuovi e finissimi della sua lettura cosí perspicua e sensibile soprattutto nel rilievo del linguaggio dei singoli autori: eccellenti fra gli altri il ritratto del Manfredi (e tale da rendere ben l’impressione che qui si tratta di poesia, anche se minore, come già avvertiva il Foscolo e come ho creduto di poter affermare in un mio saggio del ’53), quello del Rolli (in cui cosí giustamente si punta sugli endecasillabi), quelli del Savioli e del Casti, del Fantoni, del Pindemonte (con ottime osservazioni sulla sua versione dell’Odissea). E se anche su questo piano potrei esprimere rilievi diversi (penso, solo ad esempio, al Guidi e alla sua, per me discutibile, compostezza di tono o alla Paolini Massimi in cui accentuerei di piú una istintiva tendenza patetica e melodrammatica entro la sua impostazione grave ed eroica), ciò che conta sottolineare è la coerenza interna di tutto il saggio rispetto alle piú recenti istanze fubiniane, la sua fusione nitida e sicura che riconfermano, se occorresse, le alte qualità del Fubini, maestro di studi settecenteschi e critico del linguaggio poetico di singolare acutezza.

Discussioni linguistiche del Settecento, a cura di Mario Puppo, Torino, UTET, 1957, pp. 515.

Il volume (di cui si dà notizia con tanto ritardo a causa della mancata consegna di un’apposita recensione piú volte promessa) raccoglie i seguenti scritti: passi della Perfetta poesia del Muratori e delle Annotazioni a quella di A.M. Salvini, brani della Ragion poetica del Gravina, scritti dell’Algarotti, del «Caffè», del Beccaria, del Baretti, del Bettinelli, del Gozzi, del Galeani-Napione e l’intero Saggio sulla filosofia delle lingue del Cesarotti. Scelta ben calcolata e significativa anche se elementi utili alla illuminazione della polemica linguistica del Settecento potevano essere tratti – spazio permettendo – sia da scritti arcadici (per es. dalla lettera del Manfredi all’Orsi) sia, per il secondo Settecento, da scritti piú direttamente impegnati nella discussione sul «gusto», ma non meno importanti per le posizioni sulla lingua, specie in direzione di svolgimento puristico (ad es. dal Vannetti).

Gli scritti riportati (si poteva desiderare una maggior cura editoriale trattandosi di edizioni settecentesche non molto precise e corrette) sono muniti di brevi note bibliografiche, mentre il loro rilievo critico è demandato al lungo discorso introduttivo. Questo si articola, partendo da un rapido excursus sulle posizioni linguistiche precedenti, nel rilievo iniziale di un caratteristico e nuovo rapporto fra lingua, cultura, esigenze sociali, politiche, nazionali, già instaurato nell’epoca arcadico-razionalistica (Muratori, Gravina, fra innovazione e tradizione) sullo stimolo della polemica italofrancese e poi piú impegnativamente sviluppato, a partire dall’Algarotti (con la sua posizione antitradizionalistica, ma insieme con la rivendicazione, di fronte al francese e alla costruzione diretta, della maggior ricchezza della lingua italiana e dei diritti dell’inversione) negli scritti «moderni» del «Caffè», antifiorentini, antitradizionalistici in forme estreme nella Rinuncia di Alessandro Verri, ma piú dotati di spirito storico nelle posizioni del Beccaria avvivate dall’intervento piú deciso del sensismo. E questo opera piú efficacemente nell’opera linguistica del Cesarotti in cui piú chiaro è il distacco dalla mentalità razionalistica e piú nettamente si affermano il sentimento della vita inesauribile del linguaggio e la difesa della libertà dello scrittore. Mentre nel Baretti prevale la difesa dello «stile naturale» e nel Bettinelli la considerazione della lingua italiana soprattutto nella sua «armonia poetica». Chiude il secolo, e imposta (fra remore retrive e anticipazioni ottocentesche) la considerazione politica della lingua, il Galeani-Napione.

Il discorso ha la sua parte piú documentata e impegnativa sul Cesarotti, mentre per il resto appare meno ricco di sfondo storico e culturale e, pur offrendo alcune buone descrizioni di singoli scritti o di qualche momento particolare (ad es. le differenze e il progresso, nell’ambito del «Caffè», fra la posizione estremistica della Rinuncia e quella piú complessa del Beccaria), si presta a varie osservazioni e a suggerimenti di integrazioni. Specie pensando al fatto che in queste discussioni linguistiche bisogna tener sempre conto non solo del gusto personale del disputante (come osserva il Puppo a proposito del Baretti), ma anche del gusto e della poetica delle varie fasi settecentesche in questo discorso meno chiaramente calcolati. Donde il mancato rilievo di problemi tipici dell’epoca arcadica come quello del doppio linguaggio per la poesia e per la prosa (portato alla maggior evidenza nella lettera ricordata del Manfredi, ma vivo ad es. anche nel Metastasio, che sul linguaggio poetico ha replicati interventi nelle lettere e nell’Estratto della poetica di Aristotile), e la scarsa considerazione della componente classicistica almeno a livello arcadico e neoclassico (cosí per il Salvini andrebbe calcolata la sua intenzione «grecista» e l’effettivo sforzo di neoformazioni classicheggianti che tanto posto danno a questo grammatico e traduttore nei vocabolari). Quanto alle valutazioni dei singoli scrittori considerati (fra i quali meritava in qualche modo di esser pur considerato il Parini, nella sua forte coincidenza di letteratura e lingua, e per le sue polemiche col Bandiera e col Branda), si potrebbe osservare che la nozione di poesia del Muratori par troppo risolta in un prodotto di gusto, privo di ragioni etico-contenutistiche (basti invece pensare almeno alla sua difesa del Maggi) e che la posizione del Baretti appare troppo ridotta a pure misure illuministiche e troppo appaiono depresse le sue novità preromantiche (originalità e storicità del linguaggio, problema della traducibilità ecc.). Mentre troppo sembra concedersi al Galeani-Napione in direzione romantica, anche se poi piú giustamente si vede una biforcazione fra il suo possibile precorrimento di posizioni giobertiane e quello piú attivo del Cesarotti nei confronti dei romantici del «Conciliatore».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1961.

Nicola Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 420.

Gli studiosi del Vico e della cultura meridionale fra ’600 e ’700 debbono essere veramente grati al Badaloni per questo suo lavoro che rappresenta non solo un contributo importante alla ricostruzione e all’interpretazione del pensiero vichiano, ma insieme un contributo altrettanto importante alla storia delle correnti filosofiche e culturali dell’Italia meridionale nel complesso periodo sei-settecentesco in cui si motiva e si precisa la grande figura vichiana. Per quel che riguarda questa lo studio della cultura napoletana permette concretamente di ricostruire lo sviluppo e l’indirizzo vichiano fuori di quegli agganci a posizioni filosofiche moderne che, pur con tanti stimoli effettivi, ne hanno troppo condizionato e limitato una comprensione storica, anche se, come del resto il titolo del libro vuole indicare, un ulteriore studio diretto del pensiero vichiano in tutto il suo sviluppo e nelle sue aperture al futuro possa venir meglio precisando quella presenza del Vico nello svolgimento successivo del pensiero di cui qui pur non mancano già vivi elementi e contributi chiarificativi.

Lo sforzo maggiore del Badaloni è consistito nella ricostruzione della cultura napoletana, in cui il Vico si inserí, e soprattutto nella nitida e approfondita ricostruzione di quella fondamentale Accademia degli Investiganti la cui importanza anche agli effetti dello svolgimento antibarocco e prearcadico letterario era stata già indicata da studiosi come il Maugain e il Nicolini, e su cui ha recentemente insistito Biagio De Giovanni nel suo studio su Francesco D’Andrea (Milano, Giuffrè, 1958). Il Badaloni accuratamente delinea tutta intera la ricca problematica degli Investiganti (Borelli, Caramuel, Francesco D’Andrea, Leonardo Di Capua, Tommaso Cornelio, Porzio) e ne individua i legami di vicinanza e discussione con motivi vichiani in formazione: come, fra gli altri, la gnoseologia probabilistica, antidogmatica e antiscolastica del Caramuel (con la sua riduzione del concetto a strumento puramente umano e la sua opposizione al dogmatismo teologico e ad una filosofia del semplice «fatto»), la concezione provvidenzialistica della natura e antimentalismo nel Di Capua; e insieme mediazione di elementi europei nella meditazione vichiana sino a quella trasformazione dello studio del dogma in studio storico della tradizione ecclesiastica del Mabillon, che, mediato dalle posizioni del D’Andrea e del Grimaldi, entra nella meditazione vichiana sul certum, elemento costitutivo di ogni vero. Mentre le implicazioni sociali e politiche delle posizioni degli Investiganti (nel rapporto fra diritti privati e autorità dello stato) e degli ambienti giuridici a quelle legati si ripropongono concretamente nel pensiero vichiano e il rapporto di questo con le posizioni degli investiganti motiva nuovamente l’isolamento del Vico di fronte alla prevalenza della posizione regalistica e della impostazione mentalistica e filo-giansenistica: con il risultato di una posizione vichiana da «terzo partito» in polemica con le posizioni teologiche dei filogiansenisti, tipo Gravina, e dei filogesuiti e gesuiti. Proprio nella distinzione fra le generali posizioni storico-filosofiche di Vico e Gravina il Badaloni porta un contributo importante sia per chiarire meglio tale distinzione anche nei suoi riflessi estetici, sia per delineare un ritratto storico filosofico del Gravina che mi appare molto stimolante per la migliore ricostruzione della sua figura critica e della sua stessa proposta di poetica arcadica, per l’influenza da lui esercitata sul Guidi desiderato attuatore di tale poetica.

Allo studioso di letteratura interesserà tutto il libro, ma soprattutto sarà utilissimo questo capitolo in cui il Badaloni studia con nuove indagini e nuovi documenti l’Accademia dei Luminosi con al centro Gravina e Caloprese.

Per la distinzione Vico-Gravina basti pensare al tema delle favole antiche a proposito del quale, malgrado certe somiglianze esteriori, la posizione del Vico appare in polemica vicina con il Gravina e in rapporto positivo con il Di Capua (carattere «popolare» e «politico» delle favole e non espressione di sapienza riposta e carattere loro filosofico-riflesso).

Per una nuova valutazione del Gravina, del Caloprese e della linea graviniana-guidiana nella formazione dell’Arcadia, il capitolo del libro sui «luminosi» porta elementi e stimoli davvero importanti e atti a rafforzare l’impostazione già data dal Croce, ma da lui non sfruttata, al problema dell’antigesuitismo graviniano e alla sua filosofia della luce, dal Gravina ritrovata anche nell’Endimione del Guidi e in quest’opera, secondo il Badaloni, ritrovabile effettivamente, e presente anche nei componimenti maturi come la celebre canzone sulla Promulgazione delle leggi d’Arcadia. Sicché una volontà di riforma religiosa, civile e morale è accertabile nell’opera programmatica, nelle stesse tragedie del Gravina, e nella stessa tensione di Arcadia grandiosa del Guidi (con echi di piú debole precisione, penso, in quel gruppo di rimatrici romane che piú sentirono la lezione del Guidi pur spesso tramutandola in forme piú coerenti alla tendenza arcadica prevalente di tipo melodrammatico). Donde la possibilità di approfondire e meglio storicizzare la complessa vicenda letteraria e culturale della formazione e della lotta interna delle prime correnti arcadiche senza con ciò ricadere nella pura e semplice diagnosi interamente gesuitica del Settembrini e senza perder di vista la piú generale base di mentalità e di gusto antibarocco, la spinta generale del razionalismo, e senza naturalmente dimenticare, in sede di storia letteraria, la sua novità di commutazione degli elementi culturali in linee di poetica e di attuazione poetica.

A parte un discorso in proposito che arricchirebbe e preciserebbe comunque gli avviamenti di storicizzazione dell’Arcadia presenti nel Croce e nel Fubini e la diagnosi piú particolare da me iniziata soprattutto per quel che riguarda la prearcadia toscana, il capitolo del Badaloni mi appare estremamente importante proprio per una considerazione piú attenta del Gravina sia nei suoi alti elementi di serietà e di impegno, sia nei suoi limiti di scarsa forza di efficacia attiva che, secondo il Badaloni, sono (nello studio delle tragedie) «la mancanza di una analisi del sottofondo reale al rapporto tra mente e corpo e tra ceti dirigenti intellettuali e masse popolari, lo schematismo e rigorismo stoicizzante, la inattualità della sua condanna delle passioni, il carattere letterario di quella grazia che vorrebbe risolvere in sé la possibilità di un giusto ordinamento della società, ma che non sa di fatto rivelare la realtà di forze sociali che operassero nella direzione dal Gravina stesso indicata». Limiti sui quali si potrebbe poi discutere quanto all’effettiva possibilità del loro superamento in quella condizione storica e che comunque confluiscono nel rilievo di una tensione complessa troppo spesso svalutata o ignorata nella presentazione di un Gravina solo pedantesco classicista e privo di significato e di problematica storica.

Laura Bassi Verati, Epistolario, a cura di Elio Melli, «Studi inediti per il primo centenario dell’Istituto Magistrale Laura Bassi», Bologna, STEB, 1961, pp. 55-187.

Come rileva l’introduzione del Melli, che delle lettere ha dato un testo accurato e lo ha munito di abbondanti note, l’interesse di queste lettere, scritte tra il 1732 e il 1777, riguarda sia la miglior conoscenza della personalità della scienziata bolognese (in verità una personalità assai viva e coerente nel rapporto fra attività scientifica, al centro della sua vita, e disposizione di mentalità e di gusto fine e sobrio), sia la miglior conoscenza dell’ambiente e del costume di vita della Bologna di metà Settecento: forse da quest’ultimo punto di vista gli elementi precisi offerti dalle lettere sono minori di quanto appaia al curatore, ma è indubbio che la stessa personalità della Bassi, il suo modo di considerare cose e persone, la sua stessa scrittura sciolta, affabile e intelligente, chiara ed elegante senza pedanteria, ben si intona a certe caratteristiche della cultura bolognese scientifica e letteraria quale si era venuta formando già tra fine Seicento e inizio del nuovo secolo specie ad opera del Manfredi, e che meriterebbe di essere meglio indagata e ricostruita.

«Il Caffè», a cura di Sergio Romagnoli, Feltrinelli, Milano, 1960, pp. LIV-583.

Particolarmente opportuna giunge nel presente fervore di studi sul Settecento italiano questa nuova edizione della rivista illuministica milanese che finora poteva leggersi integralmente solo nell’originale assai raro e nella ristampa piuttosto difettosa del 1804. Il Romagnoli, studioso ed editore delle opere del Beccaria (su cui v. la mia scheda nel n. 2 del 1958), ha curato con scrupolosa correttezza la presente ristampa e l’ha munita di note assai interessanti specie per l’identificazione del tessuto polemico del «Caffè» in rapporto soprattutto al Baretti e al Parini, e di una introduzione che ricostruisce la storia esterna ed interna della rivista. Notevole anzitutto in questa la precisazione degli intenti dei redattori anche dal punto di vista di una nuova formula giornalistica di fronte ai limiti culturali del giornalismo erudito e al puro impegno informativo delle gazzette e dal punto di vista inerente di una impostazione dialogica e modernamente settecentesca già implicita nel felicissimo titolo: «Pietro Verri rimase fedele a questo modo di presentazione piú di quanto non si avverta ad una prima lettura; si rifletta infatti a quanto spesso gli articoli siano introdotti dal gorgoglio delle cuccume bollenti e dall’acciottolio delle tazze di caffè, e come egli finga alcuni suoi scritti in forma dialogica con il caffettiere Demetrio, nel quale, del resto, si avverte quasi lo sdoppiamento della personalità dello scrittore, quasi il personaggio assuma l’aspetto di uno specchio della coscienza obbiettiva del Verri, ne sia l’alter ego oltre che l’ideale di una popolana dignità di costumi e di educazione civile». Cornice leggera ed efficace anche se poi limitata dal Romagnoli nella sua difficoltà a reggere costantemente all’impegno anche di stile nuovo di fronte a cui si notano negativamente la preoccupazione di Pietro di esser rappresentante di tutto un gruppo e certa sua monotonia di forma, e lo stesso fatto che la vita del «Caffè» fu difficile e costretta non di rado a compromessi.

Ché piú in profondo (ed è punto interessante suscettibile di discussione e di approfondimento) la responsabilità di una intera azione riformatrice affidata ad un giornale sembra al Romagnoli eccessiva e corrispondente d’altra parte ad una mancata considerazione, negli uomini dell’Accademia dei Pugni, «degli strumenti e degli istituti moderni attraverso i quali gli individui, i cittadini possano inserirsi e aver peso nella vita politica, anche se in essi si scorge il motivo nuovo del gruppo – è un aspetto della miglior politica illuministica – che potrebbe considerarsi come preliminare e affatto teorica intuizione del partito politico, quale dovrà affacciarsi in Italia nelle sue prime forme negli anni della Rivoluzione francese». Mancata considerazione, impossibilità pratica o prospettiva superiore all’effettiva realtà e mentalità di uomini che poi in parte si impegnarono praticamente nella collaborazione sin troppo burocratica con la politica austriaca in Lombardia? Problema, ripeto, da meglio precisare dato che poi non trovo del tutto convincente la constatazione di un’amarezza per un’azione non condotta come si doveva, nell’accenno tardo di Pietro ad Alessandro riportato dal Romagnoli a p. XXV: «Io credo che se v’era modo di migliorare la generazione nascente era quello del Caffè. Una guerra perenne, un ridicolo incessante frizzato ogni settimana sulla grave stolidità, sulla ostinata pretensione, sopra le scioccherie nazionali: questa era una rugiada: un foglio era appena sensibile; ma una azione anche piccola continuata costantemente fa effetto, e costoro non si vincono mai svelando loro in faccia il bello e il grande, ma le orticate del ridicolo le sentono, fremono, tacciono, s’avviliscono, e la vasta armata si ritira e pochi s’avanzano, e fanno seguaci». Dove mi par evidente invece la soddisfazione per l’azione compiuta e l’interesse di Pietro per una azione volta piú a promuovere l’educazione della «generazione nascente» e un rinnovamento basato appunto sull’educazione e sulla creazione di una nuova generale mentalità, che non per un immediato fine di totale cambiamento di strutture.

Utili i veloci e ben informati ritratti dei collaboratori, anche di quelli minori meno noti e spesso male identificati. Utilissima l’identificazione o la discussione sulla possibile identificazione di vari articoli (fra cui quella, già proposta nell’edizione del Beccaria, del Frammento sugli odori attribuito al Beccaria invece che ad Alessandro Verri).

Particolarmente felice il ritratto di Alessandro Verri di cui (dissentendo da coloro che negano ogni uso della periodizzazione preromantica e rifacendosi al mio capitolo sul «Caffè» nel mio Preromanticismo italiano) il Romagnoli rileva le punte preromantiche già vive in molti suoi articoli giovanili sulla rivista milanese.

Si potrebbe desiderare un maggiore approfondimento del preciso inserimento del «Caffè» nella situazione sociale politica della Lombardia austriaca e del rapporto fra gli impegni linguistici e i risultati della prosa degli illuministi lombardi, ma non si può dire che anche in tal senso manchino spunti e suggerimenti, nei limiti di una presentazione che, d’altra parte, non poteva non essere particolarmente attratta dal piú preciso ritratto dei due fratelli Verri.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 65°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1961.

Giammaria Ortes, Riflessioni di un filosofo americano, a cura di Gianfranco Torcellan, Torino, Einaudi, 1961, pp. XXXI-105.

Bisogna essere grati davvero al Torcellan per la pubblicazione di questa operetta inedita dell’Ortes e della scelta delle sue Definizioni, perché nella linea della personalità dello scrittore (di cui il Torcellan offre un limpido profilo) e nel quadro della cultura illuministica veneziana, quello scritto e quelle definizioni hanno un’importanza di vero rilievo e presentano uno dei documenti piú vivi ed efficaci di un atteggiamento pessimistico e critico assai originale fra le spinte pessimistiche e critiche che arricchiscono l’età dei lumi. Pessimismo e critica avvivati, sulla base di un’esperienza personale e sull’esigenza di un’assoluta, implacabile chiarezza e responsabilità, dall’incontro, intorno al 1762, con il Contratto sociale: un incontro che, mentre affina le capacità critiche dell’Ortes nei confronti delle convenzioni della società contemporanea, provoca poi la sua reazione piú ferma di fronte al mito della bontà naturale e della felicità da cui scaturisce l’amara, lucida conclusione che contraddizioni dello stato di natura e di quello della società consistono in questo: di pensare «che l’uomo abbia a conseguire una felicità cosí da lui chiamata che non se li compete, e alla quale vede egli pure che non può arrivare nessun’altra specie pur di viventi. Tutte le discussioni fra i filosofi intorno ai costumi, alle leggi, alla società e simili nascono dal combattimento della propria bassezza che si sente realmente coll’idea della propria grandezza che si vorrebbe introdurre. Nessuno ha la grandezza d’animo di confessarsi simile a una pecora. Fatta questa confessione, io prometto che tutte le controversie cessano, che tutti sono conformi e concordi, che la verità è conosciuta». Conclusione amara rafforzata dall’altra che gli stessi mali di natura non si possono riparare coll’arte: «Questi mali procedono dal moto indefesso in cui si tiene essa natura, e dall’inclinazione di sempre nuove produzioni, origini di esse mali. L’uomo dunque operando colle leggi della natura, come parte di essa, tanto inclina a produrre dei suoi simili quanto a distruggerne, come coll’alimentare se stesso si va altrettanto distruggendo colle separazioni e ciò tanto piú quanto piú fervido e vivace è il suo temperamento».

Mentre nelle Definizioni il lettore troverà certo alcune fra le punte piú sottili e decise dello spirito illuministico nel suo aspetto piú corrosivo e anticonvenzionale, pur nello svariare di forza acuta e di efficacia espressiva, come questa sulle «accademie» («società comiche nelle quali ciascuno conserva il suo serio»), questa sul «maestro» («persona destinata a insegnare ai fanciulli quelle cose colla pratica delle quali essi si renderebbero ridicoli nell’età adulta»), questa sul «niente» («termine al quale si riducono tutte le umane cognizioni»), o sull’«istante» («la durata del piacere») o sull’«eroe» («il vero è quegli che sa combattere le proprie passioni. Ma abusivamente questo nome suol darsi a quelli che distruggono piú l’umanità da una parte di quel che altri la struggano dall’altra»). Posizioni che poi riportano l’Ortes alla obbiettività impassibile della scienza economica e alla certezza sopraumana della religione cattolica, ma che di per sé approfondivano l’acume critico, l’analisi della situazione umana in cui pur vive una delle forze dell’illuminismo.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 66°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1962.

Norbert Jonard, La poésie française dans l’esthétique de Muratori, «Revue de littérature comparée», XXXV, 1961, 4, pp. 566-582.

Utilizzando in maniera corretta le affermazioni teoriche del Muratori nella Perfetta poesia, l’autore vede nella sua polemica contro il barocco e, d’altra parte, nella sua difesa del Tasso, un gusto razionalistico in via di ampliamento e di progressiva giustificazione della fantasia; mentre utilizza la presa di posizione contro i francesi, anch’essi contaminati dal secentismo, come primo accenno di una diagnosi moderna del Seicento francese (che troverà spesso sin troppo vaste conclusioni). Ed era veramente ora che tale motivo di storia della critica venisse messo in luce. Sarà da aggiungere che tale considerazione del barocchismo anche di autori classicisti francesi non fu solo del Muratori e che (entro la sollecitazione e i termini della polemica Orsi-Bouhours) una simile posizione (barocco come fenomeno non solo italiano, ma europeo, carattere barocco di molta produzione francese) si può ritrovare in formulazioni assai acute nella lettera del Manfredi all’Orsi (1° settembre 1706), in cui la polemica con i francesi si precisa nel contrasto fra il doppio linguaggio degli italiani per la poesia e per la prosa e l’unico linguaggio dei francesi, che condurrebbe in poesia ad una specie di prosa rimata adatta ad una tematica conversevole, scherzevole, ingegnosa; oltreché trova, per rivalsa, che molto debbono i Francesi al Petrarca:

«E per non dire di Ronsard riputato per tant’anni il principe de’ poeti di quella nazione, il quale non ha lasciato fra le sue poesie amorose quasi componimento che non sia una traduzione in franzese di ciò che il Petrarca ed il Bembo od altri de’ nostri avea detto in toscano, basti dire che Filippo Desportes, anch’egli uno de’ piú riguardevoli rimatori dell’età sua, altro esemplare non si propose da imitare che i poeti d’Italia ed essendo tacciato di aver rubato a questi parecchie cose, solea rispondere averne rubato anche piú che altri non s’avvisava».

Andrà poi detto che il libro Della perfetta poesia nasce non solo dal motivo della polemica con i francesi, ma dalla meditazione del Muratori sui fatti poetici e sul suo distacco dal «malgusto» barocco recuperabile entro le lettere del periodo milanese (e basti ricordare ancora la Vita del Maggi del 1700, a far scartare questa immagine troppo semplicistica della genesi del celebre libro muratoriano).

Bruna Talluri, Il conteso territorio di Comacchio e l’intervento del Sant’Uffizio contro Uberto Benvoglienti erudito senese, «Studi senesi», LXIII, 1961, 1, pp. 146-172.

Preceduto da alcune osservazioni generali sullo stato della cultura erudita di primo Settecento in cui, pur tra remore di prudenza e discrezione, si vengono diffondendo e difendendo posizioni di ricerca spregiudicata e di utilizzazioni degli «empi» filosofi oltremontani contro gli ortodossi sostenitori delle verità dogmatiche e delle istituzioni politiche, lo studio della Talluri presenta ed illustra alcune lettere inedite del carteggio Benvoglienti (fra il 1709 e il 1713) relative alla nota questione di Comacchio e all’intervento in essa del Benvoglienti che, da onesto erudito, aveva pubblicato nella «Bibliothèque choisie» del Le Clerc un articolo provante, contro il Fontanini, la falsificazione di una medaglia attribuita a Carlo Magno, ed era stato perciò arrestato dal Sant’Uffizio come reo di aver dubitato della legittimità dei diritti temporali dei papi. Mentre le lettere del Baruffaldi, che aveva avuto simili sventure per simili ragioni, illuminano lo stato d’animo di eruditi fedeli alla verità e amaramente portati a concludere: «conviene mutare sistema agli studi e darsi a cose vane e disutili: cosí si vuole, cosí si faccia», quelle del Sergardi chiariscono l’atteggiamento di letterati vicini alla curia, intenti a riportare gli «sviati», come il Benvoglienti, ad un’attività piú «proficua» a favore della Santa Sede. Il Benvoglienti non dimostrò in quell’occasione qualità di coraggio, anche se in privato la sua posizione si chiariva in uno sfogo al Marmi che mi sembra molto interessante a precisare il fondo piú ampio della polemica contro i bacchettoni nel clima oppressivo del regno di Cosimo III e in relazione alla piú nota posizione del Gigli: «Se io devo dire liberamente il mio parere, crederei che i Bacchettoni si dovessero spengere e farli levare dal mondo. Io chiamo Bacchettoni coloro che verso le cose di religione hanno un’affettata dimostrazione o sia nelle parole o sia nel vestire. Costoro sono di due sorti: o buoni o falsi. Gli uni e gli altri debbono essere esclusi dagli affari del mondo: se buoni peccano di semplicità e di loro veramente si può dire con la Chiesa, Beati pauperes spiritui, ma costoro tanto sono buoni negli eremi e ne’ chiostri, quanto poco sono giovevoli nelle cose di questo secolo; gli altri sono cosí scellerati che sotto coperta di religione fanno di ogni erba un fascio e vogliono, quasi starei per dire, canonizzare virtú, l’essere un accorto ruffiano o un raffinato usuraio».

Non sarà nato nello stesso periodo (si pensi al Gigli ed anche al prudentissimo Fagiuoli) il detto popolare toscano: «bacchettoni e collitorti – tutti il diavol se li porti»? Anche l’episodio narrato dal Marmi, e riportato dalla Talluri, di vari cartelli apparsi nel 1709 a Firenze contro Cosimo III e i suoi consiglieri ecclesiastici, conferma la diffusione, popolare e ad alto livello, dell’esasperato clima di protesta in Toscana contro il regime bigotto del penultimo duca mediceo cosí in contrasto con l’evoluzione spirituale e culturale dell’epoca arcadico-razionalistica. Saremmo grati alla Talluri di altri contributi come questi.

Giornali veneziani del Settecento, a cura di Marino Berengo, Milano, Feltrinelli, pp. LXVIII-735.

Frutto di una esplorazione esauriente nel materiale giornalistico veneziano e di una conoscenza della situazione culturale e storica della Venezia settecentesca cosí ben dimostrata già nel noto studio del Berengo, La società veneta alla fine del ’700, questa antologia costituisce un valido contributo e alla storia della cultura veneziana e alla storia del giornalismo italiano del Settecento, anche se forse un miglior approfondimento di aspetti piú specificamente letterari l’avrebbe reso anche piú completo.

La scelta (pur nei limiti esplicitamente dichiarati dall’autore: come la pratica impossibilità di dare una diretta immagine del giornalismo piú compilatorio in cui la caratterizzazione nasce dalle scelte operate nell’immenso materiale offerto dalla vita culturale europea) è vasta ed oculata, offre testi convenientemente riveduti nelle note scorrettezze tipografiche ed editoriali settecentesche specie giornalistiche, ed è integrata e guidata da un’ampia introduzione che, se non sarà una compiuta «storia» del giornalismo veneziano, propone in realtà assai piú di un semplice «scorcio» dei suoi momenti piú significativi come il Berengo, un po’ troppo modestamente, la qualifica, arricchita com’è anche da un lungo capitolo sui celebri giornali gozziani che per ragioni ovvie non potevano né essere, per la loro natura organica, antologizzati, né venire, per ragioni di spazio, interamente riprodotti.

Ripercorrere anche rapidamente le linee ed i punti essenziali di questa introduzione coinciderà con un rilievo molto positivo della sua densità e ricchezza di idee, di definizioni, di scansioni di fasi.

Chiarito il fatto, tanto piú valido nel caso del Veneto, che non potrà ricercarsi in questi giornali un preciso filone di espliciti giudizi politici, il Berengo precisa una zona di primo Settecento in cui lo scopo predominante del periodico è quello di informare e in cui il vero avvio è dato dal «Giornale de’ letterati d’Italia» (1710-1740), che, riprendendo l’appello muratoriano sulla necessità di istituire in Italia giornali, come quelli europei, capaci di informare sulle imprese e novità della «repubblica letteraria di Europa», venne, specie nel periodo di direzione di Apostolo Zeno, a corrispondere ai desideri precisi di un pubblico colto, cercando soprattutto una informazione imparziale, anche se poi (con grande interesse per noi) il giornale finiva per aprirsi a discussioni che giungono a volte sino a punti essenziali come le riportate pagine di discussione del pensiero di Vico. Ancor piú rivolto al lettore veneto colto sono le «Novelle della repubblica delle lettere» (1729-1762) che rappresentano un’espressione del grande mercato librario veneziano e per un trentennio costituiscono per noi un filo conduttore delle letture e degli interessi veneti e italiani, pur nella loro natura troppo astrattamente erudita e informatrice.

Ma alla metà del secolo anche a Venezia si inizia la serie di giornali piú simili ai giornali europei di informazione critica o alle «Novelle» fiorentine del Lami; giornali piú animati e di «tendenza», come la «Storia letteraria d’Italia» del gesuita Zaccaria e le «Memorie per servire all’istoria letteraria» (1753-1758) (redatte dallo Zanetti e dal Calogerà e sorrette dallo Seriman), legate soprattutto al conflitto fra giansenisti e gesuiti, e ricche di fresche pagine di argomento religioso: cosí, come su piano piú ecclesiastico ed ortodosso, ma venato di giansenismo è la «Minerva» (1762-1767), diretta dal Rebellini (ma sostenuta dal Calogerà e con influssi del gruppo bresciano capeggiato da Gian Maria Mazzuchelli) e particolarmente viva polemicamente nella battaglia con la «Frusta» e con il Baretti.

Nell’insieme questi giornali mantengono, malgrado sfumature e contrasti, una chiara preminenza agli interessi eruditi e religioso-teologici, mentre l’impostazione piú nuova e aperta, piú civile è quella del «Magazzino italiano», cosí interessante pur nella sua brevissima esistenza (1767-1768) e significativo come avvio, anche se ancora timido e frammentario, di quel che saranno i giornali del Caminer. Mentre entro limiti di giornale piú letterario e di compromesso, pur con i suoi spunti di interesse critico, si muove il «Giornale letterario dei confini d’Italia» o «Progressi dello spirito umano nelle scienze e nelle arti» (1780-1784), bruscamente interrotto dalla censura a causa di un aspro attacco al Cesarotti, ma esauritosi piú internamente per l’impossibilità di contenere entro il semplice terreno informativo (secondo lo schema di avvio del «Giornale de’ letterati d’Italia») quei temi culturali che, anche quando si adagiassero nella loro piú usata e tradizionale fisionomia, spontaneamente e necessariamente si trasferivano su di un ben piú mosso piano polemico.

Nel frattempo altre due linee giornalistiche si vengono svolgendo. Quella dei giornali scientifici («Giornale di Medicina» – 1762-1774 –, «Giornale d’Italia spettante alla scienza naturale e principalmente all’agricoltura, alle arti ed al commercio» – 1764-1770 –, «Nuovo giornale d’Italia spettante alla scienza naturale e principalmente all’agricoltura, alle arti ed al commercio» – 1776-1784 e 1789-1797 –), ricchi di temi essenziali per la vita veneta (battaglia contro Roma legata alla «pubblica felicità» e alla difesa dell’economia e della legislazione dello stato veneto, condizione sociale de’ contadini e loro rapporti con i padroni) variamente motivati da ragioni paternalistiche-religiose e politiche-illuministiche e declinanti, nell’ultima redazione del «Giornale d’Italia», in piú specialistico interesse agricolo, ma certo, nell’insieme, contribuenti, con la loro larga diffusione giornalistica, al formarsi di un clima culturale in cui si muoveranno i fogli del Caminer e del Compagnoni.

L’altra è quella delle gazzette piú legate alla vita e alla cronaca della città e avviate dall’esperienza gozziana della «Gazzetta veneta», con il suo senso della realtà e la sua sfiducia nella «filosofia» (novità e limite dell’esperienza gozziana). Ma il Gozzi rompe presto il suo piú vivo contatto col pubblico e il passaggio dalla «Gazzetta» all’«Osservatore» «rivela il rapido sfumare di quei riferimenti concreti che erano dapprima piú frequenti» e il rifugiarsi progressivo dell’autore nel mondo dell’allegoria e della malinconia che dominano (insieme ad una piú aperta polemica conservatrice contro il secolo illuminato) nel «Sognatore italiano», 1768, che il Berengo attribuisce, sulla scorta della Saccardo, al Gozzi e di cui rileva il singolare fascino poetico. Solo, piú tardi, il Piazza con la «Gazzetta urbana veneta» (1787-1798) riprese l’impegno gozziano iniziale realizzandolo, all’insegna della «curiosità», in un giornale che è «l’unico foglio veneziano di tutti i giorni che ci sia giunto dal Settecento, con i silenzi e le curiosità che il giornalista accettava dall’ambiente e, con fedeltà, rendeva suoi».

Il fatto nuovo nel giornalismo veneziano è però rappresentato dai giornali di Domenico Caminer, primo vero giornalista professionale, prima con l’«Europa letteraria» (1768-1773), poi con il «Giornale enciclopedico» (1774-1782), in cui si fa piú forte la presenza stimolatrice e irrequieta della figlia, Elisabetta Caminer Turra, appoggiata dal Fortis e dallo Scola, in direzione di un giornale sempre piú teso a combattere «i pregiudizi», attraverso articoli e saggi originali in cui campeggia la risoluta attività dello Scola, la piú matura e piena testimonianza del pensiero illuministico del Veneto. Persa la collaborazione dello Scola, ridotta la forza combattiva della stessa Elisabetta, piú scialbe e stanche risultano le ultime incarnazioni del giornalismo dei Caminer: «Nuovo giornale enciclopedico» e «Il Nuovo giornale enciclopedico d’Italia» che giunge fino al ’96.

In questa ultimissima fase del giornalismo veneziano settecentesco si fa luce, dal 1789 alla direzione delle «Notizie del mondo» (1779-1812), il Compagnoni, il noto giacobino, non ancor qui chiarito in tal senso, ma vivo e nuovo nell’offerta di «prospetti» degli avvenimenti europei nei loro rapporti e nei loro nessi d’interdipendenza, e certo comunque assai aperti, pur nella prudenza, di fronte agli avvenimenti francesi. Questi poi agiscono in genere come spinta ad una piú decisa presa di posizione culturale e politica, prevalentemente di tipo reazionario, ma non senza contrasti significativi come nei giornali «Il Nuovo giornale letterario d’Italia» del Rubbi, «Il genio letterario d’Europa» del Fortis, le «Memorie per servire alla storia letteraria e civile» dell’Aglietti.

Come accennavo all’inizio, una maggiore attenzione allo sviluppo del gusto, specie nei giornali della Caminer Turra e del Rubbi, avrebbe fruttato un arricchimento piú preciso di prospettive anche in quel senso. Cosí come ci sarebbe forse da discutere sull’intera immagine gozziana, del resto interessante, e sul mancato rilievo di certe componenti di bizzarria fra realistica e surrealistica della «Gazzetta».

Ma l’interesse centrale dell’antologia è storico-culturale e, mentre porta eccellenti contributi alla caratterizzazione delle varie fasi del giornalismo veneziano, aiuta lo studioso anche per la sicurezza dei riferimenti di personaggi della vicenda giornalistica veneziana e ricostruisce nitidamente retroscena redazionali, districa problemi di attribuzione.

Illuministi italiani, V. Riformatori napoletani, a cura di Franco Venturi, Ricciardi, Milano-Napoli, 1962, pp. XXI-1279.

Questo poderoso volume viene ad aggiungersi a quello, pure eccellente ad opera del Venturi, dedicato agli illuministi lombardi e toscani, ma direi che esso si impone al lettore forse ancor piú di quello per la ricchezza di testi spesso meno noti, per la ingente mole di note, per l’impegno e vastità delle note introduttive (veri e propri saggi monografici, fra cui spicca quello del Filangieri per ricchezza di analisi e per la ricostruzione della diffusione dell’opera filangieriana in tutta Europa: che è poi studio molto coerente alla prospettiva venturiana di una storia dell’illuminismo italiano come parte attiva dell’illuminismo europeo), per il saldo sostegno storico generale che, riepilogato nella breve introduzione, si espande nelle ricordate note introduttive e ulteriormente si raccoglie in una misura di saggio sintetico nell’articolo che presentiamo nella scheda seguente.

Nel complesso un contributo imponente e rinnovatore, frutto di un lavoro intelligente e minuto di cui non saremo mai grati abbastanza alla laboriosità e all’ispirazione storica del Venturi.

Rimandando alla scheda seguente per l’esposizione piú articolata del quadro generale del movimento riformatore meridionale, va ricordata, come uno dei momenti piú caratteristici di quel saggio e della introduzione al volume presente, la distinzione (non contrapposizione astratta ché poi il Venturi tende a ritrovarvi comuni elementi nella comune derivazione genovesiana) fra la corrente piú utopistica, e feconda insieme, dei Filangieri, Pagano, F.A. Grimaldi ecc. («che costituirono il piú bel frutto del Settecento meridionale, il momento di fulgore e di gloria della cultura napoletana, e che crearono tutta un’ideologia diretta contro il feudalesimo, sospinta da una vigorosa volontà di libertà e di eguaglianza, nutriti da tutta la cultura del tardo illuminismo francese, cosí come dalle nuove speranze che cominciavano ad albeggiare oltre oceano, in America») e quella piú provinciale, piú legata a problemi concreti ed immediati (Galanti, Palmieri, Delfico), capace poi di avere una continuazione nel riformismo murattiano e nella sua eversione della feudalità. È importante anche l’osservazione secondo cui gli illuministi meridionali trovarono nella tradizione troppo giuridica di Giannone e Tanucci uno degli ostacoli alla loro opera di riforma tecnica, economica della realtà meridionale.

La ricca antologia si articola idealmente secondo questa distinzione e questo rapporto che si diparte dal Genovesi con le sue istanze piú teoriche e con la fortissima carica pragmatica. Che è quella che alla fine forse piú colpisce e dà il tono alla sua forza di promotore e piú mi sembra rompere, dove la pagina si fa piú pragmatica, la stessa tante volte criticata scrittura paludata di boccaccismo: si vedano le pagine piú vive del discorso Il vero fine delle lettere e delle scienze, specie alle pagine 100-102, tutte imperniate sul tema della ragione che agisce sol quando dall’«astratto intelletto» passa al «cuore» e alle «mani», e che «non è utile se non quando è divenuta pratica e realtà, né ella divien tale se non quando tutta si è diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come nostra sovrana regola, quasi senza accorgercene». Pagine tutte illuminate dall’altissimo impegno consapevole del riformatore: «sacrifichiamo una volta la seduttrice e vana gloria della astratta speculazione al giusto desiderio della parte piú grande degli uomini, i quali ci voglion men contemplanti e piú attivi».

Molto giuste e coerenti con la volontà del Venturi di presentare esperienze e personalità vive (donde anche la ricchezza dei rilievi psicologici nelle note introduttive) sia la sottolineatura dell’umanità dei singoli personaggi pur sempre storicamente corredata (e si pensi almeno alla stimolante definizione «del sogno di virtú e di gloria del Filangieri cristallizzato nella visione di un ordine eterno della umana società, fra elementi di ideologia massonica ed elementi neoclassici della sociologia illuministica», p. 615), sia l’inclusione degli scritti autobiografici del Genovesi, del Longano, del Galanti e di un notevole numero di lettere del Genovesi, del Filangieri, del Pagano (oltre alla lettera del Galanti al Voltaire pubblicata dal Rotta nel n. 1 di quest’anno della nostra rivista).

Franco Venturi, Il movimento riformatore degli illuministi meridionali, «Rivista storica italiana», LXXIV, 1962, 1, pp. 5-26.

In questo denso saggio il Venturi offre una delineazione del movimento riformatore meridionale, dopo il 1734, piú ampia (e insieme piú folta e articolata) di quanto non sia la breve e pur succosa introduzione del volume antologico sopra schedato. Se il punto di partenza è l’instaurazione del regno borbonico, la trasformazione di quelle iniziali aspirazioni e speranze in un concreto movimento si lega ad una precisa personalità, quella del Genovesi intorno a cui si muove la cultura napoletana degli anni ’40, quando, esauritasi la doppia linea del cartesianesimo e del platonismo, e l’efficacia del Vico e del Giannone (che saranno riscoperti piú tardi dalla seconda generazione dei riformatori illuministi), le esigenze di azione e i riferimenti ai pensatori e alle situazioni europee si precisano in maniera del tutto nuova. Genovesi vi portava un programma preciso (adeguato ai bisogni del paese ed insieme perfettamente al corrente del piú avanzato pensiero europeo), messo alla prova e stimolato dalla grande esperienza della carestia ed epidemia del 1764, che mise piú crudamente in luce il contrasto fra intenzione e realtà nella condotta statale, lo squilibrio fra la capitale e la provincia, tra i pochi privilegiati e le moltitudini miserrime, tra colti e incolti. Da qui la necessità per il Genovesi di un programma di istruzione e di educazione pubblica, e la polemica con i legulei, il clero e la nobiltà, l’appello alla classe intermedia e ai suoi rappresentanti colti per una società tutta economicamente operosa con la riduzione al minimo delle attività burocratiche e amministrative.

Gli allievi di Genovesi, la seconda generazione dei riformatori illuministi, riprenderanno il programma del maestro impegnandosi anzitutto nell’esplorazione minuta della realtà: l’opera di Domenico Grimaldi per la Calabria, l’opera di Palmieri per la Puglia (o quelle minori di un Domenico Briganti e di un Giovanni Presta), l’opera del Longano, del Galanti sino allo Zurlo e al Cuoco per il Molise, di Delfico e Dragonetti per gli Abruzzi. Sicché verso l’80 in ogni città, in ogni centro si avverte la vita di ricerca e di studio che lega nobili ed ecclesiastici illuminati a professionisti e a studiosi borghesi, anche se le loro iniziative (attraverso le logge massoniche e le società agrarie) non sembrano sufficienti ai loro compiti e la spinta piú generale, filosofica ed utopica insieme, viene ancora da Napoli dove fermentano gli elementi piú generati dall’insegnamento del Genovesi e si incontrano con gli influssi piú vivi di altri prosatori europei e con la ripresa di elementi vichiani. A Napoli opera un vasto gruppo intorno ai fratelli Di Gennaro e, per due anni (’83-84), è attiva una rivista, la «Scelta miscellanea», con una matrice piú letteraria (che, penso, andrebbe comunque meglio considerata in un’epoca in cui al Nord i letterati guardano a Napoli come al centro del «facilismo meridionale» e della piú passiva resistenza metastasiana in poesia) da cui si distacca il gruppo piú ardito, piú apertamente illuministico e massonico con al centro Filangieri e Pagano, in cui le idee «nascono da una sempre piú accentuata impazienza, da un sempre piú amareggiato scontento nel vedere rinviata di anno in anno, di occasione in occasione, la tanto ardentemente sperata riforma», mentre in Pagano e in Francescantonio Grimaldi si sviluppa il tentativo di inserire le idee e le aspirazioni del gruppo in una vasta visione dello sviluppo della civiltà, con una loro originale riscoperta del Vico.

Ma anche fra ’82 (data della formazione del Supremo Consiglio delle finanze) e ’94 (anno di chiusura di ogni tentativo di riformismo borbonico) lo strumento d’azione, lo stato, si dimostrava pur sempre inefficace, arretrato, debole e il tentativo dei riformatori meridionali si svolgeva troppo all’«undicesima ora». E l’opera di uomini come il Galanti e la breve fioritura di riviste come l’«Analisi ragionata de’ libri nuovi» e il «Giornale letterario di Napoli» con i piú intensi scambi con le altre terre italiane non bastarono a vincere le resistenze, le inerzie e poi la coscienza reazionaria, di fronte agli avvenimenti francesi, del potere centrale.

La terza generazione, quella dei protagonisti del ’99, risentí dell’esperienza del riformismo settecentesco, ma essa esula dalla precisa vicenda di Genovesi e dei suoi allievi che il Venturi ha voluto evocare in questo saggio, che costituisce un mirabile abbozzo di un capitolo fondamentale della storia dell’illuminismo italiano con precisi nuclei di idee e di rapporti fra idee e fatti e con una scansione illuminante di fasi e di date. Come sempre Venturi ci aiuta a vedere piú chiaro.

Salvatore Rotta, Idee di riforma nella Genova settecentesca e la diffusione del pensiero di Montesquieu, «Il movimento operaio e socialista in Liguria», VII, 1961, 3-4, pp. 205-284.

In questo lungo e documentatissimo saggio il Rotta porta nuovi interessanti contributi alla conoscenza e interpretazione della situazione politica e culturale della Genova settecentesca. La prima parte dello studio riguarda il progetto di riforma del governo genovese del De Soria (le Notti alfee del ’48 che il Rotta si propone di pubblicare per intero) in cui il problema della riforma delle strutture politiche si lega con il problema del rinnovamento culturale del paese (come era già apparso necessario, venti anni prima, a Gian Luca Pallavicini) e si precisa anche in una coraggiosa proposta di soluzione del problema della Corsica. Ma nulla fu realizzato, anche se fra il 1759 e il ’68 il Celesia fu incaricato di stendere un progetto di costituzione. Solo nel 1794 si ebbe una violenta agitazione, nel gran Consiglio, dei nobili poveri, che finí per agire come elemento dissolutore dell’ancien régime. Un altro capitolo dello studio del Rotta è dedicato alla circolazione delle idee illuministiche in seno alla nobiltà maggiore: caso del Durazzo cui vengono dedicati l’opera del Tosi, Lo spirito dell’umanità e la presente felicità dell’uomo e delle nazioni, e il Saggio del patriottismo civile di D.F.L.M.C., Genova, 1785, o caso attivo di G.B. Grimaldi con il suo Ragionamento teorico-pratico sopra le cagioni, gli abusi e i rimedi della mendicità, e di G.B. Pini con la sua memoria presentata al concorso mantovano dell’82 (edita recentemente dal Catalano) e con quelle presentate alla «Società patria per le arti e le manifatture» di Genova che provocarono reazioni e sviluppi notevoli anche in quell’ambiente degli scolopi sul cui insegnamento assai avanzato e permeato di elementi montesquieuiani il Rotta riporta l’attenzione, passando poi a ricercare la presenza di Montesquieu specie nel nuovo periodo democratico. Tutto il saggio è poi arricchito di note interessanti, utilizza documenti spesso inediti o poco noti e ci fa desiderare che il Rotta possa nel futuro stendere una vera e intera storia della cultura politica e ideologica genovese nel Settecento.

«Giornale degli amici della libertà» (1797-99), a cura di Gilberto Finzi, Mantova, Amministrazione provinciale, 1962, pp. XXIV-198.

Per quanto si tratti di un giornale assai limitato dalle capacità intellettuali e culturali dei suoi compilatori, e quindi privo della problematica politica e ideologica che caratterizza un «Monitore milanese» o un «Genio democratico» per la presenza di uomini come Foscolo o Gioia, trovo non inutile la ristampa di questo giornale mantovano per la conoscenza di una pubblicistica minore e provinciale nell’epoca della Cisalpina, per la valutazione di caratteri persino stilistici dell’«entusiasmo» patriottico-giacobino, nonché (secondo le linee di presentazione assai lucida che ne fa il Finzi) per la piú precisa conoscenza delle vicende di una precisa città nella dinamica tra forze retrive e patriottiche e, nell’ambito di queste ultime, fra posizioni piú avanzate e posizioni moderate, fra modi di collaborazione degli elementi progressivi locali e il governo militare francese nella situazione particolarmente difficile di Mantova ai confini fra zona francese-italiana e la zona ceduta all’Austria, con le ripercussioni di Campoformio e i timori di una simile sorte del territorio mantovano. L’introduzione del Finzi precisa assai bene la storia del giornale, del suo passaggio da periodico rivoluzionario a organo ufficioso di informazione, delle sue fasi, prima di opposizione alla maggioranza moderata, poi di organo dell’amministrazione di cui i compilatori divengono compartecipi, infine di piú grigio foglio di informazione quando il giornale riprende la sua pubblicazione dopo la sospensione decretata dal generale Miollis in seguito alle notizie riportate nel giornale circa l’ammutinamento delle truppe francesi a causa del mancato pagamento del soldo e l’imposizione del Miollis di una tassazione straordinaria dei cittadini mantovani.

Se per il tono della pubblicistica patriottica sono significative certe goffe narrazioni di feste patriottiche e in genere la ricerca di un linguaggio piú adatto ai tempi nuovi tra verve polemica ed enfasi plutarchiana e tacitiana in mani piuttosto inesperte, nei limiti già accennati di una problematica minore e poco approfondita, saran da segnalare comunque certi pezzi di «varietà» come quello sulla inutilità di una educazione umanistica-retorica e la necessità di una nuova istruzione pratica e tecnica delle classi popolari.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 66°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1962.

Bruno Brunelli, Pietro Metastasio, in Orientamenti culturali. La letteratura italiana. I minori, III, Milano, Marzorati, 1962, pp. 1941-1958.

Il saggio metastasiano scritto dal noto curatore delle opere metastasiane nella collezione dei Classici Mondadori si presenta come un’accettabile esposizione della vita del Metastasio, mentre è assolutamente insufficiente per quanto riguarda la sua opera poetica e la storia della sua fortuna. Aggiungerò solo (poiché in questo saggio non vi è neppur la premessa di una possibile discussione critica) che non so come si possa dire per l’Isola disabitata del 1753 che essa «riecheggia motivi di Paul et Virginie di Bernardin de Saint-Pierre e dell’Émile di Rousseau», se l’Émile è del ’62 e il Paul et Virginie è del 1787.

Aldo Scaglione, Francesco Algarotti, in Orientamenti culturali. La letteratura italiana. I minori, III, Milano, Marzorati, pp. 1959-1971.

In questo breve saggio algarottiano centrata risulta la figura dello scrittore settecentesco come letterato illuminista e maestro del saggio, e giusta è senz’altro la ripulsa del vecchio modulo dello scrittore «infranciosato». Ma l’articolazione della figura dell’Algarotti meritava di esser maggiore, anche in un saggio impostato in forma divulgativa, secondo la forma prevalente in questa parte settecentesca della collana Marzorati: non solo si poteva considerare piú nettamente l’interesse del critico e del pensatore e mediatore di motivi estetici, ma si poteva insistere sulla centrale novità della polemica algarottiana a favore di una letteratura moderna e sull’importanza culturale della sua divulgazione della teoria newtoniana in rapporto ad una generale lotta culturale contro il conformismo a cui finiva per legarsi ormai il cartesianismo, con implicazioni generali che sarebbe state bene mettere in luce pur mantenendo la precisazione dei margini e dell’orientamento piú letterario dell’Algarotti di fronte all’illuminismo vero e proprio (e in proposito considerando anche i suoi rapporti con la civiltà letteraria arcadica nella sua variante bolognese e gli elementi di gusto rococò del suo classicismo).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 66°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1962.

Antonio Genovesi, Autobiografia e lettere, a cura di Gennaro Savarese, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. XLVI-633.

Ottima è stata l’idea del curatore e del direttore della collana, il Muscetta, di raccogliere in un volume, destinato a vasta diffusione, alcuni degli scritti piú significativi del Genovesi: l’autobiografia, una scelta di lettere familiari, il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, il Ragionamento sul commercio in universale, il Ragionamento sopra l’agricoltura, le Lettere accademiche e lo scritto Dello stato e delle naturali forze del regno di Napoli per rispetto alle arti e al commercio.

I testi, sobriamente commentati, sono preceduti da un’ampia introduzione informata ed acuta, che punta sulla conversione del Genovesi dalla filosofia teologica all’economia (fra il ’48 e il ’54) come episodio fondamentale nella storia dell’illuminismo napoletano e assimilabile, per i suoi effetti rivoluzionari, al ritorno a Napoli, nel 1649, di Tommaso Cornelio. Con quella conversione, mentre si relegava alla periferia della vita intellettuale ogni forma di letteratura pura e di erudizione, di filologia fine a se stessa, gli studi di economia divenivano il fulcro di un nuovo umanesimo che nella religiosità evangelica e nell’umanitarismo settecentesco dell’autore aveva avuto le sue premesse etiche, e trovava le sue ancelle nella filosofia, storiografia, etnologia e scienze naturali: tutto veniva appoggiato ad una presa di coscienza storica della importanza dell’autonomia raggiunta dal regno di Napoli. Oramai in crisi il cartesianismo ad opera del metodo induttivo scientifico newtoniano (con l’interdipendenza di filosofia e fisica), il Genovesi portò nella cultura napoletana il frutto di una forte conoscenza degli inglesi con l’inerente polemica contro l’estremismo dei francesi. Della evoluzione genovesiana l’autore traccia poi un quadro duttile e sicuro, per passar poi a precisare il carattere dell’economia genovesiana basata su di una impostazione etico-politica e sulla sua esperienza del rapporto della scienza con le concrete esigenze e bisogni dell’uomo. Entro i limiti del dispotismo illuminato (tout pour le peuple, rien par le peuple) il Genovesi portò poi una singolare novità scientifico-pratica nel suo studio delle precise condizioni economiche delle singole province del Regno e soprattutto delle campagne, e nella sua attenzione al nesso fra agricoltura, commercio e industria (sicché le sue oscillazioni tra mercantilismo e fisiocrazia si spiegano con l’attenzione alle varie situazioni del Regno industrialmente arretrato e con l’esigenza di una libertà per il commercio e di un protezionismo per l’industria). Al sommo dell’attività genovesiana va posta poi la sua polemica contro il latifondo e i proprietari non produttori di ricchezza con un ridimensionamento del regalismo giannoniano in una fase piú concreta (recupero dei proprietari attivi, recupero della Chiesa e dei frati se divenuti amici del popolo). Il documento piú alto della volontà genovesiana di un connubio fra lettere e scienze sono le Lettere accademiche il cui toscanesimo si riduce poi nelle familiari, fondamentali a rendere il fascino vivo della personalità genovesiana. E certo, senza neppure iniziare qui un discorso diretto sul Genovesi e sulla sua prosa, proprio le lettere familiari sono quelle che piú confortano l’immagine alta di questo grande tecnico e pensatore alimentato da tanta concretezza e da cosí profonda concreta moralità (sulla grande linea che parte da Giannone e conduce a De Sanctis nella storia di un filone eccezionalmente alto della moralità della cultura meridionale).

Carlo Muscetta, Saverio Bettinelli, in Orientamenti culturali. La letteratura italiana. I minori, III, Milano, Marzorati, 1963, pp. 2013-2041.

Questo vasto saggio del Bettinelli è contraddistinto energicamente, con un impegno che è tipico dell’ingegno critico del Muscetta, da una tesi centrale, e in gran parte nuova e importante sia per il Bettinelli sia per piú larghe linee della storia del Settecento italiano: la volontà del Bettinelli gesuita di una organizzazione culturale che avesse per centro la Roma papale. Tale posizione, che il Muscetta vede come anticipazione e fondazione del neoguelfismo (e di cui trova primo scolaro Alessandro Verri: cosa che occorrerebbe meglio precisare, come l’idea che il Verri avrebbe risentito direttamente, negli stessi scritti giovanili del «Caffè», dello stile polemico del Bettinelli), verrebbe enucleandosi piú chiaramente nelle posizioni piú tarde del Bettinelli secondo una linea di svolgimento che avrebbe comunque i suoi inizi ben percepibili sin dalle Virgiliane come battaglia di retroguardia del «gesuita illuminista» (formula già da me adoperata), che nell’apparente violenza novatrice confortava una interpretazione conservatrice della letteratura e della cultura italiana che venne poi meglio chiarita nelle piú lucide e importanti Lettere inglesi.

Alla luce di questa posizione centrale il Muscetta rivede poi tutta l’opera del Bettinelli riconducendola ad una forte limitazione di fondo, sia nella prospettiva di un confronto del «letterato» bettinelliano con quello alfieriano (e qui non si può che consentire energicamente), sia nel confronto con i veri novatori del «Caffè». Ed anche qui si consente agevolmente e toto corde. Ma fu poi tutto e solo un equivoco la simpatia di quegli scrittori per il Bettinelli (fino a considerare la possibilità di una sua collaborazione al «Caffè»)? Ed era tutto un inganno cieco la simpatia per lui da parte del Voltaire?

Io penso (a parte il fatto che dal mio punto di vista le stesse Virgiliane hanno motivi notevoli di giudizio illuministico e insieme foriero di gusto preromantico: il caso stesso di Dante su cui Bettinelli dà indicazioni entusiastiche sugli episodi che piú i romantici amarono, e con l’osservazione che l’avvio alla discriminazione poi tanto piú tarda e diversa del Croce non può essere intesa che storicamente e non come il puro inizio di un errore deleterio) cosí come l’Entusiasmo comporta giudizi, scelte e definizioni di forte sapore nuovo che l’energica interpretazione del Muscetta (teso a ritrovare nella letteratura l’organizzazione culturale con una attribuzione di consapevolezza molto maggiore a posteriori) vada assunta con tutte le riserve che lo stesso grosso problema di una politica di cultura dei gesuiti (lo stesso Muscetta dice, come io piú volte ho detto, che la storia dei gesuiti nel Settecento italiano è ancora tutta da fare) non può non suscitare. Certo i gesuiti agirono con inevitabili forme di remora conservatrice, ma fin dove non furono a volte trascinati dall’onda del tempo e non finirono per collaborare a una storia diversa da quella che la loro posizione centrale poteva auspicare? Dico questo per le posizioni ed opere del Bettinelli fino all’Entusiasmo, ché poi con la rivoluzione francese tutto diventa piú chiaro e gli stessi spunti preromantici del Bettinelli si cambiano in un piú rigido neoclassicismo conservatore (non certo tutto il neoclassicismo fu tale) e cosí il suo acume critico (comunque molto notevole) si fa sostegno di precise posizioni reazionarie e di una concezione disimpegnata della letteratura (un disimpegno che celava poi un diverso impegno reazionario) ben rivelato nel noto giudizio sull’Alfieri, secondo quanto io mostrai nella mia nota del 1957.

Ma, ripeto, vi fu pure un periodo del Bettinelli piú complesso, fra remore e adesioni illuministiche (donde anche i richiami dei superiori, documentati dal Genero), e insomma la presenza del Bettinelli nella cultura di secondo Settecento non può risolversi solo in una precisa volontà di organizzazione culturale di tipo neoguelfo.

I giornali giacobini italiani, a cura di Renzo De Felice, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. LX-546.

Questo nuovo volume dell’ottima collana di antologie di periodici italiani e stranieri di Feltrinelli porta un eccellente contributo alla conoscenza del difficile periodo «rivoluzionario» e «giacobino» italiano (giacobino con tutta l’approssimazione del termine di fronte alla varietà di posizioni riscontrabili negli stessi articoli di giornali qui riportati), una volta troppo depresso fra accuse di utopismo e rilievo solo di motivi prerisorgimentali unitari e ora sempre piú storicizzato (gli studi del Cantimori, del Saitta, del Venturi ecc.) nella sua complessa natura di adesione, svolgimento, adattamento delle idee della rivoluzione francese alla situazione italiana, con conseguenze di reazione al vassallaggio e all’utilizzazione da parte dei francesi, e specie del direttorio alla cui politica vennero opposti piú «giacobine» istanze di ortodossia rivoluzionaria e motivi indipendentistici come sviluppo degli stessi ideali della rivoluzione. La storia del periodo rimane pur sempre difficile e complicata dall’accavallarsi di motivi nel breve periodo rivoluzionario, prima del colpo di stato napoleonico, e dalla vita latomica di sette indipendentiste, come sa anche chi studi solo l’attività foscoliana in questo periodo. Lo stesso curatore del volume nota infatti che, allo stato attuale degli studi e del reperimento della documentazione, il quadro dei giornali che egli offre non può ambire a compiutezza, sí che egli ha preferito, utilizzando solo 35 sui 140 giornali da lui elencati in appendice, ricavare soprattutto una raccolta di articoli disposta secondo grandi problemi comuni alla pubblicistica democratica: problemi costituzionali e di pubblica istruzione; la politica economica e sociale; la politica religiosa: il problema unitario; la cronaca politica; il costume e la mentalità, la sensibilità rivoluzionaria.

In complesso il materiale raccolto è insieme fortemente stimolante alla lettura diretta e assai funzionale alle osservazioni e alle linee stabilite dal De Felice nella sua introduzione. Questa, dopo avere delineato i caratteri del giornalismo italiano prima della rivoluzione e quelli del giornalismo francese in Italia e del giornalismo dell’esulato (e, di contro, quelli della pubblicistica reazionaria non priva a volte di motivazioni a loro modo democratiche), si amplia nell’esame del giornalismo rivoluzionario italiano sia nel suo carattere di minore informazione di quello germanico (ma come quello limitato da un’astrattezza relativa alla incapacità della borghesia italiana e tedesca a divenir classe dirigente), sia sui modi di diffusione dei giornali, del loro rapporto con le masse popolari non cosí refrattarie, come spesso si è detto, alle nuove idee, ma certo scarsamente raggiunte da una pubblicistica spesso troppo astratta e classicheggiante o incapace di giungere al cuore delle esigenze popolari o di non ferire il loro sentimento religioso (ad esclusione dei giornali come Il termometro politico e della pubblicistica di un Ranza, o della Fonseca Pimentel). Insomma i gruppi borghesi piú avanzati non seppero concretamente differenziarsi dal resto della borghesia se non nella scelta delle alleanze politiche: media e grossa borghesia appoggiate al direttorio, borghesi piú avanzati appoggiati agli ultimi giacobini e all’opposizione d’oltralpe. Sicché anche l’unitarismo di quegli anni, pur contenendo già una notevole carica spirituale, fu lontano da quello squisitamente volontaristico e pregno di consapevolezza e capacità di vita del Risorgimento. Esso fu sostanzialmente strumentale, e anche se in alcuni casi amò ammantarsi di ragioni etiche e letterarie, la sua realtà fu la sete di espansione della borghesia cisalpina desiderosa di disporre dei porti di Genova, di Venezia, di Ancona.

Osservazioni interessanti e in gran parte vere, anche se penso che esse finiscano per ridurre di troppo l’importanza di quella «notevole carica spirituale» di cui pure l’autore parla e che può ben riscontrarsi come non puramente strumentale nel caso del Foscolo, il cui stesso classicismo repubblicano e indipendentista va compreso piú al modo con cui lo comprese un De Sanctis, mentre la sua avversione ai partiti (o meglio alle sette) – che si ritrova persino in certi articoli del Buonarroti – non mi pare senz’altro collegabile né ad una ambigua collaborazione all’autoritarismo napoleonico né ad una strumentazione dell’unitarismo ai fini economici della borghesia. Circa poi la paternità foscoliana dell’articolo sui partiti essa non mi sembra provata almeno come possibile dallo scritto del Vitale a cui il De Felice si appoggia.

Alberto Aquarone, Giansenismo italiano e rivoluzione francese prima del triennio giacobino, «Rassegna storica del Risorgimento», XLIX, 1962, IV, pp. 559-624.

Il vasto e complesso saggio dell’Aquarone mira soprattutto a mostrare la genesi polemica dell’indiscriminata equazione fra giansenismo e giacobinismo, luogo comune della polemica cattolica del tempo e poi motivo serpeggiante anche nella nostra storiografia contemporanea. Tale genesi si precisa soprattutto sotto la spinta degli avvenimenti rivoluzionari di Francia intorno al ’90, quando prese corpo la tesi reazionaria di una congiura eversiva (con lontane origini nella favolosa ipotesi del convegno giansenistico di Borgo-Fontana) dell’ordine religioso e politico-sociale: congiura avente al centro i massoni e collaboratori tutti i «philosophes» e i giansenisti. A tale interpretazione polemica l’Aquarone ricollega in qualche modo l’interpretazione moderna di una funzione precisa del giansenismo alla formazione di una coscienza laica liberale e democratica come premessa del Risorgimento.

Alla discussione e sostanziale negazione di tale interpretazione è dedicata la maggior parte dello studio dell’Aquarone che, dopo aver riassunto le varie posizioni del dibattito storiografico sul giansenismo italiano, solleva alcune precise obbiezioni: circa la confusione frequente fra giansenisti veri e propri e altri oppositori dell’ordine politico-ecclesiastico (pur riconoscendo che non è facile esattamente distinguere in molti casi fra giansenisti, filogiansenisti e cattolici illuminati), circa l’arbitrarietà di trasferire l’opposizione di tipo democratico dei giansenisti alla struttura autoritaria e monarchica della Chiesa sul piano propriamente politico, su cui i giansenisti rimasero piuttosto fermi nella richiesta al dispotismo illuminato di farsi braccio secolare della riforma ecclesiastica. Mentre essi di fronte alla rivoluzione francese si mostrarono in principio assai critici vedendo in essa la causa di una interruzione di un sano e pacifico movimento di progresso in Italia e la promotrice della diffusione di princípi irreligiosi e dannosi. Certo essi poi accolsero con favore le riforme ecclesiastiche culminate nello confisca dei beni della Chiesa e nella costituzione civile del clero come salutarono con gioia il principio della tolleranza religiosa, ma anche di questa limitarono le conseguenze di libertà di coscienza e di parità delle religioni e la paura di uno scisma portò la maggior parte di loro su posizioni ostili agli sviluppi rivoluzionari in Italia. Sicché, in fine, per l’Aquarone il contributo piú sicuro del giansenismo alla formazione di una moderna coscienza civile italiana consisté nella loro fede quasi illuministica nella potenza dell’istruzione. D’altra parte la stessa rivendicazione di una religiosità piú pura, di un’interiorizzazione del messaggio evangelico, di una maggior libertà della coscienza individuale in seno alla Chiesa, non fu opera solo dei giansenisti, ma di tutta una larga corrente spirituale cui parteciparono laici come ecclesiastici, cattolici di rigida ortodossia non meno di intelletti vicinissimi all’eterodossia di sapore protestante: corrente italiana, e non puro fenomeno di importazione, cosí come lo stesso giansenismo italiano, se pur non tutto autonomo, non fu una semplice passiva accettazione di quello francese e si configurò con un forte spirito di associazione che tuttavia, sotto la pressione della rivoluzione francese, venne a dissolversi pur lasciando vive e vitali, fino alla restaurazione ed oltre, alcune delle sue correnti, come quella del giansenismo ligure, accanto alla piú comune vicenda di esperienze individuali.

A questo discorso impegnativo vorrei, in questa sede, solo osservare che se alcuni giansenisti furono ostili alle idee e alla diffusione pratica della rivoluzione, molti furono invece ad esse aperti e collaboranti e che il rilievo della importanza del giansenismo nella formazione della nuova coscienza civile fu positivamente fatto, proprio nel triennio rivoluzionario, da parte dei patrioti giacobini, come può vedersi, ad esempio, nel caso di un articolo del «Termometro politico della Lombardia», Principi della rivoluzione lombarda, che faceva seguire, come promotori della disposizione del popolo milanese a «rigenerarsi», al gruppo del «Caffè» e al Parini, la «scuola del giansenismo»: «Ognun sa quanto lo spirito di questa sia analogo allo spirito della repubblica. I giansenisti conseguenti sono i soli teologi che abbiano la rara virtú di amare il governo francese. Ne sono una prova evidente le opinioni e piú le vicende di Tamburini e di Zola» (in I giornali giacobini italiani, a cura di R. De Felice, Milano, 1962, p. 319).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 67°, serie VII, n. 2, maggio-settembre 1963.

Antonio Piromalli, L’Arcadia, Palermo, Palumbo, 1963, pp. 206.

L’antologia della critica, che va da brani degli stessi arcadi a passi di recenti studi critici (sono 27 brani: e alcuni forse sono di troppo e spesso il taglio simile dei brani livella troppo tesi di ben diversa importanza e complessità), è preceduta da una vasta e ben informata storia della critica, che sostanzialmente appare però guidata da un’idea dell’Arcadia non molto diversa da quella romantica e desanctisiana, e che perciò porta a colorire piú vivacemente tutti i dissensi e la condanna tradizionale. Non che evidentemente si desideri una rivalutazione agiografica assurda (come quella iniziata dal Moncallero e che il Piromalli qualifica stranamente come «moderata»), né che si condividano il crociano conglobamento arcadico del ’700 o una continuità troppo tranquilla fra Arcadia e secondo Settecento. Anzi proprio una prospettiva piú storica mi sembrava che dovesse permettere di rifiutare i pericoli della posizione crociana senza perderne alcuni elementi importanti qui posti troppo in sordina o taciuti, specie nel quadro diretto dell’Arcadia che si presenta nel primo capitolo: il rapporto con il razionalismo e con elementi del distacco dalla civiltà barocca anche come senso della legge e della «pubblica felicità» (cosí chiara, ad esempio, in un Muratori che qui viene misurato troppo recisamente sul piano del pieno illuminismo), della socievolezza e della vita cittadina.

È chiaro che l’epoca arcadico-razionalistica è piena di remore e non è davvero coincidente con l’illuminismo, ma sbagliato è anche non avvertire il piano nuovo che essa implica rispetto alla civiltà barocca in crisi e l’avvio che in Italia pur vi si apre verso una civiltà piú moderna, una critica e un’estetica in chiaro avanzamento, una letteratura che cerca di tradurre esigenze culturali e sociali. Credo di avere indicato da tempo (e il Piromalli lo ricorda, ma insieme ne tiene scarso conto concreto) il tipo di sviluppo a fasi che si può proporre per il Settecento (e forse meglio il quadro si è precisato nel mio saggio Poetica e poesia nel Settecento italiano del 1962 e ora in L’Arcadia e il Metastasio, considerando insieme l’approdo arcadico nella poesia del Metastasio, che qui non appare calcolata e considerata fuori dei segni negativamente sbrigativi di qualche altro recente delineatore di poco meditati diagrammi settecenteschi, in maniera del resto assai diversa dalla valutazione dello stesso De Sanctis).

A quella proposta non penso che si possano cosí facilmente preferire i vistosi slogans di pura squalifica dell’epoca arcadica che nulla aggiungono ai vecchi schemi scolastici. Né certo si combatte una battaglia rinnovatrice prendendosela indiscriminatamente con l’Arcadia e il Metastasio senza capirne le ragioni, la funzione storica e la vitalità limitata, ma non priva di efficacia di fronte alla crisi della civiltà barocca e non inutile avvio di nuova letteratura e civiltà. Certo il Parini non è il Maggi, il Goldoni non è il Gigli o il Martello, ma chi conosce da vicino quegli autori non potrà non sentire che essi rappresentarono non solo personalità ed esigenze vive nella loro storia, ma avvii di tecnica, di mentalità, di esigenze, a cui quei maggiori autori e rappresentanti di una civiltà piú risoluta e nuova potevano pur guardare con interesse concreto. Cosí come fece del resto il Parini di fronte all’Arcadia con un giudizio che pur proviene dal poeta dell’illuminismo italiano e che sarebbe stato bene anche qui considerare adeguatamente.

Giovanna Gronda, L’opera critica di Antonio Conti, «Giornale storico dalla letteratura italiana», LXXXI, 1964, fasc. 433, pp. 1-37.

In questo ampio saggio, dopo aver sinteticamente esposto la storia del problema critico (puntando soprattutto sul vecchio ma equilibrato volume del Brognoligo che però comporta il grave avvio ad una riduzione del Conti a puro filosofo di estetica), la Gronda propone di studiare piú concretamente e unitariamente il Conti critico nel suo reciproco condizionamento di teorizzazione e sensibilità artistica: attraverso il critico si potrà arrivare ad una piú equilibrata interpretazione storica anche della sua importanza in campo estetico. E ovviamente un tale studio dovrà avvalersi dell’edizione completa degli scritti estetici e critici del Conti, ora in preparazione per la collana laterziana degli «Scrittori d’Italia».

La prospettiva di studio appare interessante ma, a mio avviso, la stessa attività critica ed estetica del Conti andrebbe riportata ad un livello piú complesso di studio di poetica secondo la mia indicazione di carattere generale riportata dalla stessa Gronda e secondo gli accenni fatti da me al Conti, nello svolgimento delle poetiche arcadiche e post-arcadiche, nella stessa relazione al Congresso di Magonza.

Nella esposizione della Gronda, che pur realizza alcune osservazioni utili e giuste (come quelle circa l’influenza del Gravina sul Conti e la maniera originale in cui questi ne ha risentito, e come in genere i rilievi dei momenti critici piú interessanti), mi pare mancante la considerazione del rapporto fra le idee estetiche, i giudizi critici e le prospettive di intervento personale del Conti: come nell’importante via del poeta-filosofo, che poi implica la valutazione molto interessante e della poesia filosofica e della prosa poetica di filosofi e scienziati. Da questa prospettiva piú attiva, fra volontà di propria e altrui poesia e orientamento pragmatico dello stesso passato, prendono maggior valore gli stessi giudizi critici, la rinnovata preminenza data a Dante sul Petrarca, la comprensione di Pope, l’alta valutazione del Furioso: che conta molto nella storia della critica ariostesca attraverso la piú alta ripresa foscoliana, malgrado le limitazioni moralistiche, mentre la diversità poetica di Tasso e Ariosto è ripresa di una posizione cinquecentesca di Orazio Ariosto, ma arricchita in un piú deciso rapporto al «fine». E quanto alle limitazioni severe sul Furioso non penso che sia accettabile quanto dice a proposito la Gronda: «vien fatto di pensare che tutte le lodi precedenti di questo stesso trattato mirassero solo ad assicurare l’apparenza di obiettività a questa condanna finale». Mi pare poi (e anche qui si rivela l’incertezza di una impostazione troppo distintiva di facoltà diverse: il critico, il teorico, il letterato attivo) che la Gronda finisca per risolvere il «condizionamento fra teorizzazione e sensibilità artistica», di cui aveva parlato in principio, in un reale e unico carattere di limite del primo elemento rispetto alla autenticità del secondo che si afferma quando può liberarsi dal primo. In realtà la mediazione e centralità di una prospettiva attiva, di poetica, rende piú complesso e insieme piú articolato e dinamico un simile rapporto.

Girolamo Gigli, Don Pilone, La sorellina di Don Pilone, Il Gorgoleo, a cura di Mauro Manciotti, Milano, Silva, 1963, pp. 350.

A questa edizione delle tre migliori commedie del Gigli il curatore ha premesso una bella, viva e penetrante introduzione che, inquadrato il teatro del Gigli nel problema del teatro arcadico, presenta un ritratto dell’autore senese, di cui rileva fra l’altro la capacità di partecipazione alla circolazione intellettuale del primo Settecento, specie col Gazzettino e la nuova carica storica del suo anticlericalismo. L’introduzione ripercorre poi l’attività teatrale del Gigli fermandosi in un piú ampio discorso per quanto riguarda il Don Pilone e l’incontro di Gigli con Molière (il suo debito con Molière è fatto consistere soprattutto nell’aver ricavato dal teatro di quello «l’intuizione dell’importanza di impostare, anche se talvolta in forma soltanto rudimentale, una commedia di caratteri al di fuori della tradizione dotta classico-cinquecentesca e dello stereotipo giocoso in maschera dei comici d’arte») e per quanto riguarda la Sorellina di cui rileva, con maggior insistenza di quanto sia stato finora fatto, la ricchezza dei personaggi minori ben individuati, che piú possono aver offerto stimoli al giovane Goldoni.

Guido Quazza, Alle origini dell’Italia moderna: il dibattito sul primo Settecento, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Lettere, Storia e Filosofia», Serie II, vol. XXXII, 1963, 1-2, pp. 11-30.

Alla luce dei riflessi delle tendenze nazionalistiche, fasciste e democratiche, il quadro del dibattito sul Settecento in genere e sul primo Settecento in particolare si presenta al Quazza come contraddistinto nell’ultimo cinquantennio dal superamento dello schema risorgimentale (secondo cui, fino al 1815 o al periodo napoleonico, tutto il Settecento faceva parte dell’età delle «preponderanze straniere»). Prima con la ricerca di una genesi tutta autonoma del moto di rinascita della nazione, libera da ogni influenza straniera, secondo la tesi del Natali e quella del Calcaterra, sempre piú accentuate in senso sabaudo-fascista dagli studi del Solmi, dell’Ercole, del Rota. Mentre a questa tesi si contrapponeva quella liberal-democratica della interpretazione europea del Settecento italiano (Omodeo, Salvatorelli, Maturi, con suggestioni gobettiane) piú puntata sulla cesura 1748. Dopo la guerra piú risolutamente si profilava, sulle orme di Gramsci, una nuova tesi che con diversissime esigenze spostava il punto decisivo della nascita di un’Italia moderna al triennio rivoluzionario e giacobino. Al rischio di una rivoluzione mancata, priva di ogni premessa, reagivano poi gli studiosi che il Quazza chiama i neomoderati (Valsecchi per i temi politici e Fubini per quelli letterari sulle orme del Croce) che tendevano a stabilire una sostanziale continuità del periodo fra gli ultimi anni del ’600, i primi del ’700 e tutto il secolo e i suoi esiti risorgimentali.

A tale tesi il Quazza oppone come «storico generale» l’esigenza di cogliere il momento e il modo in cui si incontrarono le idee di rinnovamento e le forze politiche e sociali desiderose di adottarle per dar l’avvio ad un meno arretrato rapporto fra società e Stato.

Dopo una rapida (e, nella sua sommarietà, suggestiva, ma sensibilmente approssimativa) verifica del fondo o conservatore o timido dei principali protagonisti del pensiero italiano del primo Settecento (e soprattutto del fatto che in essi non fu compiuto il passo fra il moralistico «darsi animo» e la sollecitazione concretamente articolata politico-economica), il Quazza propone una visione articolata del Settecento italiano: proposta che coincide con quanto io ho proposto piú volte di fronte alla tesi della continuità in campo letterario e culturale che fu anzitutto del Croce (priorità che il Quazza avrebbe dovuto ben accentuare, cosí come per la tesi della brusca cesura a metà secolo doveva essere ricordato, almeno in campo letterario, il De Sanctis) e con il quadro che ho presentato al congresso di Magonza (ora ripubblicato come saggio introduttivo al volume L’Arcadia e il Metastasio). Articolazione che, se si oppone alla continuità e alla stessa gradualità senza stacchi, è poi altra cosa da certi quadri a bianco e nero deciso, come si vede poi dalle osservazioni che anche in campo politico, economico e sociale fa il Quazza sul primo Settecento e che tanto piú si possono fare in campo culturale e letterario.

Le caratteristiche di preparazione del primo rispetto al secondo Settecento sono per il Quazza: maggiore autonomia dei singoli stati, miglior equilibrio della loro potenza, insediamento di dinastie direttamente legate con la piú avanzata realtà europea. Di fronte a queste condizioni accertate da tempo, occorre misurare il grado di movimento dell’economia e la natura delle forze che essa mette in moto: e su questa misura lo storico si impegna, utilizzando propri ed altrui lavori in una sintesi assai interessante che classifica gli stati italiani in tre principali gruppi: il gruppo del regno di Napoli e dello stato pontificio (dove minima è la rappresentatività dei ceti dirigenti politici, scarsa, anche se in progresso, la capacità tecnica del governo, modesta la coscienza della responsabilità verso i governati, statica la situazione economica); il gruppo delle repubbliche oligarchiche di Genova, Venezia e Lucca in forte decadenza, ma non senza qualche embrionale correttivo di maggiore vitalità; il gruppo costituito da Piemonte, Parma, Modena, Lombardia e Toscana, in cui «piú numerosi e confortanti sorgono i segni evolutivi», anche se in realtà assai diverso è il caso della Toscana e della Lombardia da quello del Piemonte in cui (alla luce delle stesse ricerche dirette dal Quazza nel suo noto volume) un primo avvio di riforme viene poi bloccato in un progressivo isolamento e conservatorismo.

In conclusione: nella prima parte del secolo si hanno avvii a un nuovo corso di rapporti fra cultura e politica, premesse a una maggiore autonomia dei sovrani e perciò anche a un piú vivo loro intervento nelle strutture interne dello Stato, germi di forze sociali interessate a modificare il vecchio assetto. Ma solo dopo il 1748 si compie quell’alleanza di cultura, sovrani e gruppi patrizio-borghesi intraprendenti che è la condizione prima dell’inizio delle riforme. Poi, al di là di questo convergere di idee e forze moderate, il triennio giacobino che «costituirà un esperimento eccezionale, un esempio di ciò che la società italiana non era in grado di fare, un traguardo per un avvenire ancor lontano».

Franco Venturi, Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, «Rivista storica italiana», LXXV, 1963, 4, pp. 778-817.

In questo nitido quadro il Venturi descrive e precisa la consistenza e i limiti di una corrente riformatrice romana, da altri esagerata e invece di scarso vigore e mancante di continuità, e tuttavia non priva di una sua importanza nel preparare i tentativi di riforme che affiorano anche nello Stato pontificio, nella seconda metà del Settecento.

Partendo piú che dal Nuzzi, come di solito si usa fare, da Leone Pascoli, che poté misurare la situazione impressionante dello Stato della chiesa anche in confronto con avanzati paesi europei conosciuti nei suoi viaggi, e dalla sua esperienza europea trasse un programma rigidamente protezionistico e addirittura proibizionistico, teso – fino al paradosso – alla creazione di un omogeneo mercato interno fortemente protetto da concorrenze estere (e a quella utopistica di una borsa sulla piazza del Campidoglio), il Venturi segue, sulla base del mercantilismo del Pascoli (poco ascoltato fra il 1720 e ’40 dai papi, ma destinato a una lenta, saltuaria, crescente affermazione), lo sviluppo della cultura romana a metà secolo, durante il pontificato di Benedetto XIV e il segretariato del cardinale Valenti Gonzaga, quando la Sapienza si aprí alla nuova scienza sperimentale, fu creato il «Giornale dei letterati» e venne appoggiato il commercio e lo sviluppo dei porti di Ancona e Civitavecchia. E in quell’ambiente, non privo di interesse per le cose economiche, si formarono due importanti economisti toscani, il Pagnini e il Tavanti, e pure il toscano Fabbrini ebbe relazioni romane e in particolare con quel banchiere romano Belloni la cui Dissertazione del commercio il Venturi considera interessante in rapporto alle aspirazioni riformatrici dell’epoca di Benedetto XIV.

Accanto ai primi accenni del dibattito fra mercantilisti e liberisti si veniva intanto precisando la posizione di coloro che proponevano anzitutto una trasformazione della campagna romana: come il cortonese Ridolfino Venuti che non fu solo archeologo e completò la tradizione locale dei riformatori.

Ma l’efficacia pratica di tale tradizione rimase assai limitata e durante il decennio di papa Clemente XIII (1759-1769) fu duramente arrestata, malgrado la spinta brusca della grande carestia del 1764.

Una certa ripresa dovrà cosí essere sollecitata dall’esterno, come fu il caso del capitolo XIII dell’opera Di una riforma d’Italia del Pilati, che nel 1767 invitava il papa a cambiare la politica romana, abbandonando le ambizioni mondiali e rivolgendosi ad una riforma dell’economia e della società romana. Il programma di riforma del Pilati (che stimolò anche un appello di Voltaire ai romani, estremistico, anticlericale e anticristiano) venne seguito dai riformatori romani che si volsero (sotto Clemente XIV) al problema economico prescindendo da ogni polemica religiosa: lo Scottoni, il Todeschi.

Con l’avvento di Pio VI, malgrado il piano di riforma ripreso dalla tradizione di Nuzzi, di Pascoli e di Venuti, non mancò la coscienza dell’immane compito da affrontare (chiara particolarmente nel Goudar), non mancò la diffusione di una propaganda agronomica (ad opera soprattutto di Luigi Riccomanni con il suo «Diario economico di agricoltura, manifattura e commercio») che trovò realizzazione in numerose società agrarie (da quella di Montecchio-Treglia, a quella di Corneto-Tarquinia, di Urbania, di Foligno e Macerata), in altri periodici di provincia, come l’«Agricoltore», a Perugia e Assisi, e in nuove opere dedicate alla trasformazione dell’Agro romano (fra cui l’opera del piemontese romanizzato Francesco Maria Cacherano di Bricherasio).

Ma il risultato di questa attività di proposte fu ben piccolo e di fronte alle nuove tendenze si ritornò invece, da parte ufficiale, intorno all’80, al vecchio programma mercantilistico e protezionistico ormai anacronistico, sia per ragioni finanziarie (il grande costo di una riforma agraria), sia per ragioni sociali (l’urto inevitabile con l’aristocrazia laica e religiosa), mentre al dibattito fra mercantilisti e fisiocratici la Roma di ultimo Settecento dava un notevole contributo nelle opere opposte del Vergani e del Corona.

Ciò che rimane ben certo, dopo la lettura di questo saggio, è il fatto che la volontà politica del governo pontificio era insufficiente e contraddittoria, inadeguata alle proposte dei riformatori pur presenti nella cultura romana settecentesca.

Franco Venturi, La conversione e la morte del conte Radicati, «Rivista storica italiana», LXXV, 1963, 2, pp. 365-373.

È un’interessante aggiunta al libro del Venturi su Alberto Radicati di Passerano (Torino, 1964) dovuta alla lettura che lo storico ha potuto fare solo recentemente del volume, uscito nel 1781, che il pastore olandese Franz Georg Cristoph Rütz scrisse sull’illuminista piemontese e soprattutto sulla sua conversione poco prima della morte (avvenuta il 24 ottobre 1737), presentata dal pastore protestante come significativo ammonimento ai deisti che si trovavano sulle posizioni ripudiate appunto dal Radicati in fin di vita.

Ora il Venturi riespone e precisa le condizioni e gli stimoli di questa conversione. Il Radicati, stanco, sfiduciato, gravemente ammalato, incontrò il protestante francese emigrato Daniel de Superville. E a questo egli aveva confidato il suo desiderio di riposare nel seno delle chiese riformate, concludendo cosí nel cristianesimo protestante la sua lunga evoluzione dal cattolicesimo al cristianesimo «puro», alle posizioni atee, libertine, materialistiche. Giunto poi all’Aja il 15 ottobre, venne visitato dal pastore Royer che gli chiese una risoluta e autografa sconfessione di tutti i suoi scritti anticristiani e successivamente altri atti faticosi e umilianti, compiuti in una situazione di debolezza e prostrazione cosí estrema che la stessa confessione appare quasi scritta sotto dettatura altrui.

La conclusione pratica e piú nociva per la cultura di tutta la vicenda fu il sequestro di tutte le copie degli scritti del Radicati e poi la scomparsa di un manoscritto miscellaneo con molti inediti che rimase nelle mani del Rütz e che per ora non è stato possibile ritrovare.

Carlo Gozzi, Opere. Teatro e polemiche teatrali, a cura di Giuseppe Petronio, Milano, Rizzoli, 1962, pp. 1202.

In questo volume vengono pubblicate, riproducendo il testo datone dal Masi, tutte le fiabe teatrali del Gozzi: in piú vi sono raccolti I due fratelli nemici, La tartana degli influssi invisibili, il Ragionamento ingenuo e sincero delle mie dieci fiabe e alcune rime polemiche e antigoldoniane (secondo il testo dell’edizione Colombani delle Opere gozziane).

La raccolta, utilissima, data la rarità ormai dell’edizione del Masi, è munita di brevi note esplicative e di una lunga introduzione ripresa e particolareggiata poi in brevi introduzioni alle singole opere.

Il discorso introduttivo punta sulla genesi occasionale delle opere gozziane, fra polemica e ripicco, sotto l’urgente spinta di un interesse pratico e sotto la piú costante spinta dell’accanita polemica del Gozzi contro la nuova cultura italiana ed europea, avversata sia per motivi morali e politici, sia per motivi linguistici. Polemica che il Gozzi non riesce, per difetto di cultura, a portare su di un piano profondo di princípi, mentre acutamente investe e scopre la nuova costanza ideologica anche sotto la veste letteraria, soprattutto nel nuovo teatro borghese del Goldoni, di fronte alla cui riforma la riforma del Gozzi volle essere una controriforma, mossa poi anche contro il teatro «lacrimoso». Tale controriforma si configurò prima in un ritorno allo spettacolo puro della commedia dell’arte (rinnovata però dall’attiva presenza dell’autore che non poteva affidare le sue intenzioni ideologiche al puro scenario) e alla sua mescolanza di comico o tragico: mescolanza riproposta dal Gozzi come compresenza gerarchica di personaggi tragici e comici secondo le diverse classi sociali e le loro diverse attribuzioni, e, coerentemente, come gerarchia di lingue e stili a seconda dei gruppi di personaggi nelle loro distinzioni sociali, con forti passaggi dal tragico e patetico al comico e al plebeo.

E la riuscita? La tendenza alla «fiaba filosofica» è soffocata continuamente dall’altra alla «fiaba tragicomica»: colpa della mancanza di una poetica coerente, quale invece aveva creato il Goldoni, ma colpa anche di «tutta la cultura e di tutta la società della quale il Gozzi è parte ed espressione, di quella società che come non seppe – non poté – dar vita a una forte e cosciente cultura illuministica, cosí non seppe – non poté – dar vita, per le stesse ragioni, a una forte e cosciente cultura antilluministica, quelle reazioni violente e vive che sono solo là dove sono azioni vive e pungenti».

Il teatro del Gozzi, fatto «per divertire senza far pensare», ebbe il suo successo contemporaneo e successivo proprio a causa della sua poetica e delle sue contraddizioni, delle circostanze e dei limiti in cui fu elaborato; e ora va valutato «come un episodio, sotto specie letteraria, di una battaglia culturale la cui serietà comporti anche la serietà di esso, pur con tutte le sue contraddizioni e tutti i suoi limiti». Ché il Petronio non intende discriminare una poesia che, «se anche sapessimo cos’è, non ci interesserebbe andar cernendo con avara ghiottoneria, né cerca di mistificarlo, questo teatro, secondo il gusto romantico di un tempo o quello decadente di oggi e di accettarlo passivamente per simpatie ideologiche o negarlo per ragioni anch’esse ideologiche, ma cerca di demistificarlo per intenderlo nelle componenti di storia, di cultura, di ambiente e di biografia che ne condizionarono la nascita e intende cosí che cosa esso fu in quel momento della civiltà italiana».

Il discorso del Petronio, pur riproponendo, nelle stesse frasi direttamente citate, interrogativi particolari e generali (basta puntare sul teatro per valutare il Gozzi senza tener conto delle Memorie inutili e della Marfisa bizzarra? di quale cultura e società fu parte ed espressione il Goldoni con la sua vera riforma se la cultura e la società veneziane erano incapaci di rivelazioni e reazioni? è proprio vero che il dilemma critico consiste fra l’andar cernendo con avara ghiottoneria la poesia e il definire l’opera artistica solo in forma storico-culturale?) si presenta certo come il piú interessante fra quelli che lo studioso ha offerto, in tempi recenti, su scrittori e periodi della storia letteraria settecentesca.

Silvana Colognesi, Shakespeare e Alessandro Verri, «Acme», XVI, 2-3, maggio-dicembre 1963, pp. 183-216.

In questo diligente e volenteroso saggio vengono studiate le traduzioni verriane inedite dell’Amleto e dell’Otello (1769 la prima, 1777 la seconda) e attraverso un’analisi ampia se ne ricavano giuste osservazioni sul modo di tradurre, sull’interesse del Verri per Shakespeare (chiamato «sorprendente mostro di bellezza e di difetti», ma anche «poeta sovrano» i cui «squarci nobili, che sono molti, sono il punto piú elevato della poesia ed i suoi difetti hanno pure certa stranezza e meraviglia che indica essere parto di un ingegno straordinario»), sulla nuova vivacità di tale interesse e di tale adesione chiaramente preromantica. Donde, pur entro un gusto generale di maggiore chiarezza, correttezza e verisimiglianza (e malgrado errori di incomprensione del testo) di aderenza classicistica e illuministica, deriva una piú facile adesione proprio nei passi piú suggestivi, passionali, cupi e a tinte forti, in cui il testo sollecita e a volte viene quasi a sua volta ulteriormente sollecitato in direzione preromantica.

Quanto agli effetti del contatto shakespeariano sull’opera del Verri, l’autrice anticipa qualche indicazione circa le due tragedie (la Pantea piú lontana, la Congiura di Milano molto piú ricca di elementi shakespeariani con oscillazioni tipiche di chi voleva «tentare» un teatro italiano «che fosse di mezzo fra la troppa arte del francese e la troppa natura dell’inglese») e compie piú rapidi cenni ad un possibile studio in tal senso delle Notti romane.

Giacobini italiani, volume secondo, a cura di Delio Cantimori e Renzo De Felice, Bari, Laterza, 1964, pp. 595.

La scelta di scritti dei giacobini italiani del triennio rivoluzionario 1796-1799, di cui uscí nel 1956 un primo volume curato dal Cantimori (comprendeva scritti di G. Compagnoni, di «Nicio Eritreo», di E.M. L’Aurora, di G.A. Ranza, di M. Galdi e di V. Russo), viene ora conclusa con questo nuovo volume a cura del Cantimori e del De Felice e comprendente il lungo scritto di Girolamo Bocalosi, Dell’educazione democratica da darsi al popolo italiano, il trattatello di Matteo Galdi, Dei rapporti politico-economici fra le nazioni libere, lo scritto del Pagano Sulla relazione dell’agricoltura, delle arti e del commercio allo spirito pubblico, due discorsi agli ex-nobili del Gioannetti e dell’Aurora, i dialoghetti pei contadini del Martini e del Gioannetti, alcuni articoli sulla emancipazione della donna e vari appelli, progetti e discorsi tutti assai interessanti a fornire un quadro delle idee e degli argomenti della pubblicistica dei giacobini italiani.

Anche in rapporto a problemi letterari mi pare particolarmente interessante lo scritto del Bocalosi, che, nella sua cultura ed espressione di tipo popolaresco (le scomuniche che non fanno «imbachire i pani», «chi vi ha dato a intendere queste ciancocchie», il papa circondato da «quei gonnelloni e quelle chieriche», ecc.) e in mezzo a un curioso impasto di ingenuità e di risoluta decisione, risulta molto indicativo per una zona culturale particolarmente aperta alla comprensibilità popolare (anche se quasi sempre, pur in casi di uomini come il Bocalosi che aggredivano violentemente ogni formalismo e lo stesso studio del latino, non mancano indigesti rigurgiti di classica eloquenza) e caratterizzata da una decisione estrema nella rigida frattura fra vecchio e nuovo, fra prima e dopo il «1789» nel rifiuto di ogni autorità non costituita dal popolo, nella squalifica di ogni azione non volta a favore del popolo.

Assai interessanti sono poi, come dicevo, i capitoli dedicati all’educazione letteraria dei giovani, nei quali si presenta come l’estremizzazione vulgata della concezione alfieriana del letterato antitirannico: «Tolto alcune voci, alcune frasi e pochissimi versi, io non trovo in tutti gli epici e lirici italiani nullo di analogo onde formare de’ cittadini. Essendo nata la nostra lingua co’ poeti italiani presso ai tempi di schiavitú ed essendosi perfezionata in questi, non ha però che modi di dire e massime servili. Se si eccettui Dante e qualche tratto di Petrarca tutti gli altri cantori hanno servito al trono, all’amore, ai preti ed agli aristocratici» (p. 118). A cui seguono esempi negativi tratti dal Furioso e dalla Liberata, ed esempi positivi da Dante, dal Petrarca del Trionfo della fama che vengono poi trovati poco semplici e non cantabili. Ché l’ideale poetico del Bocalosi era la Marsigliese, e se a un certo punto citando due versi dell’Educazione in appoggio al suo ideale di educazione ginnica dirà di Parini che «è il solo poeta italiano che noi abbiamo» (p. 151), in realtà il suo piú acuto rimpianto è perché Metastasio «nacque nella serva Roma e passò in piú serva città ad adular dei tiranni». Altrimenti «la spontaneità del tuo stile e i tuoi lumi avrebbero servito alla causa della libertà quanto le scimitarre repubblicane», ché «egli era fatto apposta per darci i facili inni guerrieri di cui or si abbisogna» (pp. 126-27).

Che è davvero una curiosa riprova di come il Metastasio avesse acquistato una sua vera popolarità perpetuandosi ben al di là della zona culturale e letteraria e di come potesse in questo caso coincidere, per ragioni assai diverse, il giudizio positivo del Bocalosi con quello che Pio VI avrebbe dato, con grande ira del Monti, sulla insuperabile eccellenza metastasiana.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 68°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1964.

Aldo Andreoli, L’Accademia degli Inquieti. Inediti di Eustachio Manfredi, «Convivium», XXXII, 1964, 4, pp. 386-402.

Pubblica le «annotazioni» inedite che Eustachio Manfredi stese nel 1726 sull’Accademia degli Inquieti (precedente essenziale dell’Istituto e dell’Accademia bolognese delle Scienze) in rapporto alla storia dell’Istituto e Accademia delle Scienze di Francesco Maria Zanotti e non utilizzate da questo per quanto riguarda l’importante precisazione manfrediana circa l’avvio scientifico pratico degli Inquieti già prima delle leggi sancite sotto il Morgagni nel 1704 (e non utilizzate probabilmente perché contrastanti con il grande rilievo dato dallo stesso Manfredi alle leggi del Morgagni nella sua Vita dello Stancari). Le annotazioni del Manfredi riguardano minute precisazioni e suggerimenti di fatti e circostanze e proposte «prudentissime» di modifiche nella dosatura di lodi e riconoscimenti di singoli personaggi di quella storia accademico-scientifica. Vi risulta ancora una volta lo spirito di finezza e di equilibrio del Manfredi, scienziato, scrittore e uomo del «buon gusto» arcadico-razionalistico.

Gianvincenzo Gravina, Palamede, introduzione e note di G. Robuschi, «Gli smeraldi», Pleion, Bietti, Milano, 1964, pp. 105.

Viene qui ripubblicato (sulla edizione veneziana delle tragedie graviniane del 1740) il testo della tragedia Palamede. L’introduzione vorrebbe distinguere il nessun valore estetico della tragedia (su cui insiste sino alla sazietà) dal suo significato storico che viene però risolto praticamente nella lotta contro il melodramma (lotta riuscita «sí e no») e soprattutto sull’eredità graviniana nell’Alfieri sia per il concetto della rinnovata tragedia greca, sia per la «secchezza e incisiva brevità del dettato»: cosa, quest’ultima, priva di ogni serio fondamento. Il ragionamento per rendere qualche frutto dovrebbe essere molto piú complesso e relativo a certi momenti della poetica alfieriana nella sua attenzione a precedenti settecenteschi. Molto di piú si poteva ricavare per Metastasio (e si pensi alle pagine del Varese nel suo saggio metastasiano) e piú ancora per il valore storico del Palamede e di altre tragedie graviniane alla luce però di prospettive del tutto ignorate dall’autore dell’introduzione. Penso alle pagine del Badaloni, nella sua introduzione a Vico, sulla dottrina della luce nell’«illuminante» Gravina, penso alla possibilità di ricavare un serio discorso dalle posizioni ideologiche e programmatiche del Gravina di cui il Palamede è applicazione notevole: il termine della «luce dal vero» e della purezza interiore del giusto, cosí vivi nel coro finale, la forte preoccupazione civile e antitirannica e antidemagogica con la pietà per la plebe che soffre solo le pene delle guerre di potenza – «ma se i gran Proceri / vanno al pericolo, / di ricche spoglie carichi / poscia ritornano / alla lor patria: / ma noi col corpo squallido, / e da ferite lacero / ritorniamo piú poveri / al nostro domicilio»; la fede nel «divino potere della ragione» nel rapporto fra un Dio giusto e l’innocenza battuta in terra dagli empi machiavellici; lo sdegno contro la superstizione e l’uso interessato che ne fanno sacerdoti e tiranni rapportato chiaramente alla polemica anticlericale e antigesuitica del Gravina (v. la parlata di Palamede nella scena VI del III atto).

Tutta la tragedia, pur con il suo stento fantastico, la sua acerbità e gracilità espressiva, è percorsa da una nobile e forte tensione spirituale e ideologica che andava misurata nella storia del Gravina e nei suoi atteggiamenti polemici.

Eric W. Cochrane, Tradition and Enlightenment in the tuscan Academies (1690-1800), Roma, Edizioni di Storia e di Letteratura, 1961, pp. XIX-268.

Questo diligente lavoro considera la vita intellettuale e letteraria settecentesca del granducato di Toscana (e perciò non tien conto di Lucca) attraverso l’attività delle accademie, indicando gli elementi di continuità rispetto alle accademie cinque-seicentesche e quelli di novità consistenti nella nuova prospettiva latamente illuministica che comportava un nuovo senso di cooperazione degli intellettuali fra di loro e nei confronti di tutta la società e dello stato ed anche in rapporto ad una piú vasta cultura europea. In tale prospettiva l’autore, utilizzando documenti di prima mano (dissertazioni, scritti a stampa rari, lettere e documenti inediti di archivio), studia in successivi capitoli l’attività nel campo della letteratura, delle scienze, dell’archeologia, della storia, dell’economia e della politica, quale risulta appunto dalla vita delle accademie. Naturalmente il quadro risulta parziale, mancando una piú vasta attenzione alle opere degli scrittori anche fuori della vita accademica (ben altro spicco nella letteratura e cultura toscana del Settecento possono avere uomini come il Crudeli, il Lami, il Pignotti) e, d’altra parte, il notevole materiale offerto non sembra storicizzato e articolato secondo interni passaggi storici attraverso le varie fasi della cultura e della letteratura settecentesca. Donde un carattere piú di descrizione che di storia, piú di utilità di recupero e indicazione di documenti ed elementi interessanti per un successivo studio sintetico, che non di un quadro fortemente elaborato e inserito in linee di tensione storica sicure e originali. Ma certo già questa raccolta preparatoria piú descrittiva costituisce un’interessante offerta agli studiosi e uno stimolo a nuove ricerche e a nuove sistemazioni.

Pietro Calepio, Lettere a J.J. Bodmer, a cura di Rinaldo Boldini, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964, pp. LIII-307.

Nella «Scelta di curiosità letterarie» della Commissione per i testi di lingua viene pubblicata questa raccolta di Lettere del Calepio al Bodmer, pregevole per la cura che ha dedicato al testo il direttore della collezione e presidente della Commissione, Raffaele Spongano (che ha scritto e steso il glossario), per la chiara introduzione del Boldini, per l’interessante materiale (lettere di Calepio e lettere del Bodmer) che viene offerto agli studiosi della estetica e della critica settecentesca in un caso illustre di collaborazione del pensiero estetico-critico italiano agli sviluppi dell’estetica e della critica europee attraverso l’elaborazione e la mediazione del Bodmer. Dello scambio epistolare fra Calepio e Bodmer (1728-62) il Boldini traccia la storia precisa indicando anche la diversa personalità e la diversa vastità di interessi estetici e morali dei due corrispondenti: tanto piú forte e vasta nel Bodmer che poté giungere alla scoperta della poesia di Milton, di Dante, dell’antica epopea germanica, piú ristretta e rigida nel Calepio che pur nei suoi limiti poté offrire (attraverso il Paragone e la discussione sul gusto, sul diletto e la purgazione nella tragedia, sulla fantasia e sul meraviglioso) alla piú profonda meditazione del Bodmer la formulazione di una percezione estetica che non fosse solo apprensione sensibile né solo conoscenza intellettuale, ma atto intermedio tra l’una e l’altra, fino all’affermazione della creatività della fantasia poetica e all’approfondimento dell’analisi psicologica per la definizione dell’essenza della rappresentazione drammatica.

Molte cose potrebbero poi rilevarsi anche per la storia dalla diretta lettura delle lettere del Calepio: prima, ad esempio, il forte rilievo dato al Gravina nella valutazione dei meriti dell’Arcadia come «risorgimento del gusto».

Giovanni Da Pozzo, La coscienza letteraria dell’Algarotti, «Ateneo Veneto», II nuova serie, vol. 2, 1964, 1, pp. 81-100.

È il testo di una conferenza tenuta il 23 maggio 1964 a Venezia nella sede dell’Ateneo Veneto, per commemorare il secondo centenario della morte dell’Algarotti. La commemorazione punta sulla maturazione e articolazione della coscienza letteraria dello scrittore settecentesco dalla prima formazione a Roma, Bologna, Padova fino al Newtonianismo (con la sua posizione critica, se non polemica, nei confronti della nostra tradizione letteraria), ai viaggi europei, alle Epistole in versi, al Congresso di Citera, agli scritti intorno ai problemi dell’arte, in cui la stessa esperienza europea sollecitò l’Algarotti a porsi meglio il problema dei rapporti tra la nuova cultura europea, quella italiana e di quelli fra scienza e letteratura implicanti anche problemi di inquadramento in schemi storico-psicologici, problemi di nesso fra «genio» e «organizzazione» culturale e politica: con il limite di una illusione sulla onnipotenza della diffusione della cultura in rapporto ai piú gravi problemi sociali e alla creazione di principi illuminati. Nasce da ciò il problema particolare del rinnovamento della cultura e letteratura italiana (in rapporto alla mancanza dell’unità politica e in rapporto alla tradizione riveduta con una forte diffidenza verso i cinquecentisti e un’interessante rivalutazione del Seicento scientifico) e ne deriva anche la stessa esigenza algarottiana di revisione formale delle sue opere precedenti condotte ora (insieme a nuove opere) ad una prosa agile ed equilibrata, alimentata di moduli mutuati dal linguaggio straniero, ma controllati sulla matrice italiana e perciò tanto piú capace di esprimere e comunicare le realtà piú diverse di tutta la vita, le riflessioni piú minute sui fatti di costume, le meditazioni sparse del pensiero (come doveva avvenire anche nella conversazione dell’intelligentissimo scrittore).

Naturalmente, ad un livello diverso di una conferenza sintetica, si potrebbero chiedere molti rilievi piú particolari di singoli momenti dello svolgimento dell’Algarotti (sia in rapporto all’envergure di certe opere come il Congresso di Citera nei confronti del petrarcheggiare platonico italiano o come il Newtonianismo quale battaglia europea contro il cartesianismo), ma, nella sua inevitabile sommarietà, lo scritto del Da Pozzo appare sostanzialmente equilibrato e fine.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, con introduzione di Luigi Firpo, Torino, UTET, 1965, pp. 190.

Come strenna ad amici, autori, collaboratori, lettori, della Casa UTET, esce quest’anno la riproduzione dell’edizione originale (luglio 1764, presso il tipografo livornese Coltellini) del Dei delitti e delle pene, da un esemplare singolarissimo, già posseduto dall’autore stesso, e che reca, sui margini e in una cinquantina di carte legate in calce, tutte le aggiunte apportate via via dal Beccaria alle successive edizioni e le varianti degli autografi, e ogni ulteriore spunto e abbozzo di sviluppo. Il testo è preceduto da una lucida introduzione di Luigi Firpo che aggiunge poi alla fine un «epilogo quasi scherzoso» (e piuttosto amaro) in cui si riporta la perorazione di un deputato di Arras per l’abolizione della pena di morte (vero compendio oratorio dell’opera di Beccaria) alla seduta del 30 maggio 1791 dell’Assemblea Nazionale, seguita invece dall’approvazione della condanna a morte mediante decapitazione e dalla successiva adozione della ghigliottina. «Giunse fino all’orecchio di Beccaria l’eco di quella sua penosa sconfitta? Non è probabile che l’occhiuta polizia absburgica lasciasse circolare copie del ‘Monitore’ in una Milano già irrequieta e sgomenta, ma è bello pensare che l’autore del Dei delitti e delle pene abbia concepito un pensiero di gratitudine per l’ardente e sfortunato difensore del proprio ideale. A proposito, quasi dimenticavo di registrare il suo nome: si chiamava Massimiliano Robespierre».

Luigi Firpo, Il primo saggio di Beccaria, «Rivista storica italiana», LXXVI, 1964, III, pp. 671-704.

Questo saggio (che, come quelli seguenti del Venturi, del Torcellan, del Mirri, fan parte di una sezione del numero terzo del 1964 della «Rivista storica italiana» intitolata Omaggio a Beccaria) studia minutamente e acutamente le condizioni e le vicende a cui è legato il primo scritto del Beccaria nel 1762, Del disordine e dei rimedi delle monete nello Stato di Milano nel 1762, che non ebbe il permesso di stampa a Milano, fu edito per volontà del Verri a Lucca e provocò la polemica fra il vecchio economista milanese Francesco Carpani e il gruppo del Verri e del Beccaria. In appendice al saggio, cosí utile per le vicende del libretto beccariano e per la conoscenza del nascente gruppo del «Caffè» e della situazione culturale milanese, il Firpo pubblica le lettere indirizzate dal Beccaria al Firmian in relazione al suo scritto e il «foglio volante» contro il Carpani, steso dal Beccaria e da Pietro Verri.

Franco Venturi, L’immagine della giustizia, «Rivista storica italiana», LXXVI, 1964, III, pp. 707-719.

Elegante e dotto excursus sull’immagine della giustizia, che ornava il frontespizio della terza edizione di Livorno del Dei delitti e delle pene (incisione che eseguiva quanto aveva chiesto il Beccaria in una lettera all’editore Aubert) e che venne modificata poi nella sesta edizione. I soggetti e i modi con cui vengono presentati (giustizia e suoi atteggiamenti, strumenti di pena e di lavoro contro la figura della pena di morte) vengono seguiti dal Venturi nelle varianti delle due edizioni ricordate e poi in quelle di altre edizioni anche fuori d’Italia. Varianti dettate da particolari esigenze locali e da diversi atteggiamenti ideologici: come in forma chiaramente polemica avvenne nel libro polemico del Silla che riprendeva la figura della giustizia, ma la ornava di spada e le faceva indicare, con gesto tranquillo e sicuro, il boia come suo vero rappresentante. Mentre al contrario, nel trattato Della pena di morte di Camillo Ciaramelli (Firenze, 1788), l’immagine voluta dal Beccaria riprendeva la sua autenticità in accordo con la nuova legislazione toscana che aboliva la pena di morte e riorganizzava carceri e lavori forzati.

Gianfranco Torcellan, Cesare Beccaria a Venezia, «Rivista storica italiana», LXXVI, 1964, III, pp. 720-748.

In questo ampio e documentato saggio il Torcellan traccia la storia dei rapporti del Beccaria con Venezia nei suoi momenti ed elementi particolari: prima l’intervento ufficiale del governo veneziano (dovuto al paragrafo nono del libro sulle «accuse segrete» e al sospetto che l’autore fosse un cittadino veneto o che la stampa del libro fosse veneta) e l’attacco fanatico del padre Facchinei al Dei delitti e delle pene, sia nelle sue Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene, sia nella precedente stesura delle Brevi note inedite che il Torcellan ha ritrovato nell’archivio veneziano e che appaiono ancora piú velenose dello stesso pamphlet edito.

Poi il chiarimento dell’equivoco e la diffusione del libro nel Veneto con reazioni di simpatia e di diffidenza negli ambienti progressisti e conservatori veneti. Poi ancora il viaggio del Beccaria a Venezia e l’entusiastica accoglienza degli uomini di cultura piú aperta (fra i quali si ricorda un giovane di origine greca, Leonardo Capitanachi, che appare «iniziato» dal Beccaria alle nuove idee). Infine il saggio precisa la fortuna editoriale dell’opera del Beccaria in terra veneta fino all’epoca della repubblica democratica, quando il solito padre Facchinei poneva significativamente l’autore del Dei delitti e delle pene, insieme a Rousseau e a Montesquieu, fra gli scrittori che avevano avuto influenza su quegli uomini veneti di cultura che non erano poi riusciti a raddrizzare in qualche modo il governo «greco gotico» della vecchia repubblica.

Mario Mirri, Cesare Beccaria, il principe di Württemberg e la «Società morale» di Losanna, «Rivista storica italiana», LXXVI, 1964, III, pp. 749-759.

Pubblica una lunga lettera inedita del Beccaria del 3 agosto 1766 al principe Luigi Eugenio di Württemberg, entusiasta rousseauiano e fautore di una lega di «società morali» di «virtuosi» come quella di Losanna. Alla sua proposta di costituire associazioni che riconoscessero e verificassero azioni virtuose da esporre al pubblico per ricondurre gli uomini alla virtú, e di diffondere in Italia la lega dei «Virtuosi», il Beccaria risponde con una lettera assai bella e commossa e insieme chiara e controllata, piena di entusiasmo «virtuoso» e di simpatia per un’impresa giudicata utilissima «à l’espèce humaine, à cette pauvre espèce toujours chancelante entre la raison et la folie, entre l’abrutissement et l’apothéose», e per un tipo di principe come il suo corrispondente, disposto a stabilire «une alliance entre la vertu et le pouvoir» per la felicità dei sudditi. Ma l’interesse di questa impetuosa e calda professione di fede virtuosa e sentimentale è arricchito e precisato poi dalla descrizione delle forme che Beccaria ritiene necessarie al funzionamento e agli scopi delle associazioni morali: onesta libertà e «dolce» uguaglianza nelle assemblee, esclusione risoluta di tutte quelle cerimonie superstiziose (che finiscono per soffocare «les ressorts de l’âme, qui doit se plonger dans la vertu avec courage et grandeur»), ferma diversificazione delle associazioni da ogni forma di culto e di religione (con evidente allusione al timore di venire immesso in associazioni di tipo massonico, sia per ragioni prudenziale e ben chiare, sia per esigenze piú genuine di interna democrazia), proposta di un tipo di associazioni simile a quella esistente a Milano nel gruppo del «Caffè».

Nel complesso la pubblicazione della lettera è un notevolissimo contributo alla nostra conoscenza del Beccaria, e dell’impasto di sensibilità sentimentale e virtuosa e di chiarezza razionale che si riflette nella sua prosa commossa e lucida.

Norbert Jonard, Giuseppe Baretti (1719-1789). L’homme et l’oeuvre, Clermont-Ferrand, De Bussac, 1963, pp. 503.

La vasta monografia barettiana dello Jonard è concepita secondo un tipo di storiografia accademica francese che è volta a raccogliere tutta la bibliografia sull’argomento, a ricostruire minutamente la biografia dell’autore studiato e a ripercorrerne l’opera tenendo presenti i vari problemi che si sono presentati alla critica precedente.

E certo il lavoro dello Jonard va considerato, in tale prospettiva, molto diligente e utile come raccolta di dati, di riferimenti, di osservazioni sensate e garbate, ed ogni futuro studioso del Baretti dovrà consultarlo e potrà servirsene. Ma sinceramente non direi che da questo grosso lavoro risulti una interpretazione decisa e viva del Baretti né che dalla discussione critica emergano problemi nuovi e sollecitanti. E l’attenta considerazione cronologica delle vicende vitali e letterarie del Baretti, che, volta a volta, illustra e chiarisce utilmente singoli episodi (la formazione giovanile, ad esempio, o l’episodio Piozzi, ecc.) non si trasforma in un vero sviluppo della personalità barettiana.

Detto questo, di fronte a una piú alta esigenza storica, andrà ribadita una valutazione di utilità di questa ragionata epitome e discussione di problemi e di rielaborata raccolta di dati che non può non essere considerata con molta attenzione e favore.

P.S. Duncan, rec. a Norbert Jonard, Giuseppe Baretti, «Italian Studies», XIX, 1964, pp. 123-126.

Elogia il libro con osservazioni marginali ed elenchi di sviste ed errori tipografici, e ragiona sulla difficoltà di trattare del Baretti a causa del suo carattere ambiguo e a causa dei contrasti troppo forti fra i suoi critici. Fra tali contrasti pone anche la sua opinione contraria alla mia affermazione circa l’importanza del Baretti per le successive posizioni romantiche italiane.

Chiunque abbia qualche conoscenza delle polemiche romantiche potrà facilmente decidere in proposito.

Dante A. Leonardon, An Annotated List of Articles Dealing with Italian Literature Appearing in the «Journal Encyclopédique» from 1756 to 1793, «Italica», XL, 1963, 1, pp. 52-61.

Elenca le opere italiane dal «Journal Encyclopédique» (riportando gli essenziali giudizi in proposito), che costituiscono circa il quinto delle opere straniere esaminate.

Interessanti, anche se correnti nel gusto francese del tempo, i giudizi sulla Divina Commedia («un monstre», «un poème espèce de bâtard de l’épopée, enfanté par une imagination audacieuse et forte, mais encore plus déréglée » con uno stile «trop figuré et quelque fois sauvage»; e Dante è «un beau génie gâté par son siècle, et propre a gâter les siècles suivants»), sull’Ariosto (giudicato alla stregua dell’ultimo giudizio di Voltaire «poète sublime», creatore di un «chef d’oeuvre de fecondité, d’imagination, de graces et de varieté»), sul Petrarca («père de la poésie moderne, successeur de Dante qu’il effaça, celui à qui l’Europe doit le rétablissement des lettres et des sciences et qui a ranimé les arts opprimés depuis tant de siècles sous les poids de la barbarie») e quelli fortemente elogiativi su Gravina, Goldoni, Frugoni, Algarotti, Metastasio, Parini (il cui Giorno è detto «une agréable production de l’esprit philosophique»), quello sul cardinal Passionei («qui nous a souvent témoigné son estime le temps même ou le faux zèle s’était armé contre nous»), ben significativo provenendo da un giornale che proseguiva l’impostazione e le istanze della grande Encyclopédie.

Raffaele Spongano, Il primo Parini, Bologna, Patron, 1964, pp. 128.

In questo piccolo ed elegante volume lo studioso si occupa del noviziato poetico pariniano, delle rime di Ripano Eupilino, tendendo a rilevare sin da queste una sostanziale novità ed estraneità del Parini rispetto all’Arcadia e alle sue varie tendenze, in netta opposizione con la posizione del Croce e anche del Fubini (per il primo Parini tutto in Arcadia, per il secondo un Parini che elabora temi illuministici sulla base della sua educazione arcadica e nelle forme di un sostanziale classicismo arcadico).

Sull’accettabilità di questa tesi circa i rapporti fra Ripano Eupilino e l’Arcadia si può evidentemente discutere anche senza accettare le posizioni sopracitate per l’intero percorso della poetica e della poesia pariniane. Ché, come è noto a chi conosce i miei studi raccolti nei due recenti volumi editi dalla Nuova Italia, per me la zona arcadica è piú ricca di tendenze e di movimenti interni (e quindi anche di offerte al giovane Parini) di quanto potrebbe apparire dall’immagine troppo negativa che risulta dalle pagine dello Spongano. Ma il volumetto, mentre rappresenta comunque un utile termine di discussione, si raccomanda poi soprattutto per le analisi di componimenti del primo Parini e specialmente delle sue traduzioni poetiche esaminate con particolare attenzione tecnica.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 69°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1965.

Giovanna Gronda, Antonio Conti e l’Inghilterra, «English Miscellany», 1964, 15, pp. 135-174.

In questo saggio chiaro ed esauriente l’autrice (che sta preparando per gli «Scrittori d’Italia» della Laterza un’edizione delle opere del Conti e di cui già schedai un precedente saggio nel n. 2-3 del 1964 di questa rivista) delinea la storia del soggiorno inglese del Conti con il suo incontro con il Newton e la Royal Society, che fece di lui un mediatore fra la cultura scientifica inglese, quella francese (già direttamente conosciuta nel soggiorno parigino) e quella italiana, per esaminare poi piú minutamente la partecipazione del Conti alla vita culturale propriamente letteraria dell’Inghilterra, resa inizialmente difficile dalla scarsa conoscenza della lingua inglese e dal prevalere dei suoi interessi scientifici, ma certo notevole non tanto per una partecipazione diretta del Conti alla polemica della vita letteraria del tempo, quanto in rapporto «alla sua meditazione critico-poetica degli anni successivi, nei primi scritti francesi, nelle traduzioni di testi inglesi fatti in Francia e a Padova una decina d’anni dopo e molto piú tardi nella confutazione dell’estetica dello Hutcheson nelle lettere al Cerati».

Di questo sviluppo la Gronda enuclea i documenti e i momenti e il loro significato con nitida precisione: prima la traduzione dell’Essay on poetry del duca di Buckingham (attratto dalla comune componente classicistica applicata dal Conti alla reazione antibarocca italiana) e, attraverso quella, la conoscenza delle opere del Dryden, del Temple, del Pope, dell’Addison, che coincide con il risvegliarsi dei suoi interessi letterari e che, agevolata dalla comune tradizione critica di origine italiana e francese, portò a lui nuovi elementi tipici della rielaborazione inglese (forte valutazione della fantasia, libertà critica, gusto aperto all’arte diversa di un Pope e poi di un Milton). Ciò che si riflette nelle lettere del ’19 (un anno dopo aver lasciato l’Inghilterra) a Madame Ferrand e a Scipione Maffei, non senza uno smussamento di precise posizioni inglesi (la confutazione della definizione di fantasia del Temple nella Dissertazione sopra la Ragion poetica del Gravina), ma pur sempre risentendo, per accettazione e critica, nello sviluppo (contrapposto alla tesi immobilistica del Mac Hammon) del suo pensiero estetico-critico di elementi della lezione inglese: attenzione alla meditazione haddisoniana sull’immaginazione, stimolo ai problemi psicologici e gnoseologici del pensiero estetico-critico pur nella discussione di posizioni lockiane e baconiane per giungere, nel Trattato de’ fantasmi poetici, ad un concetto meno empiristico e piú creativo della fantasia. Come poi si vede nella discussione della posizione dello Hutcheson (conosciuto fra il 1725 e ’29) in cui si giunge, nel Conti, alla teorizzazione del piacere estetico come piacere intellettuale e a formulazioni che costituiscono «il frutto piú maturo della meditazione critico-estetica dell’Arcadia italiana a contatto con i movimenti del Settecento europeo».

Un ultimo paragrafo presenta una valutazione piú equa e positiva dei giudizi dati dal Conti sulla letteratura e il gusto inglese e della sua qualità di mediatore in Italia del gusto e della conoscenza della letteratura inglese: il caso dello Swift, della Montagu e, piú in profondo, del Milton (piú tardi limitato da un processo finale di irrigidimento del Conti sempre piú ristretto alla tradizione nazionale), del Pope soprattutto, che rimase sempre per il Conti un esempio di poesia da contrapporre a quella dei contemporanei italiani e di cui tradusse con grande efficacia artistica il Riccio rapito, comprendendone il carattere precipuo di ironia che permette una rappresentazione deformante, ma viva di quella minuscola realtà della vita mondana a cui il Conti era preparato dalla stessa esperienza personale del mondo nobile e cortigiano inglese e francese: oltreché dalla sua preparazione classica che lo avvicinava al coltissimo traduttore di Omero.

Mario Fubini, Commemorazione di Francesco Algarotti, nel II centenario della morte. Estratto dagli «Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», CXXIII, 1964-1965, pp. 9.

È il testo di un lucido e denso discorso commemorativo, tenuto dal Fubini a Venezia il 6 dicembre 1964. In esso l’insigne studioso, rifiutata la fama piú vulgata di un Algarotti «leggero», addirittura «fatuo», riporta documenti dell’alto interesse, italiano ed europeo, suscitato fin dal giovanile Newtonianismo per le dame (giudizi del Bodmer o del Martello) che era frutto di una vera conoscenza e possesso della scienza piú avanzata del tempo e dell’educazione scientifica dell’Algarotti: il quale piú tardi, con limpida coscienza critica, riconobbe i difetti linguistici del suo libro giovanile e, alla luce della sua autocritica, rielaborò quello nella forma dei Dialoghi sull’ottica newtoniana. D’altra parte quel libro fortunato e vivo apriva all’Algarotti soprattutto un’attività letteraria fecondissima e caratteristica della missione algarottiana di elaboratore di una cultura piú avanzata, aperta, nazionale ed europea insieme, rispetto a quella in cui s’era da giovane educato, e di una critica letteraria nuova, in cui lo scrittore veneto era precursore della critica e storiografia artistica e letteraria illuministica, di cui il Fubini riporta alcuni significativi esempi. E tuttavia l’Algarotti rimaneva al di qua dell’«illuminismo piú maturo e combattivo» di cui gli mancava l’essenziale istanza umanitaria, precursore dunque e non partecipe della nuova età, rispetto alla quale la sua opera era stata tutt’altro che inutile.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 69°, serie VII, n. 2, maggio-settembre 1965.

Illuministi italiani, vol. VII, Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di Giuseppe Giarrizzo, Gianfranco Torcellan e Franco Venturi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1965, pp. XXXVII-1256.

Il presente volume costituisce, insieme ai bellissimi volumi già curati dal Venturi (Illuministi lombardi, piemontesi e toscani, Illuministi napoletani), il contributo piú nuovo e stimolante che questa felicissima sezione della collana Ricciardi (certo la piú interessante di tutta la collana) offre ai lettori e a agli studiosi del Settecento italiano. Come dice all’apertura dell’introduzione Franco Venturi «l’Italia piú arcaica, il Settecento delle antiche repubbliche, dei vecchi ducati, dello Stato pontificio e delle isole mediterranee: questa è la realtà che il lettore è invitato a esplorare e a conoscere nei testi raccolti nel presente volume». Ritrovare a Venezia, a Genova, a Modena, a Parma, a Roma, a Cagliari, a Palermo e nei tanti altri centri, piccoli e grandi, dell’Italia piú antica «gli elementi, i fermenti del secolo de’ lumi» è certo piú emozionante e stimolante che non ritrovarli a Milano, a Firenze, a Napoli, nella stessa piú arretrata Torino dove studi antichi e recenti (e in gran parte proprio ad opera dello stesso Venturi) li avevano già illustrati in tutta la loro complessa ricchezza. Non che anche per alcune zone mancassero del tutto studi preparatori (cosí per il Veneto il libro del Berengo, i contributi del Tabacco e del Torcellan, cosí per lo Stato pontificio quelli del Dal Pane, del Piscitelli, dello Zangheri e dello stesso Venturi, cosí per Genova quelli del Rotta, cosí per la Sicilia quelli del Romeo, cosí per la Sardegna quelli ancora dello stesso Venturi), ma certo l’offerta di un quadro cosí ricco basato su una larga raccolta di testi è davvero un avvenimento importante.

Lo spirito modernamente illuministico di chiarezza e di conoscenza concreta che è proprio carattere degli studi del Venturi, animatore anche di questo volume, porta luce sicura su larghe zone che specie il pubblico dei lettori colti, ma spesso anche degli specialisti, era portato a meno considerare nel largo tessuto dell’illuminismo italiano.

L’introduzione del Venturi, come al solito limpida e sicura, ben lumeggia i caratteri generali e particolari delle zone studiate, del «paesaggio straordinariamente vario e complicato» che prende ai nostri occhi consistenza e realtà. In questa Italia «arcaica» la riforma illuministica offrí risultati minori perché piú gravi, insormontabili talvolta, erano gli ostacoli da superare e i riformatori «rimasero spesso degli isolati o finiron per accettare e farsi apologeti delle lente e parziali riforme degli stati in cui vivevano», pur animati com’erano da iniziale energia e lucida comprensione dei problemi e delle «eredità piú tristi della morale cattolica dell’età controriformistica» (eredità che lo storico deve giustamente calcolare in una storia spregiudicata, ma non priva di orientamenti e di direzione ideale che vede – contro edulcorate e ambigue prospettive interessate – nel difficile processo di modernizzazione della nostra civiltà come il nuovo sia di diversa origine da quella eredità e da quella morale, tanto pesante nella nostra difficile e tormentata storia fino ad oggi).

Cosí nel Veneto decadenza e «lumi» lottano a lungo sostanzialmente divisi anche se intrecciati e anche se a Venezia «ben piú grande e profonda fu la efficacia degli illuministi di quanto non si creda e generalmente non si dica: come dimostra la storia difficile di uomini come Ortes, Griselini, Andrea Memmo» (dove par pur di avvertire una maggiore incertezza nel definitivo giudizio su di una situazione e su personalità significative per le forti remore della cultura illuministica veneta).

Cosí a Genova, mondo ben altrimenti chiuso e compatto, la formazione di un ambiente politico e culturale illuministico urta contro la tradizione politica governativa (ma peccato che nell’antologia manchino pagine almeno del Pini, cosí avanzato e significativo per l’illuminismo piú ardito meglio di molti veneti ad es.). Cosí a Parma, malgrado l’influenza francese, alla diffusione delle nuove idee non corrisponde un’adeguata formazione di un gruppo riformatore autonomo ed efficace, mentre a Modena, sulla solida base ghibellina e grazie all’opera del Muratori, le idee dei lumi affondarono piú profonde radici e provocarono piú sicure riforme, appoggiate da uomini come Giovanni Ristori o i Paradisi.

Cosí nello Stato pontificio, il peggio amministrato della penisola, gli illuministi per lo piú «stranieri», non romani (Milizia, Cacherano di Bricherasio, Vergani, Corona), puntarono la loro diagnosi feconda, piú che sulle ragioni religiose e morali, sulla penosa realtà economica e sociale della città e della campagna pontificia.

Un vero salto conduce alla Corsica, dove risalta in una nuova luce la grande figura di Pasquale Paoli, attraverso il quale – nel suo momento piú aggressivo e ispirato – la Corsica rivelò all’Europa «quell’elemento ribelle e libertario che era insito in tutto il moto illuministico, ma che veniva generalmente chiuso ed incanalato nell’alveo di un piú o meno avanzato riformismo» (ne è riprova l’opera del toscano Magnanima che dall’indagine sulla realtà còrsa fu portato all’entusiastica profezia ed interpretazione della rivoluzione americana). Diverso ancora il caso della Sardegna, che con gli anni sessanta diventò il terreno preferito dall’esperienza del ministro piemontese Bogino, al quale il piccolo gruppo sardo di uomini nuovi (Cossu, Gemelli, Cetti, Capriata) spiegò il problema di fondo della Sardegna, la sua realtà politica e sociale, la barriera del feudalesimo, rimasta in piedi durante tutto il Settecento e il primo Ottocento.

Piú chiaramente in Sicilia la preparazione delle riforme venne da uomini della cultura siciliana, come Natale e De Cosmi, l’azione venne dal di fuori, per opera del geniale Caracciolo e poi piú del Caramanico, mentre in uomini di singolare intelligenza, come lo storico Gregorio, si potrà misurare la svolta in senso liberale e anglicizzante, autonomistico e tradizionale, che in Sicilia contribuirà (come per altre ragioni in Sardegna) al rifiuto della rivoluzione francese.

E fra la introduzione e i testi, adeguatamente commentati, il ricco volume poi presenta l’intermedia funzione di larghe, approfondite note introduttive ai singoli personaggi antologizzati: per monografie, una piú compiuta storia dell’Illuminismo nei vari stati.

Impossibile soffermarsi sui singoli capitoli (a cura del Torcellan, cosí prematuramente strappato in quest’anno agli studi e al fervore della ricerca e della vita, le note, la scelta, il commento dei Veneti: Ortes, Griselini, Memmo, Fortis; a cura del Giarrizzo quello dei «siciliani»: Natale, Caracciolo, De Cosmi, Gregorio; a cura del Venturi quello del ligure Massa, dei modenesi Agostino Paradisi e Ricci, dei «romani», Milizia, Cacherano, Vergani, Corona, e poi di Pasquale Paoli, del Magnanima, dei sardi Cossu e Gemelli), che stimolerebbero ognuno a discorsi e osservazioni particolari sia sull’interesse storico e culturale, sia sull’interesse scrittorio e anche di gusto (si pensi almeno al Milizia!) che quei personaggi e quei testi hanno per uno studio intero del nostro illuminismo in tutti i suoi aspetti.

Renzo Negri, Gusto e poesia delle rovine in Italia fra il Sette e l’Ottocento, Milano, Ceschina, 1965, pp. 254.

Riprendendo un filone di studi variamente atteggiati (o in forma di ricostruzione di fonti e di precedenti tematici, come quello su la Ginestra e la poesia delle rovine del Cesareo, o in raccolta di loci communes sul tema delle rovine e della poesia sepolcrale – l’opera del Rizzo –, o in indagine su di un sentimento ed un gusto, fra iconografia figurativa e letteraria e Kulturgeschichte, come nel Préromantisme français del Monglond o nel Pleasure of ruins di R. Macaulay, o entro una storia di poetiche e di poesia, come è il caso del mio Preromanticismo italiano), il Negri si propone di studiare nella nostra letteratura lo sviluppo del gusto e della poesia delle rovine (distinguendolo dal contiguo gusto della poesia sepolcrale) che, già vivi sin dall’epoca classica, trovano la loro espressione piú intensa nel periodo preromantico, neoclassico e romantico, almeno fino al Carducci, ma soprattutto dal Varano al Leopardi.

Dopo un capitolo sulle rovine nella pittura, nei giardini e nella scenografia del Settecento (ma in realtà l’appoggio prevalente è già qui costituito da trascrizioni letterarie) ed un altro sulla «rovina nelle discussioni di estetica» (dalla posizione classicista «preclusiva per le rovine» agli sviluppi sentimentali ed edonistici del sensismo, alla fusione della rovina nel «sublime» fino alle obiezioni del Gioberti), il libro sviluppa piú direttamente il suo assunto in alcuni capitoli: il primo è dedicato ad un filone – piú che a una zona – che va dal Varano all’Arici e mostrerebbe piú chiare «persistenze barocche», il secondo tratta del «rovinismo descrittivo-affettivo», sulla base di relazioni di viaggi, di descrizioni poetiche del paesaggio vesuviano e romano, di espressioni delle traduzione preromantiche italiane da Young, dal Werther, dall’Ossian; un terzo si rivolge a quelli che vengono qui chiamati «eclettici pre-romantici» (Bettinelli e Monti), un quarto presenta il «rovinismo preromantico» nella sua destinazione esortatrice e «risorgimentale»: dallo Zanotti e Fantoni, al «Parnaso democratico», al Cuoco del Platone in Italia, e nella sua «linea maestra preromantica e romantica» (Cesarotti, A. Verri, Pindemonte, Alfieri, Saluzzo, Foscolo) – con accenni al prevalere di rovine «medievali» nel gusto romantico – sino al Leopardi «poeta delle rovine», considerato culmine di questa lunga storia, dopo di cui ritornerebbero piú sparsi accenni e sviluppi del tema nel Carducci, in certo «rovinismo gocciolante del Pascoli e dei crepuscolari e magari in Cardarelli e Betocchi e magari ancora, su scala mondiale, agli espedienti filmici di uno spettacoloso rovinismo greco-romano».

Nell’insieme il libro, malgrado ogni volontà dell’autore di dargli un carattere e un taglio storico e un significato di ricerca in funzione della poesia, praticamente ricade in un repertorio-descrizione di brani letterari (variamente noti ed usufruiti o meno noti: donde la relativa utilità in tal senso del libro) sul tema delle rovine, cui manca una salda spina dorsale e che, oltretutto, non può, a mio avviso, essere esaminato a sé, fuori di una storia intera delle poetiche sette-primo ottocentesche, fuori della storia di tensioni filosofiche, spirituali, morali che quelle sottendono (si pensi già alle reazioni al terremoto di Lisbona e alle loro implicazioni profonde qui appena accennate). Come d’altra parte effettivamente riesce difficile e inutile separare il filone delle rovine da quello della poesia sepolcrale (Piranesi e Foscolo ad esempio, o lo stesso Leopardi di cui pure il Negri esamina le due canzoni «sepolcrali») e come riesce estremamente parziale – malgrado ogni avvertimento in proposito – rivedere solo in questa direzione intere personalità, come quella del Leopardi, oltre tutto individuato in una direzione di «spirito naturalmente religioso» che chiederebbe lunga discussione e precisazione.

Tralasciando osservazioni particolari sui singoli capitoli e sui singoli autori citati e non citati (perché non tener conto diretto del Guidi nel primo Settecento e di altri rimatori arcadi come il Pegolotti, già che si voleva trattare di quel tema anche nei suoi precedenti e che invece viene utilizzato per la lettura alfieriana della Fortuna in una nota poco convincente?), par di dover concludere con un giudizio limitativo, anche pensando a studi di simile natura, ma piú stimolanti e ricchi di indicazioni storiche piú precise (si pensi al saggio del Michéa su Le plaisir des tombeaux). Il merito del libro, cui non mancano doti di intelligenza e di impegno, può dunque semmai consistere in una raccolta di esempi, variamente efficaci e pertinenti, variamente noti o meno noti (il caso, ad esempio, del Biamonti o il caso della citazione di un brano del Werther nella versione del Salom in rapporto al Leopardi), di prima o di seconda mano, della letteratura di secondo Settecento e di primo Ottocento usufruibili in una storia piú complessa del preromanticismo, del neoclassicismo e del romanticismo, come del resto è già in parte avvenuto in precedenti lavori storico-critici.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 70°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1966.

Sandro Benedetti, Per un’architettura dell’Arcadia, Roma 1730, «Controspazio», III, 1971, 7-8, pp. 2-17.

Il fine e denso saggio di storia dell’architettura del Benedetti è da segnalare in questa rassegna soprattutto come esempio molto notevole dell’utilità di rapporti fra studi di critica e storiografia letteraria e studi di critica e storiografia delle arti figurative. Il Benedetti infatti, riferendosi esplicitamente al mio capitolo arcadico nel Settecento della Storia della letteratura Garzanti, adatta la definizione di un periodo letterario arcadico-razionalistico alla storia dell’architettura soprattutto nel filone romano localizzato intorno al 1730, servendosi, ancor prima che delle opere architettoniche realizzate (Fontana di Trevi del Salvi, rifacimento di S. Giovanni in Laterano di Alessandro Galilei), dello studio dei concorsi per quelle opere e di altri concorsi di quegli anni promossi da papa Clemente XII. Indicati i caratteri di «ragionevolezza» e «semplicità», già emergenti all’inizio del secolo, nelle proposte, nelle discussioni, nelle convinzioni culturali di uomini della cultura romana gravitante intorno a Clemente XII (Lione Pascoli, l’arcade Niccolò Forteguerri, Luca Piccolomini, Lorenzo e Neri Corsini, Giovanni Bottari, anche con i loro rapporti con il rigorismo morale di tipo giansenistico), delimitata una zona particolarmente «culta» della committenza ufficiale di opere architettoniche (donde lo spazio piú «popolare» lasciato al filone di ascendenza piú barocca – ma io osserverei ormai piuttosto rococò, stando almeno agli esempi della Maddalena del Sardi e delle opere del Raguzzini, con chiari raccordi – si pensi soprattutto agli edifici di via dei Burrò di quest’ultimo – con il tipo di rococò arcadico letterario sviluppato sulla base crescimbeniana e svolto nel sonettismo miniaturistico-melodrammatico di una zona specie romana), il Benedetti enuclea la sua proposta di un cambiamento di poetica dal barocco all’Arcadia razionalistica precisando la presenza e l’articolazione delle convinzioni emerse da posizioni e discussioni (specie intorno all’Accademia di S. Luca) entro il preciso contesto dei concorsi ricordati e dei progetti a questi presentati (oltretutto opera di architetti spesso direttamente appartenenti all’Accademia di Arcadia, come il Vanvitelli e il Salvi): soprattutto il caso dei concorsi del 1732 per la facciata di S. Giovanni e per la Fontana di Trevi di cui in questo saggio si dà particolare rendiconto, ribadendo l’idea centrale che per la poetica che presiede ai disegni (specie quelli prescelti) e alle opere di quei concorsi ben si addice la definizione e collocazione storico-artistica di Arcadia razionalistica (premessa poi, nel caso del Vanvitelli, a sviluppi neoclassici) in corrispondenza, per esigenze convergenti, con i caratteri piú centrali del fenomeno arcadico letterario. Certo si potrebbe sulla base di questa interessante proposta sviluppare a lungo da parte nostra un piú preciso discorso circa l’envergure e le sfasature cronologiche di questa equivalenza fra storia dell’architettura e storia letteraria. Tutto sommato la fase architettonica 1730 sembra riportarsi piú vicino a esigenze centrali a tutta l’Arcadia letteraria, ma piú particolarmente precisate in una zona fra prearcadia specie toscana – si ricordi, fra l’altro, che molti dei personaggi, architetti o uomini di cultura citati in questo saggio sono toscani – e prima Arcadia piú volta alla restaurazione rinnovatrice di gusto cinquecentesco e classico (con una grandiosità ragionevole e magari «secca» come parve a certi critici la facciata galileiana di S. Giovanni) e alla piú frontale reazione al barocco, mentre altre tendenze ed opere architettoniche dello stesso periodo sembrano corrispondere piú che a semplici continuità barocche a svolgimenti di tipo rococò (come sopra accennavo), con il suo maggior recupero di vivacità e movimento almeno alla luce di un piú avanzato svolgimento della poetica arcadica (mentre ad esempio nella Fontana di Trevi al gusto arcadico-razionalistico dell’impianto della facciata-palazzo sembra congiungersi nella fontana una piú mossa tendenza di tipo rococò). Ma la proposta e le sue motivazioni sono indubbiamente assai sollecitanti anche per lo studioso delle poetiche letterarie di primo Settecento e, come dicevo all’inizio, ben indicano la fecondità di uno scambio di esperienze fra storici della letteratura e storici dell’arte sia sul terreno delle metodologie (lo studio del Benedetti è certo uno studio impostato sulla prospettiva della nozione e dell’uso di poetica), sia in quello della concreta articolazione e definizione storico-critica di periodi, tendenze, personalità, opere di un contemporaneo periodo (sia pure con il senso di una corrispondenza non rigida, del peso di tradizioni e tecniche specifiche, di possibili sfasature cronologiche, di diversa complessità di tendenze e di interventi personali).

Giuseppe Ricuperati, rec. a Eleonore Zlabinger, Antonio Muratori und Österreich, in «Veröfflentlichungen der Universität Innsbruck», 53, «Studien zur Rechts-, Wirtschafts- und Kulturgeschichte herausgegeben von Nikolaus Grass», VI, Innsbruck, 1970, pp. 255, «Rivista Storica italiana», LXXXIII, II, 1971, pp. 469-472.

In questa densa ed eccellente recensione il Ricuperati rileva l’importanza di questa ricerca della fortuna del Muratori in Austria. Questa ricerca, che non si limita al centro della corte di Vienna, ma a tutto un ambiente intellettuale, sociologicamente composito, di letterati, funzionari, ecclesiastici, attivi soprattutto in minori città da Salisburgo a Innsbruck, a Ollmütz, si precisa in due direzioni: la relazione del Muratori con i centri della vita spirituale austriaca e il rapporto fra il suo pensiero civile e religioso e il giuseppinismo. Attraverso il tramite di viaggiatori e diplomatici modenesi o italiani delle zone «culturalmente anfibie» come Trento e Rovereto, l’influsso del Muratori (e a volte il rapporto personale e diretto con lui) viene colto in varie città e in vari conventi (specie benedettini) austriaci soprattutto per quel che riguarda la nuova religiosità muratoriana, mentre per quanto riguarda piú direttamente la corte viennese lo studio recensito rileva e documenta la presenza del muratorismo attraverso l’azione del giurisdizionalista Spannagel e il suo rapporto con quel vasto ambiente italiano sulla cui interna articolazione lo studio porta notizie interessanti, come quelle concernenti i due gruppi o partiti facenti capo allo Zeno e al Riccardi (il primo piú moderato, il secondo piú accesamente antiromano, giansenistico e rigoristico, che giunse inizialmente ad attaccare «da sinistra» la stessa Istoria civile del Giannone, ma con cui proprio il Muratori prese piú diretti contatti). E se a questo proposito il recensore aggiunge alle offerte dirette del volume recensito un’utile e importante osservazione circa «lo sforzo del Muratori d’influire in qualche modo sulla realtà dell’impero ben prima del trattato Della pubblica felicità, che è un po’ l’annunzio dell’assolutismo illuminato, e che giustamente è messo in relazione con la generazione successiva, da Maria Teresa a Giuseppe» (sforzo dimostrato dalla stesura da parte del Muratori del De codice Carolino per Carlo VI), il recensore riconosce ancora la validità del lavoro della Zlabinger anche per quel che concerne il rapporto del Muratori con le origini del giuseppinismo («inteso in senso piú ampio che la pura politica ecclesiastica»), e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica austriaca, ad opera della diffusione di testi muratoriani, a temi politico-religiosi e a temi piú direttamente politico-civili entro cui si formarono uomini come Martini e Sonnenfels che parteciparono alla riforma teresiana rappresentando il legame con il giuseppismo, mentre il rilievo della grande presenza di opere muratoriane nelle biblioteche di città e conventi austriaci (di cui il libro offre il preciso numero ed elenco) aiuta a capire «il peso che le proposte politiche, culturali e religiose dell’abate modenese esercitarono non solo sulle origini dell’Aufklärung (quando erano legate anche a rapporti diretti), ma piú tardi, nella stagione matura del riformismo giuseppino».

Alla fine della recensione il Ricuperati aggiunge piú breve notizia (come conferma dei risultati della ricerca della Zlabinger) di due recentissimi studi: quello di Charles H. O’Brien, Ideas of religious Toleration at the time of Joseph II. A Study of the Enlightenment among Catholics in Austria, in «Transactions of the American Philosophical Society», vol. 59, 7, 1969 (che pur calcola l’influenza muratoriana sugli intellettuali «aperti» dell’Austria), e quello piú complesso di Grete Klingestein, Staatsverwaltung und kirchliche Autorität im 18 Jahrhundert. Das Problem der Zensur in der theresianischer Reform, Wien, Spies, 1970, in cui si riprende e approfondisce il rapporto fra il Muratori e il rinnovamento religioso austriaco, mentre si sottolinea l’importanza della presenza di intellettuali italiani in Austria «non solo come poeti di corte, ma anche come funzionari, politici, bibliotecari nella prima metà del ’700» (poi sopravverrà nella seconda metà del secolo il rapporto complesso, anche se piú sfumato, della generazione giuseppina con la cultura illuministica italiana su cui portò luce il libro di A. Wandruszka, Österreich und Italien in 18 Jahrhundert, Wien, 1963). Tra le molte indicazioni di questa recensione non va perduta per gli storici della letteratura italiana quella di un recente saggio su Metastasio a Vienna (H. Kramer, P. Metastasio in Wien, in «Archiv für Kulturgeschichte», 52, 1970, I, pp. 49-64), indicazione fatta in relazione ad un’osservazione sulla sostituzione a Vienna, verso metà secolo, del «poeta» di origine italiana con un altro tipo di «intellettuale di corte», il musicista, e quindi circa il declino e la «sopravvivenza» del Metastasio anche quanto ad importanza nella corte di Vienna.

Giuseppe Ricuperati, rec. a Tiziana Cavadini-Canonica, Le lettere di Scipione Maffei e la «Bibliothèque italique», Lugano-Friburgo, 1970, pp. 220, «Rivista storica italiana», 1971, pp. 472-475.

In questa recensione (che giustamente propone la necessità di un aggiornato studio complessivo sul Maffei, tuttora in realtà mancante e bisognoso di un’ulteriore approfondita ricerca) il Ricuperati dà lucidamente notizia di una tesi di laurea presentata alla Facoltà di Lettere dell’Università di Friburgo e utile per due ragioni di interesse. Una è costituita dal suo valore documentario – attraverso l’utilizzazione del carteggio di Louis Bourgnet, sulla rivista «Bibliothèque italique» redatta fra Losanna e Ginevra, e pubblicata nel periodo 1728-1734 presso l’editore Marc Michel Bousquet interessato ad aprire al mondo franco-svizzero alcuni aspetti del dibattito culturale-scientifico italiano. L’altra è dovuta alla copiosa documentazione inedita del (e sul) Maffei sfuggita anche al Garibotto nella sua edizione delle lettere maffeiane: soprattutto la sua corrispondenza con il Bourgnet e con il Seigneux de Correvon (progettatore fin dal ’24 della «Bibliothèque italique»). Da questa corrispondenza emerge la «politica culturale» del Maffei che addirittura forniva tracce minutissime di «autorecensioni» della sua attività riprese e volte in francese dalla «Bibliothèque» e cosí (fino al caso limite di una finta lettera di un erudito inesistente, scritta in realtà dal Maffei, come dimostra la grafia del suo segretario) denunciava la sua patetica e accorata volontà di difesa e apologia della propria attività e del proprio ruolo nella cultura italiana proprio nel piú intenso periodo delle sue aspre polemiche con molti suoi contemporanei, compreso il Muratori.

Pietro Metastasio, Opere scelte, a cura di Franco Gavazzeni, Torino, UTET, 1968, pp. 1149.

La presente raccolta di opere metastasiane (che presenta con brevi e diligenti introduzioni informative, soprattutto sulle opere in musica create sui testi teatrali metastasiani, alcuni drammi – Didone abbandonata, Catone in Utica, Artaserse, Issipile, Olimpiade, Attilio Regolo, Il re pastore –, alcune azioni e feste teatrali – L’asilo d’amore, Il Parnaso accusato e difeso, Le Cinesi –, alcune azioni teatrali sacre – Betulia liberata, Gioas re di Giuda –, varie cantate, rime, e una scelta dall’Estratto dell’arte poetica di Aristotile e dalle lettere, oltre un’appendice che riporta molto utilmente varianti dalla Didone, dal Catone, dall’Artaserse: il tutto utilmente appoggiato a note estremamente sobrie di carattere soprattutto esplicativo) è prevalentemente orientata (e la scelta e la misura del taglio delle lettere è ben significativa in proposito: non scelta in funzione della prosa e arte epistolare metastasiana e dell’illuminazione della personalità umana e storica dello scrittore, ma in funzione delle idee e prese di posizione del poeta teatrale sul teatro e sulla musica) nella prospettiva di una presentazione del poeta melodrammatico e del suo relativo problema programmatico-artistico entro la storia del melodramma settecentesco e del rapporto testo letterario-musica. Tale preminente prospettiva (solo aperta a considerazioni piú storico-sociali-culturali all’altezza del contrasto fra il Metastasio e l’avanzare dell’illuminismo) è resa esplicita dalla lunga, elaborata, e indubbiamente impegnativa e intelligente introduzione, arricchita da una nota biografica e da un’ottima ed esauriente nota bibliografica. Introduzione che, riprendendo e svolgendo le idee in parte già espresse dal Gavazzeni nel suo volumetto Studi metastasiani – Padova, Liviana, 1964 – (articolato in quattro studi: La poesia giovanile del Metastasio, Le diseguaglianze stilistiche della «Didone», Metastasio, lingua e imitazione, Il Croce e il giudizio del De Sanctis sul Metastasio), svolge il suo discorso folto e sottile (e spesso forse anche troppo sottile e complicato) sui seguenti punti fondamentali: delineazione del problema del melodramma (anzitutto proprio nella consistenza poetica del testo, prima che dei suoi rapporti con la musica) attraverso le prese di posizione del Muratori, Gravina, Martello, Marcello, nonché i pratici procedimenti di costruzione del testo melodrammatico all’inizio del secolo (Bernardoni, Stampiglia, Zeno); inserimento e valutazione dell’originalità del Metastasio in tale linea («il Metastasio sta allo Zeno come la realizzazione al proposito: quanto infatti in quello appare effetto di consapevole adesione al programma arcadico, di sicuro dominio della tradizione drammatica, nello sviluppo metastasiano è integralmente ripreso e, piú che ritoccato e rielaborato, trasformato d’incanto in virtú di una piú discorsiva inserzione della lingua lirica nella trama dialogica; di una mitigazione costante dei modi espressamente appartenenti alla maniera teatrale, della leggerezza di tutto l’impianto scenico e della conseguente perspicuità del disegno drammatico. Inconfondibili contrassegni di una facilità teatrale equivalente ad una dichiarazione di congenialità con la tradizione melodrammatica che realizzava di acchito il suo punto di equilibrio nell’incontro con il rinnovato schema zeniano»). Poi il saggio delinea la ricostruzione dell’iniziale periodo del Metastasio (fra ’12 e ’17) e del suo punto di partenza attraverso i rapporti con il Gravina (e il Caloprese): adesione sul punto della compenetrazione di poesia e filosofia, dissenso nella diversa congenialità con la tradizione tardo-cinquecentesca e barocca, peculiarità delle sue origini di improvvisatore (predilezione della rima, «abitudine a pensare secondo schemi prefissati ed a fruire di un bagaglio di citazioni poetiche, stilisticamente predisposte a dar forma a precise esigenze espressive») e – su tali basi – riconoscimento, fin nel Giustino, di una già progredita inclinazione melodrammatica in confronto alla soggezione agli schemi della tragedia regolare (donde un doppio registro stilistico) e inclinazione progrediente melodrammatica, studiata con fine attenzione, fino all’altezza della Didone su cui l’introduzione del Gavezzeni si allarga in uno studio molto particolareggiato. Nella Didone il Metastasio, avendo presente lo sforzo programmatico-prammatico della riforma arcadica primo-settecentesca (Gravina, Martello, Maffei, Conti) e l’esigenza del proprio pubblico, si «destreggia» fra i poli estremi della «mozione popolare degli affetti conseguente alla vistosa espressione delle passioni implicita nel teatro greco» e dell’«esigenza di contenuti maggiormente adeguabili al mutato costume civile e reperibili in una storia, come la romana, costellata di esempi contrassegnati dal superiore dominio della ragione sui moti dell’animo» e cosí, «oltre ad evitare di legarsi ad un soggetto rigorosamente storico, si sottrae anche all’impasse di dover scegliere tra la vittoria ed il dominio delle passioni con l’adozione di entrambi i termini dell’opposizione nelle figure di Didone e di Enea». Insieme il Metastasio, tenendo in giusto conto la critica del Gravina ai generi letterari, risaliva dalla sua utilizzazione prima piú letteraria dell’epica virgiliana e tassesca verso uno sviluppo del loro potenziale drammatico progressivamente adeguando l’azione ad una tendenza «liricizzante», ad «una lingua di estrazione usuale e prosastica imposta dalla necessità teatrale di un’immediata comprensione».

Ne deriva una situazione di equilibrio «tra ambizioni di regolarità tragica e caratteristiche strutturali del melodramma, finalmente informante la stessa trama linguistica», un efficacissimo giuoco di personaggi corrispondente alla ricerca metastasiana di «conciliazione di eroicità e umiltà, eccezionalità e normalità fra protagonisti e personaggi secondari» assorbita in Didone (con novità e ribaltamenti rispetto ai suoi precedenti tentativi scenici), personaggio portato «ad assumersi per intero il compito di rappresentare il vero nel finto con la sua carica di vitalità, la frequenza di atteggiamenti drammatici, l’emotività di un carattere acre e risentito, assolutamente inedito ed esorbitante dagli schemi consueti del melodramma, tanto da compromettere apertamente la verosimiglianza della sua tragica risoluzione» se non fosse che l’«istinto teatrale» dell’autore ovvia questo pericolo e nel terzo atto l’«incalzante progressione dei fatti non concede requie e, nell’ambito stesso delle singole scene, brevi e concise, inibisce ogni specie di razionale motivazione, cosí che i personaggi, impotenti a fronteggiare il precipitare dell’azione, e come determinati dall’esterno nei loro atti, paiono piegarsi ad un disegno prestabilito, la cui necessità drammatica va felicemente dissimulata nelle quinte di un’ineluttabile fatalità».

Aperto poi un lungo discorso sulla situazione dell’arricchimento del panorama musicale dei principali centri melodrammatici da parte di nuovi compositori (Vinci, Leo, il Sassone) nel terzo decennio del secolo e nei loro riflessi sull’evoluzione del testo melodrammatico, il Gavazzeni traccia la linea evolutiva che va nel Metastasio dalla Didone all’Issipile e all’Olimpiade (che realizzava l’abbandono dell’apriorismo caratteristico e insieme l’impiego dell’azione nella definizione dei caratteri) attraverso il lento e complesso passaggio nelle opere intermedie. Il discorso critico passa quindi alla zona successiva puntando sul Temistocle e l’Attilio Regolo con la loro centrale irradiazione eroica – soprattutto nel secondo – e con la perfetta armonizzazione dei motivi secondari al tema centrale, con la sua rigorosa connessione scenica in cui il congegno materiale riscattava la sua meccanicità in una costante necessità drammatica. Dopodiché piú fortemente il critico fa valere il nesso fra l’opera metastasiana, le condizioni concrete della corte viennese, la diffidenza immediata e crescente del poeta cesareo nei confronti dell’illuminismo enciclopedistico, abbondantemente illustrata attraverso prese di posizione delle lettere e attraverso il configurarsi didattico e polemico del melodramma metastasiano (soprattutto nel caso significativo del Re pastore): diffidenza e ostilità crescenti quanto piú cresce l’aggressività dell’enciclopedismo, ma realmente consolidata nell’ultimo ventennio della vita metastasiana, in opere che rappresentano l’isolamento metastasiano rispetto al vivo flusso della storia, il suo ancoramento ad una prospettiva invecchiata, la sua espressione in opere che sembrano «assolvere il compito di commemorare l’alta civiltà spettacolare di un passato glorioso, prolungandone l’eco in circostanze eccezionali, con il riesumare le fortunate forme di quel melodramma, il cui presente significato era ormai riposto nella celebrazione di una tradizione illustre, ed implicitamente dell’ambiente che ne aveva reso possibile l’affermazione».

Il saggio del Gavazzeni è certo assai pregevole e stimolante e, per la sua densità e originalità di profilazione, richiederebbe lungo discorso volto a estrarne i punti e i problemi piú fertili e a misurarne i limiti e i punti meno convincenti. Lo sforzo generale è certamente unitario e tende a superare nella totale prospettiva teatrale i precedenti problemi circa la qualità poetica metastasiana e l’indole piú genuina della sua poesia. Eppure cosí facendo tali vecchi problemi non mancano di reclamare una loro considerazione e soluzione (basta, ad esempio, rilevare la perfezione scenica e costruttiva dell’Attilio Regolo, per eludere la domanda di fondo sulla autenticità o meno della sua prospettiva eroica e quindi dell’effettiva forza della sua irradiazione eroica?). Mentre l’attenzione prevalentemente rivolta allo sviluppo teatrale del melodramma metastasiano par motivare la scarsissima attenzione data ad un’opera come il Demofoonte (perciò mancante anche nella scelta delle opere), cosí importante, accanto all’Olimpiade, non solo per tante ragioni tecniche, ma per l’estrema tensione del profilo melodrammatico metastasiano fra pessimismo e fiducia razional-provvidenziale, fra attrazione di soluzione tragica e lieto fine, oltre che per tante altre ragioni di fondo, a mio parere troppo trascurate dal Gavazzeni e relative alla personalità storica metastasiana che in questa introduzione assai poco si chiarisce. E cosí, se non manca nel saggio la volontà di far valere entro la storia piú specificamente teatrale ragioni e condizioni di storia ideologica e social-politica (a volte viceversa persin troppo evidenziate: il caso appunto del Demofoonte rivisto soprattutto nel suo legame con la volontà metastasiana di accentrare «la prospettiva imperniata sull’opposizione tra l’obbligo istituzionale ed il gioco delle passioni», «in omaggio alla magnificenza del Cesare asburgico», «nella figura di un monarca cui l’azione si lega in forme sempre piú esclusive»), tale volontà non si attua per tutto l’arco del percorso metastasiano, a sostegno doveroso di una interpretazione che voglia essere integralmente storica. Tali carenze si riflettono poi nella stessa scelta delle opere (e specie delle lettere), mentre si vorrebbe ancor rilevare qualche eccessivo uso, rivelativo, di parole come «miracolo» per quanto riguarda la prospettiva metodologica che sottende questo saggio, pur cosí fine, elaborato e certamente rilevante nella recente critica metastasiana.

Giuseppe Galasso, Sul pensiero religioso del Genovesi, «Rivista storica italiana», LXXXII, 1970, pp. 800-823.

Partendo dal vecchio problema (impostato fin dai suoi contemporanei) della ortodossia o meno del Genovesi, delle sue venature, maggiori o minori, giansenistiche, della consistenza effettiva del suo cristianesimo e cattolicesimo o di una sua «religiosità» ormai sostanzialmente laica nella sua semplicità evangelica, il Galasso – con questo saggio denso e articolato che si avvale anzitutto delle piú recenti indicazioni del Venturi – si addentra nella disamina storicistica, cauta e capillare, del pensiero religioso del grande riformatore meridionale, seguendolo nel suo sviluppo e nel condizionamento storico della sua particolare situazione nelle condizioni sociali e culturali del Regno. Se il Genovesi stesso si definiva «mezzo molinista», il Galasso approfondisce la verità di tale autodefinizione: accettazione del molinismo «nei suoi punti qualificanti per individuare un certo tipo di cristianesimo, ma rifiuto o, piuttosto, riluttanza ad una elaborazione teologica spinta e completa di tali punti. Partecipazione alla spinta ottimistica e liberale del molinismo, ma con una accentuazione del suo significato razionale ed esistenziale piuttosto che del suo aspetto di tendenza teologico-confessionale» (e, d’altra parte, chiara consonanza con il giansenismo sul tema di contrasto fra rigorismo e lassismo e su quello della necessità della rivelazione o dello stato di natura). Cosí il Genovesi si mostra preoccupato di ridurre entro limiti ristretti e precisi la parte dogmatica del cristianesimo e le dottrine che in esso appaiono «opposte alla retta ragione», punta su di un cristianesimo evangelico, contraddistinto da pace e tolleranza (donde l’avversione risoluta alle guerre di religione, cosí fortemente attaccate da altri grandi spiriti della civiltà illuministica come il Parini), dalla convinzione di una naturalità della religione che pure non pare intaccare la sostanziale ortodossia genovesiana che insieme va intesa nella sua storica pregnanza (estrema sobrietà nella difesa del «culto esterno» non accettato nelle sue forme superstiziose e negli eccessi del culto mariano o del Sacro Cuore: forme superstiziose e false che «vengono a guastare il costume e a farci in mille modi malvagi e atei di pratica»), nel suo riferimento ad una essenziale esigenza morale e sociale: donde sia il sostegno del Genovesi all’uso dell’italiano nella liturgia, sia, e piú, la sua preoccupazione di realizzare una funzionale presenza religiosa nella vita sociale alla luce della sua valutazione del rapporto fra religiosità e felicità (e utilità sociale). Tale valutazione e le sue implicite conseguenze meglio si misurano entro la svolta «intieriana» del Genovesi del 1754, quando meglio si può cogliere la genesi di posizioni religiose e di polemiche circa il dovere del cittadino di battersi per la religione dello stato, circa l’autorità disciplinare e dottrinale della Chiesa (posizione in cui sono visibili «i segni della influenza del gallicanismo, del giannonismo, del febronianesimo»). La forza indiscutibile della posizione anticurialista e giurisdizionalista del Genovesi indusse ad un’immagine di lui come di un «abate non credente» (o a quella crociana di un «personaggio evangelico dell’evangelo della Ragione») che il Galasso critica ponendo fuori discussione la religiosità personale del grande riformatore e puntando su di una storicizzazione piena che si misura sul cammino percorso dal Genovesi, da posizioni piú giovanili a quelle della sua piena maturità e degli scritti dei suoi ultimi dieci anni di vita.

Cosí il confronto fra la prima (1743-1752) e la quarta (1760-1763) edizione dei suoi Elementa Metaphysicae porta a notare il passaggio «da una visione prevalentemente filosofica ad una visione prevalentemente etico-religiosa», da una valutazione teorica e teologica della religione ad una posizione fervidamente apologetica e moralistica. In tale posizione matura «l’opera di avanzamento civile che egli si era proposto gli appariva indissolubilmente pregna di religiosa pietà».

Abbandonato il lavoro teologico che aveva promesso a Benedetto XIV, tutto lo sforzo piú profondo del Genovesi si precisa nella ricerca di un nesso piú ricco e preciso fra rinnovamento della cultura civile (entro cui si profilava la sua grande opera di rinnovamento degli studi economici) e rinnovamento della cultura religiosa, «fra l’auspicato progresso economico e sociale e la rottura del chiuso mondo ecclesiastico che il Genovesi si era trovato di contro», nesso che egli ritenne di aver trovato nella categoria dell’utilità sociale. Da qui il calore di una certezza intellettuale e morale dei suoi ultimi anni. Ma a tale certezza corrispondeva la sua delusione circa le speranze di un rapido avviamento del rinnovamento alla vita sociale del regno, ostacolato soprattutto dal potere ecclesiastico nei suoi rapporti vincolanti per lo stato e la società. Da qui deriva l’impegno genovesiano nella lotta anticuriale (del resto preceduta da una lunghissima attività di revisore regio dei libri) in cui il Genovesi riprendeva e «potenziava, calcolandola nella indagine della storia economica giuridica, la tradizione giannoniana della istoria civile, secondo un modulo che negli ultimi decenni del secolo contrassegnò in modo originale e fecondo la ripresa del grande giurisdizionalismo napoletano».

«Cosí il Genovesi giurisdizionalista e regalista degli ultimi anni viene fuori piuttosto dalle delusioni – o semplicemente, da un maggiore realismo – del riformatore che da un profondo travaglio religioso, anche se poi a tale forte posizione giurisdizionalista e anticurialista degli ultimi anni si accompagna in lui un ulteriore raffinamento e spiritualizzazione della sua religiosità, di cui specialmente le lettere dell’ultimo biennio sono una testimonianza spesso commovente».

In conclusione per il Galasso la via da battere per portare avanti una ulteriore indagine sul pensiero e la vita religiosa del Genovesi sarebbe quella di «riformulare in termini nuovi il dibattito un po’ astratto della sua ortodossia e del suo giansenismo», misurandolo sul terreno dell’incontro «fra cultura moderna e dottrina cristiana, fra filosofia sociale e serenità razionalistica dell’illuminismo, da un lato, e religione tradizionale, dall’altro», e insieme storicizzandolo nel rapporto fra il Genovesi e «una realtà politico-sociale assolutamente determinata qual era il Regno di Napoli»: rapporto che «vieta di vedere nel Genovesi un generico adepto di un qualsiasi terzo partito cattolico e ne fa un consapevole protagonista di una importante fase della storia culturale e civile del suo paese».

Lorenzo Da Ponte, Memorie e altri scritti, a cura di Cesare Pagnini, con prefazione di Piero Chiara, Milano, Longanesi, 1971, pp. 935.

Questo pregevole volume, arricchito da belle tavole fuori testo, rilancia a un vasto pubblico le celebri Memorie del Da Ponte, munite di un ampio e utile corredo di note, di una precisa bibliografia delle opere del Da Ponte e delle pubblicazioni da lui curate, di un elenco delle edizioni delle Memorie, di una bibliografia della «letteratura dapontiana» (dove sarebbe stato utile registrare anche interventi piú direttamente critici sullo «scrittore» ritrovabili per lo piú in storie letterarie e antologie settecentesche) e seguite da un’appendice che riporta vari scritti del Da Ponte piú pertinenti alle Memorie stesse (Compendio della Vita di Lorenzo Da Ponte; Sull’Italia, discorso apologetico di Lorenzo Da Ponte in risposta alla lettera dell’avvocato Carlo Phillips al re d’Inghilterra; Storia della lingua e letteratura italiana in New York; Storia incredibile, ma vera. Storia della compagnia dell’opera italiana condotta da Giacomo Montresor in America in agosto 1832; Frottola per far ridere; Poesie). I testi, curati dal Pagnini (che aveva già curato l’edizione delle Memorie nella B.U.R. 1960), sono introdotti da un vivace saggio dello scrittore Piero Chiara, teso a riproporre in succinto le vicende avventurose dello scrittore veneto e a giustificare l’importanza della figura dell’«avventuriero» entro la storia degli avventurieri del Settecento richiamata in un raccordo a caratteri del secolo XVIII in verità piuttosto generici («… quando si abbia di mira il carattere dell’epoca, il quale conferí a tutta la cultura del tempo e non solo a quella degli “irregolari” una fisionomia instabile, dominata dalla frammentarietà e dalla molteplicità degli interessi, si deve ritenere che il fenomeno degli avventurieri non è che la naturale conseguenza di una situazione politica molto fluida e di una facilità di spostamenti da una nazione all’altra favorita dall’intensificarsi dei commerci, di una piú vasta circolazione del denaro e soprattutto della disponibilità dei principi e regnanti ad accogliere e esperimentare tutto ciò che affiorava dall’attività parascientifica e miracolistica del tempo») e nei tratti peculiari del Da Ponte piuttosto sbrigativamente riassunti in una definizione pur stimolante («patetica figura di atleta dell’esistenza») e carenti di un pur necessario calcolo delle sue qualità scrittorie.

Ippolito Pindemonte, Annibale in Capua, a cura di Virginio Bertolini Verona, Remo Editore, 1969, pp. LIII-105.

In questo volume il Bertolini pubblica la tragedia Annibale in Capua che il Pindemonte scrisse nel 1804-1805 e che era rimasta inedita fra i manoscritti pindemontiani della Biblioteca Civica di Verona. La lunga introduzione del curatore ricostruisce la cronaca di questo inedito, tale rimasto anzitutto per volontà dell’autore che, dopo fortissimi dubbi sul valore di questa sua opera e il giudizio duramente negativo del Cesarotti (da lui richiesto fra preventive dichiarazioni di totale insoddisfazione ed evidenti speranze di vederle smentite o attenuate dall’autorevolissimo amico), decise di non pubblicare il suo manoscritto scrivendoci in testa «da bruciarsi», e tuttavia senza bruciarlo! Vicenda di perplessità inscrivibile nella incertezza della psicologia dello scrittore veronese accentuata anche (fra timori e alibi) dai timori di pericolose personali conseguenze in caso di pubblicazione dato che (come egli scriveva nel 1806 al Bettinelli) «le allusioni sono cosí forti che sarebbe imprudenza grande il metterla in luce» (anche se poi in realtà le allusioni, pur evidenti, alla invasione e occupazione francese in Italia e alla figura di Napoleone non superano certo le ben diversamente motivate, chiarite e aggressive posizioni foscoliane nell’Ortis e nei Sepolcri: ma Pindemonte non era Foscolo). Tale riferimento (spesso piuttosto confuso e fragile) alla situazione contemporanea avrebbe comunque meritato una illustrazione piú precisa e impegnativa nella lunga introduzione del curatore, sia a documento, comunque, dei difficili e vari rapporti fra gli scrittori italiani e la rivoluzione francese e il dominio napoleonico (intolleranza della invasione e dell’occupazione nei suoi aspetti vessatori e strumentalizzatori, contraccolpo antidemocratico – i duri e atterriti attacchi alla plebe – e nazionalista con punte piú confuse di critica alla società italiana prerivoluzionaria caratterizzata da mollezza e lusso della classe dominante), sia e meglio nel profilo della involuzione pindemontiana dopo i primi entusiasmi di aristocratico liberalmoderato per una monarchia di tipo costituzionale (il poemetto dell’89, La Francia) verso le posizioni rassegnate e sin codine e bigotte degli anni piú tardi. Cosí come sarebbe stato piú interessante inserire quest’opera (certo assai debole, velleitaria e confusa in sede sia ideologico-politica sia psicologica) nel generale cammino letterario del Pindemonte anche dal punto di vista stilistico piuttosto che, come fa il Bertolini con diligenza, ma con limitatezza di sfondo e di approfondimento, vedere l’opera solo nel rapporto con le altre opere teatrali e con le idee teatrali del Pindemonte e dilungarsi in un tentativo poco produttivo di moderata valutazione positiva di questa tragedia (in un confronto troppo meccanico con la svalutazione datane dal recente lavoro del Cimmino sul Pindemonte): valutazione poi troppo contenutisticamente rivolta sia a indicare i rapporti dell’Annibale con le Gemelle capovane del Cebà e con la fonte liviana, sia a tratteggiare il pro e il contro della caratterizzazione dei personaggi, per poi passare ad una elencazione di passi e di sequenze di versi scrittoriamente efficaci (o piú spesso accettati positivamente per il loro amato virtuoso-eroico o malinconico-dolce in sede di buoni e bei sentimenti). Sicché la parte piú utile della introduzione rimane quella relativa alla cronaca ricordata della composizione e mancata pubblicazione della tragedia (con indicazioni implicite di un impegno elaborativo e correttivo del Pindemonte interrotto a metà opera da una sopraggiunta svogliatezza e crescente impersuasione circa il valore del suo scritto: donde anche la mancata trascrizione della stesura a noi rimasta e presumibilmente prima ed unica) e del suo intrecciarsi con le caute e dubitose manovre dello scrittore di trovare conforto e stimolo nel giudizio cesarottiano, passato da una prima breve risposta (ora integralmente pubblicata in questa introduzione) piú aperta e non del tutto scoraggiante al lunghissimo e negativo «commentario» tuttora inedito (fra i manoscritti Pindemonte nella Civica veronese) ma qui sunteggiato con citazioni dirette, che il Cesarotti inviò piú tardi all’amico e che – pur apparendo al curatore eccessivamente severo – tolse al Pindemonte ogni voglia di risolvere positivamente i propri fortissimi dubbi.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 75°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1971.

Pier Jacopo Martello, Rime per la morte del figlio, a cura di Giacinto Spagnoletti, Torino, Einaudi, 1972, pp. 70.

Nell’elegante «collezione di poesia» di Einaudi viene ora raccolto il piccolo canzoniere del primo-settecentesco Martello in morte del figlio. Si tratta certo di una non inutile presentazione ai non specialisti di un gruppo di 34 sonetti e di altri 4 componimenti in versi, dominato dal tema della morte del figlio Giovanni Battista (arcadicamente Osmino) e indubbiamente assai notevole e tutt’altro che privo di un suo gracile ma assai convincente fascino letterario-poetico: fascino recentemente rilevato (pur nei suoi limiti) anche nella mia, seppure compendiosa, delineazione e interpretazione della lirica arcadica contenuta nel Settecento della Storia della letteratura italiana Garzanti (1968, pp. 386-387), in cui però mettevo in guardia contro ogni forma di esaltazione esagerata e romantico-attualizzante, magari alla luce di una poco lecita attrazione contenutistico-tematica del Dolore ungarettiano, che rompesse i sicuri legami che quella lirica aveva con la poetica arcadica e con il suo filtro di linguaggio letterario. Con quella raccomandazione di cautela storica mi riferivo proprio ad un’operazione di enfatico recupero delle rime del Martello per la morte del figlio già tentata dallo stesso Spagnoletti in un suo saggio del 1952 su «Paragone» (poi ripubblicato in Pretesti di vita letteraria, Catania, 1953), saggio che aveva subito provocato una fine e particolareggiata nota su tutto il Martello del mio, allora, giovanissimo allievo, Franco Croce, nel numero 1-2 del 1953 di questa rivista.

Lo Spagnoletti invece ha ritenuto (pure scartando il riferimento ungarettiano) di dover insistere sulla sua proposta, preliminarmente accusando, nella sua introduzione, «eruditi» e «accademici» di aver ignorato la poesia di questo piccolo canzoniere entro una generale scarsa considerazione del Martello come lirico e, magari (seppure riferendosi alla zona di studi fino al secondo Ottocento) ritrovando una ragione del silenzio o del non rilievo di questo canzoniere perché fuori da un canone degli affetti «tutto pieno di amorosi sensi verso la Donna, esteso alla nostalgia e al rimpianto della Casa, dei Genitori, della Patria, ma dal quale esula lo strazio della perdita di un figlio» (che, se poi si pensa alla tematica della lirica arcadica, non potranno dimenticarsi almeno le rime della Maratti Zappi per la morte del figlio Rinaldo).

Il discorso dello Spagnoletti (per il testo e il commento rimando alle precise osservazioni del Fubini nella recensione largamente esposta nella scheda seguente) si svolge quindi rilevando l’«esorbitante» posizione del Martello «riferita al costume letterario coevo», il «potere demiurgico» esercitato da Osmino («viene perfino invocato per far cessare i dolori della madre ‘travagliata dalla colica’»), la novità del Martello che «non consiste nel costringere l’immagine del figlioletto entro un modello mitologico, ma nel far rimbalzare il ricordo quotidiano che conserva di lui – il figlio –, occhi, capelli, gesti, atteggiamenti, entro la cornice del mito» e nel farne centro degli «accostamenti piú impensati» suggeriti dalla «commozione» del Martello. Sicché (dopo vaghi accenni al passaggio dal gusto barocco a quello rococò) l’autore può concludere che «l’opaca e noiosa vicenda dell’Arcadia minore ha avuto – come si vede – i suoi lampi drammatici e insieme i suoi segreti turbamenti, non diversamente da tutte le storie che per essere troppo conosciute in superficie, in realtà non lo sono affatto. Leggendo queste rime, sola parte viva del Canzoniere del Martello, è come se il velario dipinto che trattiene tutto quel mondo complimentoso ed altero, di desideri e «altercazioni» pastorali, si levi d’un tratto per lasciare scorgere nell’angolo misterioso, dove la scena pareva vuota, una piccola tomba di vero marmo, con veri fiori appena deposti da qualcuno che prega, quasi fosse fuori del teatro, o per una volta si sforzasse di esserlo».

Discorso assai sfasato e mal realizzabile nelle sue varie affermazioni e nel suo generale e piuttosto enfatico risalto dato a queste rime oltretutto troppo isolate rispetto alla civiltà letteraria arcadica e rispetto alle altre offerte pur cosí interessanti della vasta produzione martelliana (si pensi fra l’altro a quelle «finissime commedie per letterati» su cui io ho particolarmente insistito sia nel Settecento garzantiano sia in un saggio particolare nel volume L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963).

Sinceramente, pur con il riconoscimento, inizialmente espresso, dell’interesse di una presentazione di queste rime martelliane a un vasto pubblico (presentazione bisognosa però di ben diversa cura di edizione e di commento), non si può non rilevare nella introduzione dello Spagnoletti una ipervalutazione troppo astorica e troppo scarsamente attendibile, con molto dubbio vantaggio per un vero e giusto approccio critico sia alle stesse rime pubblicate sia all’intera personalità del Martello.

Mario Fubini, rec. a P.J. Martello, Rime per la morte del figlio, a cura di G. Spagnoletti, Torino, Einaudi, 1972, «Giornale Storico della Letteratura italiana», CXLIX, 1972, 466-467, pp. 431-439.

In questa accuratissima e acutissima recensione, che si presenta insieme come autentico contributo critico al problema del Martello, il Fubini, pur con grande garbo e con il riconoscimento di interesse del volumetto recensito, profila in realtà una minuta e attentissima smontatura dell’edizione, del commento, dell’introduzione dello Spagnoletti. Circa l’edizione (ricordato che la «collana» martelliana è stata messa insieme e ordinata non dal poeta, ma dall’editore) il Fubini rileva i numerosi errori di trascrizione, cosí come, per quanto riguarda il commento, giustamente osserva che lo Spagnoletti si è limitato troppo spesso a spiegare singole parole e non le frasi, bisognose di spiegazione, e che manca ogni segnalazione di allusione e citazione a testi poetici di cui il Martello ha usufruito (il caso ad es. del sonetto Questa pianta odorata e verginella, per ila quale il commentatore si slancia subito in un paragone sbagliato con Pianto antico, non rilevando che quel sonetto riprende di peso il capoverso del madrigale tassesco per le nozze della Peperara e rappresenta «quasi una variazione su uno spunto tassesco, o, se si preferisce, una fantasiuccia tutta letteraria rampollata dal componimento del Tasso»), mentre cade in veri e propri errori di fatto come là dove ritiene che la malattia, causa della morte di Osmino, sia stata una polmonite, e non – come si chiarisce facilmente – la malaria o piú probabilmente una «perniciosa» dovuta appunto alla malfamata aria di Roma circondata da terreni paludosi. Già questi errori rimandano alla grave mancanza di attenzione e capacità interpretativa del curatore, che si è posto di fronte ai testi da lui tanto esaltati senza quella adeguata conoscenza della storia letteraria settecentesca e dei suoi antecedenti, a causa anche della quale egli – e a dispetto di ogni successivo avvertimento critico (il Fubini infatti osserva che «gli è sfuggito, si vede, che di recente Walter Binni di queste rime ha discorso nel Settecento garzantiano senza esaltazioni ma con simpatica intelligenza e storica comprensione») – ha potuto esagerare la novità eccezionale del canzoniere martelliano, avulso dal contesto storico e storico-letterario dell’epoca arcadica («in cui, secondo un’idea convenzionale, tutto dovrebbe essere convenzionale, fittizio, retorico») e privato di quella componente di «compiacimento del letterato per la novità del soggetto, per le variazioni che riesce a trarne – e non sono poche e delle piú impensate» –, che tempera (e non perciò svaluta, come potrebbe apparire ai ricercatori di un’originalità assoluta e tutta contenutistica) l’ardire innovatore del Martello e il suo sincero motivo affettivo in quella gentile e letteratissima atmosfera di gusto che accomuna la ricerca poetica del Martello a molta della migliore e piú interessante lirica arcadica.

Partendo poi dall’osservazione della componente di compiacimento del letterato e del suo interesse letterario nel dibattito pastorale-accademico dell’Arcadia (a cui si legava evidentemente l’ecloga Altercazioni in discussione con quel capraio Mileto che altri non è che Francesco Montani, come il Fubini dimostra con un minuto rilievo, espertissimo, delle allusioni del componimento citato, o il sonetto Queste che a piè dell’Eliconio monte, «mediocre saggio di letteratura tardo-secentesca che riprende enfatizzandoli moduli di certi componimenti del Petrarca» e atteggiato, nella chiusa, a moduli pittorici di origine carraccesca, o altri sonetti sulla morte inaspettata di Osmino che richiamano un clima devoto di origine controriformistica e un gusto manieristico), il Fubini può – in attrito con la lettura dello Spagnoletti – indicare una via di lettura tanto piú storica e articolata di questo piccolo canzoniere, tra forme di eredità piú barocca e forme di consonanza piú sicura con la migliore Arcadia proprio là dove i risultati espressivi e affettivi martelliani appaiono piú sicuri e convincenti col loro discorso piú «piano, sciolto, familiare nel lessico come nella sintassi»: riprova della «disponibilità del Martello, della mutevolezza del suo stile o dei suoi stili e perciò della difficoltà di definire la sua personalità di poeta» («del resto, fatte le debite eccezioni, egli resta miglior prosatore che poeta e ci ha dato forse il suo capolavoro nel dialogo Il vero parigino italiano»), e riprova, per tutti noi, di come il Martello migliore (anche nell’ambito del canzoniere per Osmino) sia proprio quello che piú procede in accordo – seppure con sue note e caratteri assai personali – con la migliore e piú storica Arcadia e non contro di essa, come vorrebbe farci credere lo Spagnoletti, che evidentemente troppo parzialmente conosce e il Martello e l’Arcadia.

Pietro Verri, Discorso sull’indole del piacere e del dolore, a cura di Armando Plebe, Milano, Marzorati, 1972, pp. 71.

Nella collana degli «Scrittori italiani» dell’editore Marzorati (sezione filosofica e pedagogica diretta da M.F. Sciacca) appare un’edizione del celebre saggio verriano molto parcamente annotata (molto migliore è senza dubbio quella uscita nel 1964 presso l’editore Feltrinelli, assieme ad altri scritti verriani di filosofia e di economia, a cura di R. De Felice) e preceduta da un’introduzione in cui il curatore stempera notizie correnti e scolastiche su «vita opere pensiero» del Verri, giungendo a qualche finale rilievo assai banale, sfuggente e privo di ogni caratterizzazione circa la figura del Verri «pensatore sottile» anche in filosofia e in letteratura, e sul «Discorso come opera che ha una sua sostanziale validità, soprattutto ai fini di un’analitica disanima dei rapporti fra il piacere e il dolore, anche se la sua originalità, pur non essendo tanto scarsa come alcuni critici vorrebbero, ha tuttavia quei limiti che derivano dall’affrontare uno dei temi piú dibattuti dell’illuminismo francese inglese e italiano». Evidentemente il curatore se la cava con un segno positivo e un segno limitativo troppo generici: proprio sui caratteri del pessimismo energetico verriano e sulla forza delle sue intuizioni fra illuminismo e sensismo, ricco di presentimenti sentimentali e preromantici, entro un robusto e severo senso della felicità e dell’utile umano, e sulla sua originalità entro lo stesso quadro europeo e soprattutto in quello particolare del secondo Settecento italiano, il discorso critico-storico andava impostato e portato avanti se a questa nuova edizione del Discorso si voleva dare una direzione interpretativa.

Antonio Simone Sografi, Le convenienze e le inconvenienze teatrali, a cura di Gian Francesco Malipiero, con una nota bibliografica di Cesare De Michelis, Firenze. Le Monnier, 1972, pp. 256.

Nella benemerita collezione «in ventiquattresimo» fondata dal Pancrazi, e ora diretta da Montale e da Vittore Branca, vengono ripubblicate le due commedie o «farse» del fecondo commediografo padovano che, nella sua disponibilità eccessiva ai gusti del tempo e del pubblico (rimando in proposito al mio brevissimo profilo nel Settecento della Storia letteraria Garzanti, pp. 578-579), sembra trovare – accanto agli esiti notevoli della commedia di tipo goldoniano Olivo e Pasquale – i suoi piú accettabili e gradevoli risultati proprio nella farsa Le convenienze teatrali – tanto inferiore e piú pesante e insistita l’altra, Le inconvenienze teatrali – che, riprendendo alla fine del Settecento il filone comico inaugurato cosí genialmente dal Gigli con la Dirindina, dal Metastasio con l’Impresario delle Canarie e tanto piú densamente dal Marcello con il Teatro alla moda, trova modo di spremere ancora dalla messa in ridicolo del mondo teatrale melodrammatico (con le pretese, l’incultura, gli intrighi, soprattutto in questo caso, degli attori) una goccia non limpida e succosa, ma pur piacevole e francamente divertente di comicità farsesca, fondata appunto su di una satira, sempre piú facile e poco impegnativa, di costume, e su quella di un polilinguismo direttamente dialettale, di italiano dialettizzante o di italiano storpiato da stranieri (e si pensi – nelle origini di un procedimento comico ormai piú estenuato all’altezza del Sografi – alla diversa forza comica, in tal direzione, di un Gigli nella Sorellina di Don Pilone con l’italiano-tedesco della falsa marchesa di Poppignau).

Le due commediole o «farse», riprodotte dall’edizione del 1799 la prima, dall’edizione 1816 la seconda, sono dotate di un essenziale commento esplicativo lessicale e di una notizia bio-bibliografica, a cura di Cesare De Michelis, e sono introdotte da un brevissimo scritto del Malipiero. In questo il musicista veneziano – riferendosi a un suo vecchio libro del 1925 (I profeti di Babilonia, Milano, Bottega di Poesia) che raccoglieva scritti di venti letterati settecenteschi italiani che, «sensibili alla musica pur non essendo del mestiere, criticavano il teatro musicale, profetizzando una pericolosa confusione», e cinque satire «tutte contro le ridicole abitudini del mondo dell’opera in musica» – lamenta di non aver potuto inserire in quel suo libro il Sografi, allora a lui sconosciuto e di cui ora ha incontrato le due farse (giustamente valutate diversamente: la prima «opera spontanea, divertente, ben proporzionata», la seconda «piú voluta»), additando della prima il modello e la «vera fonte» nel Teatro alla moda e considerandola (ma occorrerebbe almeno calcolare, come sopra dicevo, anche la commedia Olivo e Pasquale) come il capolavoro del Sografi, «appunto perché opera nata al di fuori di falsi patriottismi», come il Malipiero dice riferendosi alle commedie patriottico-giacobine che nel periodo repubblicano veneziano il Sografi scrisse, con un impegno del resto non molto superiore a quella volontà di assecondare i gusti del tempo e del pubblico che lo portò a scrivere drammi lacrimosi fra preromanticismo e romanticismo in piena affermazione nonché (innocuo «voltagabbana», convinto del suo dovere di disponibilità e di responsabilità personale) a celebrare frettolosamente il dominio austriaco dopo il trattato di Campoformio. Sicché l’accenno del Malipiero va inteso realmente, piú che in relazione al prevaricare «politico» dei «furori patriottici», in rapporto al divario fra una farsa piú libera e festosa (e perciò riuscita) e tutta una operosità troppo condizionata dalla volontà di adeguarsi prontamente ai desideri del pubblico.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1973.

Giovan Battista Zappi, Faustina Maratti, Eustachio Manfredi, Carlo Innocenzo Frugoni, Poesie, a cura di Bruno Maier, Napoli, Casa Editrice Fulvio Rossi, 1972, pp. 525.

Questa vasta antologia di quattro importanti rimatori arcadici si raccomanda sia per la vastità della scelta, sia per l’accuratezza dei testi e del sobrio, preciso commento. La breve introduzione generale del Maier (direttore di questa sezione letteraria della collana dei «Classici della cultura italiana» il cui piano è stato redatto da M. Dal Pra, A. Del Monte, G. Quazza e M. Vitale) si presenta equilibrata e intonata ai risultati piú recenti degli studi critici sui rimatori arcadici (specie quelli del Fubini e i miei), ma piú interessanti e puntuali sono i profili direttamente introduttivi alle singole antologie dei singoli quattro rimatori.

Quello sullo Zappi – superato il cliché polemico di origine barettiana – tende a rilevare varie direzioni e aspetti della lirica zappiana: quello del gusto di antitesi e sentenze (con un linguaggio avvocatesco collegabile con la stessa professione forense dell’autore), quello del superstite gusto barocco (o barocchetto?), quello della galanteria, quello legato alla componente «socievole» e cerimoniale-encomiastica, quello, piú interessante, della direzione melodrammatica in due toni diversi: quello petrarchista e quello anacreontico-scherzoso. Su questa ultima direzione (a mio avviso la piú congeniale e storico-personale dello Zappi) vengono illustrati particolarmente il celebre dittico della «partenza» e del «ritorno» e il sonetto XXXIV che piacque al Foscolo. Per la Maratti (a cui nel 1954 il Maier dedicò un volumetto interessante, ma forse troppo celebrativo e, a mio avviso, troppo sbilanciato verso l’aspetto eroico dei sonetti sulle donne romane), rilevata la forte condizione di letterarietà presente nelle sue poesie, viene accentuato il grado di sincerità (in cui la letterarietà «non ostacola, ma anzi approfondisce l’espressione di un sentimento che fu sicuramente forte e sincero») delle rime per il marito, si riduce (rispetto al saggio del ’54) il giudizio elogiativo dei sonetti per le donne romane, di cui si sottolinea giustamente l’influenza guidiana.

Circa il Manfredi – a parte la naturale importanza data alle rime per monacazione e specie alla canzone per Giulia Caterina Vandi – appare giusto il rilievo della finezza e sobrietà, della limpida malinconia della canzone per la morte del Filicaja.

Quanto infine al Frugoni (convenientemente assegnato ad una fase piú chiaramente rococò-preilluministica), il profilo del Maier punta sulla situazione del rimatore ufficiale della corte di Parma e sull’ampiezza della sua produzione relativa alle richieste del suo pubblico e alle occasioni della sua vita socievole e ufficiale, approfondendo la sua condizione di borghese al servizio di una società aristocratica anche nel paragone con il Savioli – tanto piú compatto e sicuro –, aristocratico che canta il mondo aristocratico della sua città (con possibilità, penso, di portare avanti il paragone anche in rapporto alle istanze complesse e storicamente scandibili che convergono in quelle due diverse poetiche). Segue una scelta della produzione frugoniana anche alla luce della sua importante sperimentazione metrica, entro la quale io personalmente avrei piú insistito sui componimenti in sciolti, con il loro piú schietto gusto conversevole e bonariamente realistico.

Come si vede si tratta di profili che variamente esplicitano piú acquisiti motivi critici e ne propongono alcuni nuovi e interessanti.

Domenico Luigi Batacchi, Le novelle, a cura di Ferdinando Giannessi, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. XII-321.

La raccolta-scelta delle novelle del Batacchi (si tratta appunto di una scelta delle Novelle e di alcuni racconti inseriti nella Rete di Vulcano e nello Zibaldone: ma si sarebbe desiderata una precisazione bibliografica puntuale in proposito), corredata da rare note esplicative, è introdotta da un breve scritto del curatore che rapidamente ricostruisce la biografia del Batacchi e denuncia la cancellazione di questo scrittore dalla nostra tradizione letteraria per ragioni moralistiche (laddove Goethe e Foscolo ne dettero giudizi lusinghieri, ma in verità, a nostro avviso, troppo generosi: il primo del resto lo avvicinava sí al Casti, ma rilevando cautamente la piú forte concentrazione di questo e la sua maestria nel dominare la propria materia). A questo oblio, alla nausea, perfino, rilevabile, per es., in un accenno del Carducci, il Giannessi oppone un giudizio nettamente positivo: «il Batacchi è poeta non grande ma vero» e «le sue doti autentiche » (che ora possono essere apprezzate da un gusto adeguato) sono quelle del «dissacratore sboccato, ma non malizioso, che affastella disordinate reminiscenze culturali e le mette in caricatura per ridurre tutto – linguaggio, personaggi, vicende – a insolentissimo balletto». Del mondo rappresentato «anziché partecipe, egli è sempre spettatore distaccato; guarda e sorride. E il distacco, il sorriso lo salvano dalla volgarità». A mio avviso un simile giudizio di valore (certo, piú ridimensionato rispetto a quello tanto piú esagerato che il Giannessi aveva espresso sul Batacchi, collegato al gusto preromantico o, meglio, alla crisi dei valori dell’illuminismo, nella sintesi Illuminismo e romanticismo in La letteratura italiana. Le correnti, II, Milano, Marzorati, 1956) rimane pur sempre eccessivo quanto al valore dissacratorio attribuito al piú modesto rilievo che l’opera del Batacchi ha nello stesso limitato côté libertino italiano, e cosí anche in sede di preannunci di gusto mi pare che «il non labile indizio di gusto preromantico» che sarebbe costituito dalla versione batacchiana dei romanzi del Richardson resti viceversa assai labile, data la diffusione assai vasta della narrativa richardsoniana già a livello di sensiblerie illuministica piú che veramente preromantica.

John Milton, Il paradiso perduto, traduzione di Lazzaro Papi, introduzione di Sergio Baldi, note di Iginia Dina, Milano, Bietti, 1972, pp. 510.

Molto utile va considerata questa ristampa della traduzione del Paradiso perduto che lo scrittore neoclassico Lazzaro Papi eseguí probabilmente fra il 1806 e il 1810 (pubblicandola nel 1811 a Lucca con dedica a Elisa Baciocchi) e poi ripubblicandola, con correzioni, ancora nel 1817, nel 1827 e nel 1829. Essa è non solo la migliore fra le traduzioni del poema miltoniano (diversa e piú sicura di quella, pur famosa, di Paolo Rolli), ma costituisce uno dei documenti piú interessanti della poetica neoclassica del tradurre (non senza riflettere scrupoli di ortodossia cattolica e scrupoli di «buon gusto» neoclassico che indussero il traduttore-ricreatore – avverso ai «passi aridi e duri» di disquisizione strettamente teologica – a tagli e a revisioni ispirate all’eleganza e ad ornamenti retorici) di cui il Papi fu uno dei piú significativi rappresentanti, come lo fu, per altri versi (nei suoi Commentarii della rivoluzione francese), della «prosa illustre» neoclassica. Il testo diligentemente curato e annotato (nonché munito di un indice dei nomi e dei luoghi) è introdotto da un discorso dell’anglista Sergio Baldi (notoriamente assai attento, da tempo, ai rapporti Italia-Inghilterra) che, dopo una lunga parte dedicata direttamente al poema del Milton, traccia brevemente, ma efficacemente, un profilo del Papi, puntando poi sulla sua traduzione miltoniana e rilevando giustamente che la traduzione del Papi è in realtà un «nostro poema neoclassico di lettura ancor valida», e che soprattutto in essa prevalgono da un punto di vista estetico gli esiti di un dolce idillismo peculiari della fantasia dello scrittore lucchese, che pur non manca di intonarsi, anche se con minore congenialità, ai toni del sublime teologico e del sublime epico del testo miltoniano. La pubblicazione della traduzione miltoniana sollecita nuovamente ad una moderna monografia su questo scrittore, degno di un’attenzione maggiore di quella dedicatagli dalla critica.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 2, maggio-agosto 1973.

Hannibal S. Noce, Early Italian translations of Addison’s «Cato», in Petrarch to Pirandello. Studies in Italian Literature in honour of Beatrice Corrigan, edited by Julius A. Molinaro, University of Toronto Press, 1973, pp. 111-130.

In questo diligente ed utile saggio il Noce illustra le prime traduzioni italiane del Catone di Addison (1713), precedute solo dalla versione in prosa francese di Abel Boyer (già dello stesso 1713), dalla quale direttamente fu tradotta un’anonima versione «in prosa toscana» pubblicata ad Amsterdam (luogo reale della stampa?) sempre nel 1713. A parte altre due versioni di cui si ha solo notizia indiretta (di Nicola Saverio Valletta e di Rodolfo Aquaviva), il Noce si sofferma anzitutto a lungo su quella, assai nota, in endecasillabi sciolti, di Anton Maria Salvini (compiuta già prima della fine del 1713, rappresentata a Livorno nel 1714, pubblicata a Firenze nel 1715), esponendone i criteri e il metodo di traduzione che sono poi quelli del notissimo cruscante e traduttore di primo Settecento, impegnato anzitutto nella maggiore fedeltà letterale possibile (fedeltà intesa insieme come mezzo di arricchimento della lingua italiana mediante concetti e usi linguistici stranieri), con quei goffi risultati che resero famoso il Salvini in tutte le sue traduzioni, accresciuti com’erano dalla sua scarsissima sensibilità poetica. A quella del Salvini seguí la traduzione, Venezia 1715, di Luigi Riccoboni che adattò assai abilmente (dopo un primo tentativo interrotto di tradurre dalla versione francese inizialmente ricordata) il testo del Salvini alle esigenze di un pubblico piú vasto e medio con l’uso di una lingua piú parlata, moderna e teatralmente comprensibile e recitabile. Infine fu composto, fra il ’15 e il ’18, il Catone del Martello, che il Noce descrive assai minutamente confrontandolo con quello del Salvini (uso del martelliano, opposizione esplicita alla versione ad litteram) che pure il Martello utilizzò insieme a quello dell’Aquaviva (non avendo a disposizione la versione francese e servendosi solo indirettamente del testo inglese attraverso i consigli di alcuni amici inglesi e del fratello Carlo conoscitore dell’inglese).

Ma la traduzione del Martello (e qui il discorso poteva anche approfondirsi nel piú esatto richiamo alla poetica tragica dello scrittore bolognese) si distingue soprattutto per certe significative modifiche della struttura della tragedia inglese (soprattutto la scena della morte di Catone portata fuori scena perché sulla scena appariva «stomachevole ed orrida»).

Nella conclusione del saggio il Noce rileva poi le ragioni, a suo avviso, della fortuna del Catone addisoniano in Italia (la sensazione di scrittori italiani di avere nell’Addison un alleato nella loro polemica con i francesi, il soggetto romano, regolarità neoclassica del dramma proprio di un inglese e dunque gradito appoggio alla ricerca italiana della regolarità classicheggiante da parte di un teatro, quello inglese, che nella opinione italiana appariva singolarmente irregolare) e nota come la fortuna italiana del dramma addisoniano contribuí all’inizio delle intense relazioni anglo-italiane nel Settecento.

Montesquieu, Viaggio in Italia, a cura di Giovanni Macchia e Massimo Colesanti, Bari, Laterza, 1971, pp. XXXI-342.

La presente traduzione del Voyage en Italie di Montesquieu si raccomanda soprattutto (al di là della sua destinazione di diffusione ad un pubblico sprovveduto della conoscenza del francese) per la cura con cui il traduttore-editore, il Colesanti, ha voluto risalire – diversamente dalle edizioni francesi – piú fedelmente al manoscritto (nella Biblioteca Municipale di Bordeaux), correggendo sviste ed errori degli editori francesi. Sicché alla fine parrebbe da augurarsi che il Colesanti utilizzasse il suo lavoro di ripristino editoriale nella diretta edizione critica del testo francese. Sobrie, ma precise e sicure le note sempre del Colesanti.

Precede un lungo, sinuoso ed elegante discorso descrittivo-interpretativo del Macchia, ricco di indicazioni sottili sulla personalità dell’autore, sul suo piacere di «vedere» e di «capire», e volto ad integrare utilmente ciò che il Viaggio direttamente offre con l’utilizzazione dell’epistolario e di altri documenti montesquieuiani.

Giuseppe Antonio Arena, La rivolta di un abate. Francesco Longano, Napoli, Liguori Editore, 1971, pp. 200.

In questa monografia diligente e arricchita da un’appendice che riproduce vari scritti inediti (alcuni brevi documenti di archivio, una lettera del Longano, un Ritratto poetico, storico e critico del Longano, L’autore delle nuove istituzioni del diritto della natura umana ad un amico, Lettere critiche di Fra Cappuccino contro l’Autore del Diritto della natura umana composta per uso del Seminario di Larino) vengono presentate la figura e l’opera dell’abate illuminista molisano di cui solo recentemente ci si è piú attentamente occupati da parte di Franco Venturi. Di questo allievo prediletto del Genovesi lo studio ripercorre le difficili vicende (aspirò invano a succedere al maestro sulla sua cattedra di Napoli) causate dall’ostilità della gerarchia ecclesiastica che non poteva tollerare i suoi attacchi recisi all’ortodossia religiosa e politica, e rileva le posizioni di pensiero valide soprattutto nel campo politico (filosoficamente egli oscillò fra materialismo meccanicistico e scetticismo) dove, con un forte avanzamento (rispetto al Genovesi) verso le idee cosmopolitiche e utopistiche, il Longano combatté nelle sue opere (in gran parte polemiche) per un rinnovamento sociale e politico, che – pur rimanendo nei limiti dell’assolutismo illuminato – tendeva ad una maggiore apertura democratica, polemizzando insieme contro i residui del sistema feudale e contro gli affioranti privilegi borghesi.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1973.

David Silvagni, La corte pontificia e la società romana nei secoli XVIII e XIX, introduzione, note e commenti di Lucio Felici, Roma, Biblioteca di Storia Patria, 1971, 4 voll., pp. 353, 379, 367, 369, con tavole fuori testo.

L’opera del Silvagni – apparsa in prima redazione provvisoria a Firenze nel 1881 e in redazione definitiva a Roma, tra il 1883 e il 1885 –, pur restando a mezzo fra storiografia e memorialismo aneddotico, costituisce una delle poche fonti sulla vita sociale e culturale sette-ottocentesca nella Roma pontificia. Volontario nel ’48, combattente con Garibaldi nella Repubblica romana del ’49, il Silvagni ricostruisce i fatti non da storico professionista, ma da uomo d’azione e di parte, da patriota laico, rigidamente anticlericale. Amico di personaggi illustri della politica e della letteratura, poté, peraltro, rovistare agevolmente in archivi pubblici e privati, portando alla luce testimonianze inedite, talvolta di notevole interesse storico. Il suo vasto affresco abbraccia gli ultimi trent’anni del secolo XVIII e i primi settanta, circa, del XIX, ma la parte piú valida è proprio quella settecentesca, che riproduce, fra l’altro, il diario dell’abate Lucantonio Benedetti (un importante documento sulla Roma giacobina) e presenta colorite pagine sulle accademie, sui caffè letterari, sui circoli politici, sui soggiorni romani dell’Alfieri e del Monti, sulle satire popolari contro il governo, sugli spettacoli teatrali, sugli attori e sui cantanti.

In questa edizione, curata da Lucio Felici, l’opera è stata per la prima volta accompagnata da un profilo dell’autore, da un ampio apparato di note e commenti (che confrontano le valutazioni del Silvagni con quelle della moderna storiografia), da indici dei nomi, dei luoghi e degli argomenti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 1-2, gennaio-agosto 1974.

Gian Vincenzo Gravina, Scritti critici e teorici, a cura di Amedeo Quondam, Bari, Laterza, 1973, pp. 720.

È il primo volume dell’edizione delle opere del Gravina, curate dal Quondam nella collana «Scrittori d’Italia». Piace anzitutto sottolineare l’importanza che giustamente vien data al grande pensatore di estetica e di poetica con la pubblicazione critica della maggior parte dei suoi scritti, ché a questo primo volume ne seguiranno un secondo di testi inediti e delle opere poetiche e un terzo che raccoglierà il carteggio, sicché i lettori avranno finalmente a disposizione (in edizione critica) tutta l’opera graviniana ad eccezione degli scritti giuridici ritenuti piú estranei ai programmi della collana «Scrittori d’Italia».

Particolarmente importante è il presente volume che raccoglie opere celebri e divulgate (ma ora criticamente edite) come il Discorso sull’Endimione, la Ragione poetica, la lettera al Maffei sulla Divisione d’Arcadia, quella, pure al Maffei, De disciplina poetarum (in realtà da designare, secondo l’accertamento del curatore, come De poesia, titolo dell’edizione originale del 1716), i Regolamenti degli studi, il Della tragedia, ma anche o meno note ai non specialisti o non piú edite modernamente come il trattato De lingua etrusca, e soprattutto l’Hydra mystica, grande espressione della personalità graviniana nelle sue istanze morali e religiose antigesuitiche, oltre a vari opuscoli e Orationes.

Il testo critico è seguito da una vasta nota filologica e preceduto da una nota critica che riprende e rielabora il ritratto del Gravina, già delineato dal Quondam nella sua monografia graviniana del 1968.

Mario Fubini, rec. a Gian Vincenzo Gravina, Scritti critici e teorici, a cura di A. Quondam, Bari, 1973, «Giornale Storico della letteratura italiana» 1973, 472, pp. 621-625.

Questa recensione accurata ed acuta rileva con piena soddisfazione l’importanza dell’impresa filologica del Quondam (solo esprimendo qualche dubbio sulla opportunità di dare il primo testo del De poesia e di riportare nell’apparato i passi aggiunti nell’edizione piú recente, e proponendo un capovolgimento di questa sistemazione) e giudica molto interessanti i giudizi del Quondam sul Gravina, pur rimandando ad obbiezioni fatte in una precedente recensione alla sua monografia graviniana del 1968 e ora aggiungendo una riserva per quanto riguarda «alla rinnovata interpretazione della funzione esercitata dall’Arcadia romana e dalle sue colonie, un’interpretazione tipica di certo rinnovato prammatismo storico, di cui soffre la nostra cultura e di cui piacerebbe si liberasse uno studioso cosí dotato per giungere a un’interpretazione piú comprensiva e meno deformata della storia». Dell’attenzione e della costante tensione del Fubini a portare contributi anche in recensioni e anche in ambito piú minutamente erudito è prova la finale elegante discussione riguardante il brano riportato dal Quondam dello «Stampatore a chi legge», premesso all’edizione delle due lettere al Maffei circa il giudizio graviniano sui poeti tragici, che risulterebbe ritrattato in una successiva lettera graviniana invano ricercata dal Quondam e che, secondo il Fubini, non si troverà mai, perché mai scritta, essendo solo un’invenzione del Maffei («estensore assai probabile dello stesso ‘Avviso dello stampatore’»), «a cui doleva che l’autorevole critico nulla avesse detto nelle Tragedie della sua Merope, facendo almeno questa eccezione nel giudizio comparativo del teatro antico e moderno», e cosí tanto piú che una simile lettera «avrebbe smentito le censure di Bione-Gravina alla Merope nel Femia del Martello, dal Martello confermate come autentiche nella lettera che si accompagnava a quella commedia, inedita ma circolante manoscritta nei circoli letterari». Sicché quell’avviso dello «Stampatore a chi legge» costituirebbe «un altro documento della vanità del Maffei... e non invece la traccia di ulteriori sviluppi del pensiero graviniano sulle tragedie».

Renato Pasta, La battaglia politico-culturale degli illuministi lombardi, Milano, Principato, 1974, pp. 299.

Nella nuova collana «La ricerca storico-letteraria» dell’editore Principato (curata da S. Guglielmino), pensata come varie altre collane recenti in vista di una divulgazione scolastica e para-scolastica di vario grado, appare adesso questo volume che si articola in una breve introduzione (seguita da una cronologia e da una bibliografia essenziali, solo troppo priva di rimandi a saggi riguardanti gli aspetti piú specificamente letterari del movimento presentato) e in una vasta, utile antologia sia di scritti degli illuministi lombardi e preceduti da brevi cenni introduttivi sia di scritti di storici posteriori, fra loro integrati. Le parti dell’antologia sono: La riforma dell’economia, Diritto penale e dignità umana, La riforma della cultura (questione della lingua e ruolo della letteratura, rinnovamento letterario e poetico del sensismo, cultura e società), Bilancio di un’età. Vorrei solo osservare per quanto riguarda l’antologia che sarebbe stato utile (poiché il Pasta condivide la mia idea di uno sviluppo, già in seno al «Caffè», di sensismo in direzione sentimentale preromantica) riportare anche qualche brano piú significativo in tal senso di Alessandro Verri come La prova del cuore e il Comentariolo contro la definizione: l’uomo è un animale ragionevole.

Franco Venturi, Tre note sui rapporti tra Diderot e l’Italia, in «Essays on Diderot and the Enlighenment in honor of Otis Fellows», edited by John Pappas, Genève, Droz, 1974, pp. 348-362.

La prima di queste dotte e interessanti note (contributi minori, ma non privi di raccordo con l’incessante esplorazione orientata che il nostro maggiore storico del Settecento prosegue con invidiabile continuità di interesse e di lavoro) riguarda l’occasione offerta da un Omaggio poetico che Antonio Di Gennaro (1768), duca di Belforte (personaggio che andrebbe studiato entro il ricco ambiente napoletano di secondo Settecento all’incrocio di sviluppi illuministici in direzione preromantica e neoclassica: si pensi al rapporto particolarmente importante fra il Di Gennaro e il Bertola), a una ripresa della disputa fra i difensori del gusto italiano e di quello francese, perché un erudito napoletano, Carlo Vespasiano, allora a Parigi, pubblicò un’edizione parigina del componimento poetico del Di Gennaro e cercò per quello un traduttore francese allo scopo di aprire una nuova discussione sulle qualità della lingua italiana e di quella francese come egli dichiarava in una lettera dedicata alla contessa di La Vieuville, lettera che pure voleva far tradurre in francese. Egli si rivolse addirittura a Diderot, che non accettò l’incarico e questo rifiuto fu interpretato dal Vespasiano (in una lunga epistola stampata in appendice all’Omaggio poetico del duca di Belforte) alla luce dei pregiudizi francesi sulla lingua italiana e sulla sua ampollosità retorica di cui il Vespasiano faceva un’appassionata e ben retorica, apologia come di lingua altamente poetica cui ostava in Francia il «pericoloso» razionalismo della lingua francese e cui invece proprio Diderot avrebbe dovuto ben essere sensibile. La seconda profila il rapporto fra Diderot e l’Arcadia di cui egli aveva parlato con grande rispetto sotto la voce Académie della Encyclopédie. Di questo rispetto gli arcadi furono grati a Diderot e l’abate Pizzi, nella sua prefazione al libro del principe Luigi Gonzaga di Castiglione, Il letterato buon cittadino, Roma, 1776 (prefazione che fu «un vero e proprio manifesto della seconda Arcadia»), citava con orgoglio fra i nuovi pastori Fontenelle, Voltaire, De Polignac e appunto Diderot, in un anno importante per il rilancio dell’Arcadia (in tempi tanto mutati da quegli in cui l’Arcadia aveva avuto la piú vera funzione storica e letteraria) entro cui si inserisce un tentativo di stabilire nuovi legami fra l’Arcadia e amici ed eredi dell’Encyclopédie, tentativo di cui il Venturi porta nuovi documenti e soprattutto quella Lettera di un principe italiano ad un virtuoso filosofo francese con cui Luigi Gonzaga, indirizzandosi al Bailly, esaltava l’amore nei suoi aspetti piú elevati e principio ed espressione di «socialità», polemizzando a lungo con Rousseau e rivolgendosi invece, fra speranze e timori, per creare e suscitare «il bello ideale dell’amore», a uomini come Diderot, Buffon, Bailly e gettando cosí («entro l’atmosfera della Parigi degli ultimi anni di Diderot, del misticismo massonico, delle lotte attorno al mesmerismo e delle ormai incombenti passioni della rivoluzione») «un ponte, sia pur fragile e aereo, fra questo mondo e quello del neoclassicismo romano della seconda Arcadia».

Infine la terza nota, brevissima, accenna ad alcune assolute incomprensioni di Diderot da parte italiana, quale è quella rivelata da un’anonima Necrologia di Diderot apparsa nel periodico fiorentino «Lo spirito dell’Europa letteraria e politica» (III numero del 1784).

Ferdinand Boyer, Projets de conquêtes artistiques à Turin et à Parme sous la convention, «Revue des études italiennes», nuova serie, XVII, 1971, 2-3, pp. 228-231.

Ricordata la grandiosa politica di arricchimento culturale e artistico della convenzione (politica nazionalistico-giacobina a favore dell’accrescimento delle capacità intellettuali e artistiche del «grande popolo rivoluzionario»), il Boyer pubblica una lettera che alcuni ex membri della Commissione dei Monumenti (creata nel 1790 e soppressa nel dicembre 1793) indirizzarono il 23 maggio 1794 ai membri del Comitato di Salute Pubblica (rivolgendosi anche direttamente a Barère) per segnalare le opere da confiscare a Torino e a Parma, non ancora sotto dominio francese, ma sicuramente destinate all’occupazione delle armi francesi vittoriose, e ne identifica i quattro estensori (N.R. Jollain, G. Lemonnier, J.M. Moreau, F.V. Mulot, esperti di arte e di cose italiane). Le indicazioni di questa lettera che precisano pezzi d’arte e manoscritti preziosi furono poi realizzate (per quanto riguarda l’Italia) dopo le vittorie napoleoniche del ’96 sotto il Direttorio.

Interessante è la motivazione della confisca suggerita (motivazione tipica almeno per l’alibi di cui i firmatari han bisogno nell’epoca della Convenzione, diversamente dalla spregiudicatezza predatoria del Direttorio): «Le Français n’a pas sans doute le dessein de se faire payer de la liberté qu’il va rendre à ses frères encore sous le joug des dominateurs qui les oppriment; mais de justes indemnités doivent, et compenser les depenses que la guerre lui occasionné, et le dédommager des maux que les tyrans voisins lui ont faits».

Mario Rosa, Politica e religione nel ’700 europeo, Firenze, Sansoni, 1974, pp. 120.

Nella coerente collaborazione fra testo vero e proprio, notizia bibliografica ragionata e antologia di brani a loro volta introdotti da brevi inquadramenti storico-descrittivi, il presente volumetto appare molto utile come introduzione, per non iniziati, allo studio sia delle correnti religiose nel Settecento soprattutto francese (ma anche olandese, inglese, tedesco, austriaco, italiano), sia del rapporto fra tali correnti e la politica degli stati europei. Per la Francia si parte dal braccio di ferro fra Luigi XIV e le correnti giansenistico-gallicane a proposito della bolla papale «Unigenitus», alla crescita e alla sconfitta del «partito» giansenistico con la dichiarazione reale del 1730, alla fase del giansenismo «convulsionario» con la conseguenza di urto fra libertini e credenti e, dentro lo stesso fronte giansenistico, alla grossa polemica intorno al ’50 dei «biglietti di confessione» (negati ai giansenisti), per giungere alla vittoria dell’illuminismo enciclopedico e voltairiano con il suo spirito di tolleranza e di superamento delle dispute religiose. Illustrata poi la singolare situazione della Chiesa di Utrecht, il discorso (con le sue pezze di appoggio) si appunta su «ecclesiologia e politica ecclesiastica» da Febronio a Tamburini, sulla diffusione della «regolata devozione» muratoriana, sulla lotta fra cattolici e increduli e la nascita della «pietà illuminata» (mentre si studia il calvinismo in Francia, la diffusione del pietismo e del metodismo), per poi concludere sul nesso religione-politica nella presentazione del riformismo giuseppino e leopoldino.

Sarà da aggiungere che le sollecitazioni di questo volumetto, che riprende un vasto e crescente interesse per la storia religiosa settecentesca, cosí importante per i rapporti con la politica degli stati di fronte ai movimenti religiosi e alla Chiesa di Roma e per la formazione alternativa, integrativa, oppositiva di movimenti religiosi rispetto al movimento laico borghese del riformismo illuminato e della stessa soluzione rivoluzionaria, riguardano anche lo studioso della letteratura e della letteratura italiana in particolare e sempre piú una concreta visione storica della nostra letteratura dovrebbe tener conto in tutti i suoi aspetti di tale concreto aspetto della vita del secolo; si pensi anche proprio in confronto di poetiche letterarie non solo ai grandi casi di primo Settecento (Gravina, Maffei, Muratori), ma a certi aspetti «popolari-devoti» del Metastasio, alla ripresa della «regolata devozione» in Goldoni, alla posizione di Parini, a tutta la polemica teatrale legata alle posizioni del rigorismo (Concina) e all’intreccio di promozione e infrenamento da parte dei gesuiti. Insomma anche a livello dei grandi scrittori e dei grandi aspetti dello svolgimento letterario sempre meglio andrebbe ingranato il loro studio nelle condizioni variamente reattive e adiuvanti dei movimenti religiosi e dei loro aspetti politico-sociali, arricchendo una problematica storica per lo piú attenta ad aspetti vistosi (e a volte) della pura emergenza di fatti politico-sociali e delle correnti del pensiero laico e progressista, senza dimenticare però il fatto che le punte piú avanzate della nostra letteratura settecentesca (caso massimo Alfieri) soprattutto si muovono nel graduato impulso delle correnti laiche e razionalistiche, sensistiche, materialistiche, cosí come le stesse correnti religiose piú avanzate e interessanti alimentano le loro autentiche spinte religiose nell’attrito spesso piú adesivo che reattivo, con le grandi linee del pensiero laico moderno (razionalismo, sensismo, materialismo).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 77°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1974.

Carlo Francovich, Storia della Massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione, Firenze, La Nuova Italia, 1974, pp. 517.

Il presente massiccio volume, frutto di ricerche lunghe, difficili e nuove, è non solo importantissimo per la storia della Massoneria in Italia con le sue implicazioni ideologiche e politiche (il Francovich ne segue l’introduzione, l’affermazione e lo sviluppo combattuto soprattutto cercando di distinguere, forse con qualche forzatura schematica, la corrente massonica di tipo progressista, illuministico e razionalistico fino a forme rivoluzionarie, dalla corrente massonica piú spiritualistica e magica-mitica che egli designa come «preromantica» e in cui vede prevalere anche aspetti di impostura e di inganno e quindi personaggi che sotto l’insegna massonica erano dei chiari lestofanti e approfittatori), ma è utilissimo anche per la storia letteraria, visto il numero di scrittori che vengono identificati come impegnativamente appartenenti alla Massoneria o come di questa «in qualche modo collaboratori» (come a me pare il caso del Goldoni con la sua commedia Le donne curiose) o come ad essa iscritti in una fase della loro vita e poi distaccatisene e addirittura violentemente avversi (il noto caso dell’Alfieri).

Cosí basti qui ricordare la professione massonica identificata o meglio chiarita e illustrata non solo del Crudeli o del Casanova, ma del Bertola, del Biffi, del Caluso, del Fantoni, del Filangieri, del Jerocades, del Meli, del Pagano, del Pilati, di Giovanni Pindemonte, del Rezzonico, del Savioli.

Per un esempio di utilizzazione dell’attività «muratoria» in relazione a posizioni incidenti alla fine sulla stessa prospettiva poetica di alcuni scrittori (nonché in rapporto a certe dittature letterarie, anche se certo non spiegabili solo in tal chiave) rinvio al mio scritto Carducci politico, in Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960, 19744. Ma si pensi, ad esempio, anche ad un Monti e ai suoi cambiamenti politici e poetici a cui, penso, contribuirono gli stessi cambiamenti della Massoneria fra il periodo repubblicano, napoleonico e austriaco. Sicché saremmo grati al Francovich se egli volesse, e potesse, portare avanti lo studio e la ricostruzione della storia della Massoneria in Italia durante l’Ottocento e, ancora (anche se piú difficile e forse, per ovvie ragioni, impossibile), fino all’epoca attuale.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 80°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1976.

Dal Muratori al Cesarotti, tomo V, Politici ed economisti del primo Settecento, a cura di Raffaele Ajello, Marino Berengo, Eric Cochrane, Erasmo Leso, Renzo Paci, Giuspeppe Ricuperati, Salvatore Rotta, Franco Venturi, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1978, pp. XXXVIII-1197.

Questo poderoso volume viene ad arricchire l’importantissimo settore settecentesco (già diretto dal Fubini) della grande collana della Ricciardi, La letteratura italiana, Storia e Testi (già diretta da Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffini). Per quanto riguarda la parte politica e storica del settore settecentesco, ben si sa quanto essa debba anzitutto a Franco Venturi e per quanto egli direttamente ha prodotto nella collana Ricciardi e per quanto vi ha promosso con i suoi studi settecenteschi. Cosí questa grande antologia di politici ed economisti del primo Settecento (in zona preilluministica e già ispirata da princípi riformatori) è certo nata nello spirito di rinnovamento del quadro dei vari centri locali della penisola del primo Settecento che appunto Venturi già nel ’54 aveva impresso agli studi con il suo saggio sulla personalità e sull’opera di quel Radicati di Passerano che viene ora giustamente presentata, nella lucidissima ed esauriente nota introduttiva di Venturi e nella scelta dei suoi scritti piú sintomatici, ad apertura dell’antologia, dopo una iniziale introduzione generale dovuta al Ricuperati che equilibratamente presenta il quadro generale del rapporto economia-politica nella penisola e nei suoi vari stati e la funzione che vi ebbero le personalità presentate nel libro e collegate come intellettuali legati al mediato rapporto fra la politica e la crisi economica svoltasi fra la fine degli anni Venti e gli inizi degli anni Trenta e nella relativa organizzazione degli intellettuali, entro cui giustamente il Ricuperati avverte (proprio per la figura piú sconcertante e complessa del Radicati) che «ogni sociologia della cultura, pur necessaria, è però del tutto insufficiente quando ciò che rimane da misurare è la forza creativa dell’uomo».

Dopo l’esemplare parte dedicata da Venturi a Radicati, che stabilisce il rapporto fra note introduttive e parte antologica (in qualche caso un po’ squilibrata a netto vantaggio delle prime), ricorderemo le varie voci del volume: Marco Foscarini a cura di Erasmo Leso; Girolamo Tartarotti a cura di Marino Berengo; Antonio Cocchi, Giovanni Lami e Giuseppe Maria Buondelmonti a cura di Eric Cochrane; Lione Pascoli a cura di Renzo Paci; Girolamo Belloni a cura di Alberto Caracciolo; Alessandro Riccardi e Costantino Grimaldi a cura di Giuseppe Ricuperati; Paolo Mattia Doria a cura di Salvatore Rotta; Carlo Antonio Roggia a cura di Raffaele Ajello.

Carlo Denina, Le rivoluzioni d’Italia, a cura di Vitilio Masiello, 2 voll., pp. 1406, Torino, UTET, 1979.

Nella collana dei Classici della Storiografia, diretta da Guido Quazza, è apparsa una meritoria edizione delle famose Rivoluzioni d’Italia del Denina, curata, in maniera ineccepibile, dal Masiello, che riproduce – controllandola sulla prima edizione del 1769-1770 – la terza edizione di Venezia, 1792-1793, e cui, oltre alle sobrie, ma essenziali note, si deve anche una densa e chiara introduzione storica che lucidamente inquadra l’opera edita nel contesto della storiografia settecentesca italiana ed europea e nella particolare prospettiva del Denina pur collegata (nella ricostruzione e interpretazione del passato alla luce degli interessi materiali e ideali della borghesia emergente e protesa alla conquista e direzione dello stato) al profilo essenziale di «ragionevolezza» della storiografia illuministica (ché l’opera del Denina non ha altro pregio e valore e la sua proclamata «diligenza» è giustamente dal Masiello ridotta invece a lavoro di «mera compilazione», come egli dimostra riportando a fronte brani deniniani e brani delle Istorie fiorentine del Machiavelli e della Storia d’Italia del Guicciardini – in forme o piú meccaniche o piú di «rimontaggio», ma sempre di carattere compilatorio) ripresa nei suoi esemplari alti di Montesquieu e Voltaire e nella loro concezione di storia della civiltà. Ma dentro gli schemi storiografici illuministici, il vero livello delle Rivoluzioni d’Italia appare assai modesto e limitato al centrale principio demografico e all’inerente problema dei «costumi» (come austera semplicità e lotta contro il «lusso») secondo tesi diffuse soprattutto nella zona fisiocratica. Sicché anche qui Denina non spicca per originalità della tesi, ma per la sua utilizzazione come canone privilegiato di interpretazione storica e per la sua accezione «antimodernistica» e dunque in relazione con un contesto storico arretrato (quello piemontese-sabaudo del suo tempo). Da ciò deriva l’esaltazione, nella storia, delle epoche di massimo incremento demografico e cioè le epoche «primitive» (l’Italia preromana, la prima età romana repubblicana, i regni romano-barbarici, specie quello longobardico, il periodo feudale e il monachesimo primitivo), sicché anche il «progresso» delle belle arti «è considerato dannoso alla società, svalutati sono i livelli “alti” della civilisation, come avviene anche per la «mobilità sociale» considerata «perniciosa» per l’ordine esistente che Denina sostanzialmente difende.

Questa tematica, acutamente dispiegata dal Masiello, trova nei due ultimi capitoli delle Rivoluzioni d’Italia la «sua diretta e immediata precipitazione prammatica, istituendosi come quadro di riferimento per un progetto di riforma o, a dir meglio, di riorganizzazione della società piemontese, perfettamente sintonizzato con le linee maestre dell’autoctono, empirico e provinciale riformismo sabaudo» (già cosí bene studiato dal Quazza) rispetto al quale il Masiello delinea, con mano sintetica e sicura, lo sviluppo delle idee di riforma del Denina, cosí diverse da quelle dei piemontesi Radicati di Passerano o Dalmazzo Vasco e incentrate sull’esclusivo incremento della popolazione specie rurale, con il blocco della mobilità sociale o il suo rovesciamento (dall’alto al basso), con la diffusione della piccola colonia sul latifondo feudale (in netto contrasto con i progetti trasformatori della proprietà fondiaria di Giambattista Vasco) e con un piano di mobilitazione e di riconversione produttivo e funzionale delle energie del clero: che è la proposta deniniana relativamente piú avanzata (svolta poi nel libro Dell’impiego delle persone) e avversata dal potere regio, ma – a ben vedere – soprattutto per ragioni tattiche e contingenti (rapporti con la corte pontificia), specie nell’appesantirsi dell’atmosfera civile e culturale sotto il regno di Carlo Emanuele e di Vittorio Amedeo II. Del resto questo punto relativamente «piú avanzato e audace» del riformismo deniniano appare riconducibile, alla fine, piú nel quadro dell’assolutismo «classico» che in quello dell’assolutismo illuminato. Sicché sarà inevitabile che Denina (come appare nel libro XXV delle Rivoluzioni d’Italia stampato nel 1793) appaia – dopo la rivoluzione francese – «sempre piú sfasato e anacronistico», sempre piú ridotto nelle sua «piatta misura subalpina» e addirittura privo della sua blanda ispirazione riformistica e tutto ripiegato sul passato e persino sul cattolicesimo primitivo e sul monachesimo delle origini, come conclude questo convincente e coerente prefazione-saggio del Masiello, che già aveva dato un contributo fondamentale sul Denina nel suo saggio del ’69, in «Belfagor», Carlo Denina riformatore civile e storico della letteratura.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, serie VII, n. 1-2, gennaio-agosto 1981.

Alessandro Guidi, Poesie approvate, a cura di Bruno Maier, Ravenna, Longo, 1981, pp. 345. [Questa scheda è il testo di una lettera inviata da Binni all’Accademia dell’Arcadia in occasione di un incontro di studio (Roma, 14 maggio 1981) sull’edizione guidiana, al quale non ha potuto partecipare].

Al Guidi (cosí importante nella complessa storia della prima Arcadia) Maier ha ora dedicato, con il volume presente, una benemerita cura editoriale (per cui va data lode anche alla sua promozione e realizzazione da parte del direttore dell’utilissima collana «Classici Italiani Minori», Enzo Esposito, e dell’editore Longo di Ravenna) e una nuova e approfondita attenzione storica e critica, quale emerge dal commento sobrio, ma essenziale alla comprensione delle poesie guidiane, e soprattutto dalla lunghissima introduzione che si configura – anche sull’appoggio di una puntuale e minuziosa storia della critica (campo in cui Maier ha piú volte dato prova della sua intelligente diligenza e della sua sicurezza storiografica) – come un vero e proprio intero profilo storico-critico del Guidi, validissimo particolarmente anche per la interpretazione delle sue opere «non approvate» e non edite nel presente volume, ma ben calcolate, nell’introduzione, per la varia importanza che esse hanno nello svolgimento della poetica guidiana, ben raccordata agli ambiti temporali e locali delle sue fasi: si pensi proprio alle opere del periodo parmense, cosí a lungo e sicuramente indagato e articolato anche nelle sue esigenze teatrali della corte farnesiana a cui rispondono anche scritti guidiani che, come ben dice Maier, «se esaminati solamente in chiave letteraria, non possono non apparire insufficienti, artisticamente poveri o insignificanti, e persino grotteschi, assurdi, ridicoli, incomprensibili, laddove ben si giustificano e rivelano la loro effettiva realtà, concidente con la loro funzionalità teatrale e spettacolare (e la loro destinazione musicale, che non va mai dimenticata, o trascurata), solo quando siano inseriti nel contesto storico-cortigiano cui appartengono e dal quale non devono essere disgiunti».

Proprio nell’attenzione costante alla «poetica» del Guidi (nel senso centrale e complesso che tale parola ha preso, anche per opera mia, e dunque con raccordi saldi e duttili per il progetto e il fare poetico del Guidi e le componenti della storia concreta, non solo letteraria, del ruolo dell’intellettuale-scrittore, e delle forme letterarie fino alla forma metrica per cui Maier ben utilizza l’importante lezione fubiniana) e nella sostanziale fedeltà ad un metodo di radice storica (con l’etimo della lezione di Russo, nostro comune maestro) tanto arricchito, ma non certo smentito per ciò che esso ha di essenziale e irrinunciabile, trova prima ragione il mio fondamentale consenso al saggio guidiano di Maier e alla sua linea di ricostruzione della storia del poeta pavese. La quale tende centralmente a rilevare, con molto equilibrio, la novità e la sostanziale «continuità» del suo svolgimento, impiantato nell’essenziale vocazione-aspirazione del poeta a dar vita e voce poetica a illustri avvenimenti e a figure di principi-eroi, riportati, con fare grandioso ed epico-lirico (piú volontaristico e potenziale che interamente realizzato), alla maestà della civiltà e della poesia classica, strappati a quella che guidianamente può chiamarsi «la notte e il silenzio dei nomi» ad opera della morte e del tempo, e che Maier definisce come la prospettiva del poeta «ministro» dell’immortalità e della gloria dei principi e degli eroi e come «pindarismo cristiano», in cui il Guidi contempera (o stempera?) la lezione graviniana del «grande classicismo» con la «santa verità» del cristianesimo (e cattolicesimo). Certo, in una esposizione ben diversamente articolata del complesso saggio di Maier (quale avrei fatto a voce se fossi stato presente a questa occasione «arcadica» e avessi anche potuto dialogare con gli altri presentatori del volume e con lo stesso autore del saggio) avrei potuto dar maggiore rilievo a tante parti nuove di questo scritto critico (ad esempio, alla fine e tecnica ma non solo tale trattazione della scelta prevalente da parte del Guidi della forma della canzone) e avrei magari anche meglio saggiato – sulla base dei miei vecchi saggi sul Guidi, in Arcadia e Metastasio e nel Settecento letterario – la proposta cosí salda di una linea di sostanziale continuità che forse potrebbe essere piú fortemente scandita attraverso fasi e svolte (penso soprattutto alla complessità del periodo romano fra la rastremazione persino eccessiva della fase cristiniana e l’assestamento piú congeniale della grandiosità guidiana nella fase piú propriamente «arcadica») che, pur cosí ben delineate da Maier anche con l’uso di categorie figurative-letterarie, «barocco», «tardobarocco», «barocchetto» e «classicismo arcadico», possono apparire forse come un po’ smussate a favore di una maggiore prevalenza di continuità, che comunque (lo si deve ben sottolineare) permette al critico di cogliere, pur in movimento, una fondamentale e unitaria direzione poetica. Cosí come, in zona piú marginale, pensando agli accenni di Maier all’influenza o presenza del Guidi nella letteratura italiana fra Sette e Ottocento (accenni inevitabilmente raccorciati nell’economia del saggio e a cui si riferiranno, penso, anche gli altri presentatori del volume), mentre sottolineerei, con totale consenso, i riferimenti portati giustamente fino al Carducci e particolarmente quelli leopardiani (notevolissimo quello piú ampio all’essenziale rapporto fra Aspasia e il sonetto guidiano Non è costei della piú bella idea, sonetto che, oltretutto, viene giustamente considerato da Maier come la poesia piú convincente e piú «moderna» del Guidi), penserei ad una maggiore necessità di considerazione del rapporto Foscolo-Guidi che, a mio avviso (e senza certo giungere alle esagerazioni di certi vecchi «fontisti» giustamente rifiutate da Maier) sembrerebbe da valutare piú attentamente, non solo per certi sintomatici accordi sul tono bellicoso-eroico all’altezza dei Sepolcri («le bellicose trionfate navi» del Guidi e «tronca fè la trionfata nave» del Foscolo), ma piú sulla via sepolcriana di quella che chiamavo la lotta della poesia contro «la notte e il silenzio dei nomi».

Ma anche le possibili richieste di ulteriore chiarimento e i possibili suggerimenti che nascono dall’interno del compatto e complesso saggio di Maier sono in realtà l’ulteriore riprova proprio della stessa ricchezza problematica di un discorso critico cosí coerente e sollecitante (di cui avrei voluto, ripeto, in tutt’altra economia di spazio e di tempo, lumeggiare tanti altri aspetti nuovi e consistenti, come ad esempio il fitto e sicuro scandaglio nel linguaggio guidiano), discorso critico che può appunto davvero chiamarsi tale, perché, mentre consolida e rinnova l’immagine del poeta studiato, offre stimoli fecondi a ulteriori precisazioni e ripensamenti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1981.

Giuseppe Parini, La Gazzetta di Milano, a cura di Arnaldo Bruni, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1981, 2 voll., pp. LXX-800.

Senz’altro apprezzabile nel campo di studio della pubblicistica illuministica in Italia e in quello particolare dell’attività e dell’opera del Parini sarà da considerare questa pubblicazione della «Gazzetta di Milano» 1769, il «giornale» settimanale di cui fu estensore appunto il poeta del Giorno e soprattutto delle Odi, sui rapporti delle quali con temi trattati nella «Gazzetta» si è piú volte fermata la critica pariniana mentre non ha considerato il possibile valore dell’attività «giornalistica» pariniana sia nella sua prospettiva programmatica (la prospettiva di un illuminista deciso, e moderato, in appoggio al riformismo austriaco), sia nel suo particolare registro scrittorio. Ciò che già al contrario risulta assai nitidamente dalle indicazioni della diligente introduzione del curatore di cui si raccomanda particolarmente la efficace esemplificazione del rapporto fra il testo pariniano e le fonti (per lo piú il «Supplément aux Nouvelles de divers Endroits») che ben chiarisce il valore ideologico e scrittorio delle amplificazioni, delle aggiunte, del taglio in direzione di efficacia anche ironica operati dal Parini, di cui al curatore preme, piú che «distinguere ciò che è del Parini da quello che non lo è» e «ricercare la paternità delle notizie in senso stretto», «tenere presente in un montaggio particolarmente indicativo» che la chiave di lettura di una gazzetta non può consistere «nella ricerca puntigliosa della percentuale di frasi originali del giornalista, derivando piuttosto dal rilievo e dal significato delle notizie e dei commenti che le accompagnano, in conclusione dalla complessiva fisionomia del giornale». Tanto piú, va aggiunto, quando si tratta di un giornalista di eccezione come il Parini.

L’edizione, filologicamente giustificata da una precisa nota al testo, è puntualmente annotata e provveduta di un ricco e utile indice analitico.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1982.

Paolo Mattia Doria, Manoscritti napoletani, a cura di Marilena Marangio, Galatina, Congedo Editore, 1982, p. 572.

È il quinto ed ultimo volume della benemerita edizione degli scritti napoletani del Doria, che, come è ben noto, genovese di nascita, fu napoletano di adozione e costituisce un importantissimo punto di riferimento per lo studio del pensiero meridionale, specie per la cultura filosofica scientifica napoletana della prima metà del Settecento di cui, con personale, seppure complicata prospettiva (fra cartesianismo, platonismo ed empirismo, successivo rifiuto di entrambi e con finale e «pericolosa» – il libro edito postumo nel 1753 fu condannato al rogo per ordine di Carlo III – costruzione utopico-ribelle di una ideale repubblica, Idea di una perfetta repubblica), riflette situazioni e sviluppi. Al di là delle opere pubblicate (da La vita civile e l’educazione del principe, antimachiavellica e contro la ragion di stato, del 1709, alle Opere matematiche del 1722, ai Discorsi critici filosofici del 1724, alla Difesa della metafisica contro Locke del 1732 fino al ricordato libro postumo del 1753), il Doria piú segreto e forse piú autentico è quello delle opere che non volle pubblicare e che egli ordinò manoscritte in dodici volumi depositati presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (in essi è piú facile cogliere sia le contraddizioni che appaiono nella vicenda speculativa del Doria sia le spie delle piú complesse e riposte pieghe della cultura napoletana dell’età del Vico e del primo illuminismo). Tali volumi manoscritti (di cui alcuni saggi, come quelli violentemente antigesuitici o come quelli che descrivono la situazione economico-politica del Regno di Napoli, sono ben noti e già pubblicati) sono stati interamente editi in un corpus, di cui appunto il presente è quello finale, munito di un saggio di bibliografia doriana, dell’elenco dei manoscritti doriani e di utilissimi indici generali. Il corpus (di cui i primi quattro volumi precedentemente apparsi sono stati curati da G. Belgioioso, M. Marangio, A. Spedicati, P. De Fabrizio) esce ad opera dell’Istituto di Filosofia della Facoltà di Lettere dell’Università di Lecce, diretto da Giovanni Papuli.

Silvano Garofalo, L’enciclopedismo italiano: Gianfrancesco Pivati, Ravenna, Longo Editore, 1980, p. 126.

Il presente libro vuol essere un contributo alla ricostruzione dell’«enciclopedismo» italiano di cui il Nuovo dizionario scientifico e curioso, sacro-profano (pubblicato a Venezia in dieci grossi volumi fra il 1746-1751) costituisce un primo esempio di enciclopedismo moderno compilato da un italiano, Gianfrancesco Pivati, padovano, finora poco calcolato e non direttamente studiato, sia per la giusta preminenza data alla grande impresa dell’Enciclopedia (la cui prima edizione in Italia è, come è ben noto, quella di Ottaviano Diodati con modifiche e aggiunte soprattutto di Giovanni Domenico Mansi, Lucca, 1758-1771), sia per la modestia e per il sostanziale tradizionalismo della portata ideologica del Pivati. Comunque (anche se il primo capitolo di questo volumetto sull’ambiente socio-politico, entro cui nacque l’enciclopedia, è assai generico e debole) utile è la ricostruzione della vita del Pivati e della sua attività «editoriale» (rivolta soprattutto a fornire dizionari enciclopedici dal 1744 in poi: Dizionario universale in tre tomi, Nuovo dizionario in dieci tomi, unico e preminente opera intera del Pivati, Dizionario poligrafico in dodici tomi, fermo alla voce «misure») e utile, seppur meno sicura, è la trattazione di alcuni temi che contraddistinguono la posizione culturale del Pivati nel suo Nuovo dizionario: la polemica sul commercio, l’occultismo, la medicina (di cui il Pivati era specialista, cosí come lo era in genere delle scienze naturali) e la medicina elettrica, gli ebrei (su cui il Pivati rivela in pieno le sue contraddizioni fra spinte umanitarie e moderatismo conformista), mentre un capitolo illustra le tecniche compositive del Nuovo dizionario e una brevissima conclusione, un po’ oscillante, tende a dimostrare che «il Nuovo dizionario apportò un notevole contributo alla cultura italiana della metà del secolo», che «nel discutere argomenti sociali, politici e religiosi, l’apertura mentale del Pivati è notevole nel contesto del rigido formalismo che prevaleva nella penisola italiana» (ma, per non dir altro, nella prima metà del secolo non avevano agito Muratori e Conti?), che «i suoi tentativi di incoraggiare i nobili italiani ad imitare la nobiltà inglese assumendo un ruolo dinamico nell’economia del paese rappresentano una rottura completa con le abitudini che si erano stabilite nella repubblica di Venezia» (e Maffei?), che «quando invece discute argomenti di natura controversa la voce dell’autore è improntata alla moderazione ... e non osa sfidare gli insegnamenti dogmatici della Chiesa». Sicché (secondo l’autore), «benché il Nuovo Dizionario non possa essere considerato una pietra miliare per la cultura italiana dell’epoca, è senz’altro qualcosa di piú di un tradizionale testo scritto per soddisfare la curiosità della gente nelle scienze e nell’arte».

Giuseppe Baretti, Scritti teatrali, a cura di Franco Fido, Ravenna, Longo Editore, 1977, p. 116.

Anche se con molto ritardo, ritengo doveroso recuperare la citazione di questa edizione di scritti teatrali inediti e rari del Baretti: gli intermezzi Don Chisciotte e La Filippa trionfante (scritti per l’Opera italiana di Londra nel soggiorno inglese 1751-1760, probabilmente nel ’52, e di cui in questo volume si pubblicano i manoscritti, noti, ma rimasti inediti alla Biblioteca Comunale di Verona: il primo ebbe un’edizione molto scorretta da parte di Irène Mamczarz in appendice al suo Les Intermèdes comiques italiens au XVIIIe siècle en France et en Italie, Paris 1972, il secondo fu anticipato dallo stesso Fido nel «Giornale Storico della letteratura italiana», 1976), il «componimento drammatico» Fetonte sulle rive del Po, cantato a Torino in occasione delle nozze del principe ereditario con l’Infanta di Spagna nel 1750, e il pamphlet La voix de la discorde del 1753, pure del primo periodo inglese.

Come il curatore giustamente nota nella breve introduzione (con nota bibliografica), questo piccolo corpus di scritti teatrali testimonia del talento teatrale sicuro – forse non eccezionale – di uno scrittore che alla letteratura teatrale aveva dedicato una parte notevole della sua critica, magari in feroce polemica proprio con quel Goldoni cui si deve lo sviluppo stesso degli «intermezzi» e cui il Baretti deve (dal suo soggiorno veneziano) in gran parte stimolo e appoggio assai chiaro a questi suoi intermezzi. Piú debole il Fetonte, scritto occasionale, legato alla diplomazia del Baretti nei confronti dei Savoia, da cui sperava una cattedra a Torino; piú interessante il Don Chisciotte (che si lega sia al generale e vivo interesse del Baretti per il Don Quijote, che invano tentò di tradurre in italiano, sia per l’argomento di questa «maschera», all’episodio di maese Pedro e della sua «burattineria moresca»), di gran lunga piú efficace e riuscita La Filippa trionfante che, con il vivace contrasto fra la malizia di una ragazza del popolo e la gelosia sciocca del suo innamorato, si ricollega ad uno schema di opere buffe napoletane di Federico, Pergolesi, Hasse, e piú alla vivacità di dialogo e di rilievo della figura femminile di drammi giocosi goldoniani.

Quanto alla Voix de la discorde, ou la bataille des Violons (composta in occasione della disputa fra i musicisti italiani di Londra divisi fra i seguaci del violinista Felice Giardini, torinese e protettore di Baretti, e quelli dell’impresario e librettista Vanneschi), essa serve bene da sfondo agli «intermezzi» barettiani, illustrando l’ambiente in cui essi furono composti.

Aurelio De’ Giorgi Bertola, Diari del viaggio in Svizzera e in Germania 1787, a cura di Michele e Antonio Stäuble, Firenze, Olschki, 1982, pp. 374.

Questa imponente edizione critica con ampio commento, frutto di un lunghissimo lavoro di ricerca in moltissime biblioteche e archivi svizzeri, tedeschi, italiani, francesi, dei Diari del Bertola che l’autore utilizzò poi nella stesura del suo famoso Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni del 1795, è davvero di grande importanza per gli studiosi del Bertola e della letteratura preromantica e si devono ringraziare Michele e Antonio Stäuble della loro intelligente e preparata fatica (questo lavoro rientra del resto in un versante di ricerca già avviato dai due studiosi svizzeri con due saggi, La Suisse vue par un écrivain italien du XVIIIe siècle in «Études de lettres», 1978, e Deux lettres inédites de Aurelio Bertola à Salomon Gessner et un texte allemand inédit de Bertola in «Études de lettres», 1981, e la continuazione è preannunciata con un saggio Aurelio Bertola e la cultura svizzera in un volume in corso di stampa, Aa.Vv., Préromantisme en Suisse? Vorromantik in der Schweiz?, Friburgo, Éditions universitaires). Il testo dei Diari (di cui solo parti erano già state pubblicate nel 1978 da Emilio Bogani, e che aveva studiato la vicenda redazionale del Viaggio sul Reno in «Studi di filologia italiana», 1979) è poi arricchito da una copiosa appendice di «testi inediti e rari» in rapporto con i Diari ed è preceduto da una chiara introduzione informativa, articolata nelle seguenti parti: Il viaggio e il diario, Le fonti, I motivi principali dei Diari (Le descrizioni paesistiche; La realtà sociale, economica e politica; Il mondo della cultura; Le relazioni personali), Dai Diari al Viaggio sul Reno, ed è concluso con utilissime tabelle (Itinerario del viaggio del Bertola, Itinerario del viaggio sul Reno, Monete, pesi e misure), con una nota al testo e una nota bibliografica.

Chi vorrà ulteriormente ritornare, in forma piú esplicitamente critica, sul Bertola e sul suo capolavoro, il Viaggio sul Reno, non potrà non ripartire da quest’opera meritoria.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, serie VII, n. 1-2, gennaio-agosto 1983.

Gabriele Muresu, La parola cantata. Studi sul melodramma italiano del Settecento, Bulzoni, Roma, 1982, pp. 302.

Questo volume, anche se è composto da studi (e testi prima inediti) già comparsi in riviste (soprattutto proprio nella «Rassegna della letteratura italiana»), risulta compatto ed organico per l’angolatura in cui i singoli saggi e testi si inseriscono e che lo stesso Muresu illustra lucidamente nella iniziale avvertenza, e cioè l’attenzione critica rivolta alla parte letteraria del melodramma settecentesco giustificata «anche dal fatto che gli scrittori sulla cui attività melodrammatica è sviluppato il discorso critico, pur non appartenendo alla stessa generazione e pur manifestando notevoli diversità di propositi e di interessi, appaiono accomunati per il tentativo, da essi tenacemente perseguito, di evitare la condizione di anonimità riservata – e ciò in particolare nei secoli XVII e XVIII – agli autori di testi per musica. Nella piena consapevolezza che tale condizione fosse pienamente meritata, in quanto conseguenza del livellamento al basso (o, se non altro, della standardizzazione) di quasi tutta la librettistica del tempo, scrittori come Zeno, Goldoni, Calzabigi e Casti, nella diversità degli strumenti espressivi da ciascuno impiegati, cercano puntigliosamente di imporre la propria originale individualità, il che appare ancora possibile in una età in cui, contrariamente a quanto accadrà nel secolo successivo, il compositore non pretende di farsi apprezzare anche come autore drammatico, e perciò accetta di lasciare ad altri l’organizzazione scenica». Il libro si articola nelle seguenti parti: Goldoni e il melodramma: il rifacimento della «Criselda» di Apostolo Zeno; Ranieri de’ Calzabigi e la Querelle des Bouffons; Il primo intermezzo castiano: «Lo sposo burlato»; Introduzione all’Orlando Furioso; Genesi e significato della Rosmunda; Musica e letteratura. Seguono i testi di tre libretti del Casti, rimasti a lungo inediti. Il discorso critico è pienamente storicizzato e insieme individualizzante, sorretto da una vasta conoscenza della letteratura teatrale settecentesca. Né certo dispiace che il Muresu, ben aggiornato metodologicamente, sulla via larga della prospettiva storico-critica, scriva con grande e tutt’altro che piatta chiarezza.

Bruno Basile, Ippolito Pindemonte e i giardini inglesi, in «Filologia e critica», VI, 1981, 3, pp. 329-365.

Partendo da alcune considerazioni fortemente limitative del Graf (nel suo celebre libro L’anglomania e l’influsso inglese in Italia nel secolo XVIII) circa l’informazione del Pindemonte sui giardini inglesi sia sotto il profilo letterario sia sotto quello della diretta frequentazione di quelli esistenti in Italia, il Basile, sulla base di un’amplissima documentazione e bibliografia specie straniera sulla problematica e la teoria estetica dei giardini, ricostituisce, in maniera assai convincente ed articolata, la reale presenza, utilizzazione e significato di tale problematica nel letterato veronese, sia nella Dissertazione sui giardini inglesi e sul merito di ciò in Italia, sia nei Sepolcri, insieme ricostruendo la posizione in proposito di vari scrittori italiani di fine Settecento, definendo la singolare prospettiva pindemontiana, ricca di potenzialità estetico-poetica («giungere, tramite la ‘moda’ dei giardini inglesi, alla definizione di una rinnovata idea di paesaggio da suggerire, con fine strategia, alla fantasia commossa dei contemporanei»), e costatandone la «sfortuna» a causa del ritardo con cui Pindemonte «lanciò il suo scritto, che appariva sfocato e inattuale nel confronto inevitabile con due opere sistematiche apparse nel 1801: la Teoria dell’arte dei giardini di Luigi Mabil e il trattato Dell’arte dei giardini inglesi di Ercole Silva, «sfortuna simile a quella dell’epistola i Sepolcri eclissata dalla celebre opera foscoliana». Quanto a questa seconda «sfortuna», ci sarebbe, a mio avviso, assai da ridire, data l’importanza ideologico-poetica cosí diversa e tanto piú gracile dell’epistola pindemontiana rispetto ai Sepolcri foscoliani.

Fabrizio Cicoira, Alessandro Verri, Bologna, Patron, 1982, pp. 178.

È una monografia su Alessandro Verri che tiene conto del lavoro critico sull’illuminista-preromantico a partire, come il Cicoira dice nella premessa, dalle mie pagine dedicate ad Alessandro Verri in Preromanticismo italiano: «Quel materiale (gli scritti del Verri) che poi (dopo gli scritti ottocenteschi e primonovecenteschi) è stato oggetto di studio raffinato e penetrante da parte di Walter Binni che per primo ha rilevato efficacemente i tratti piú peculiari della fisionomia intellettuale verriana, e cioè la sensibilità inquieta per contrastanti correnti culturali del suo tempo, la varietà delle esperienze in un’età straordinariamente ricca di tensioni fra antico e moderno, e soprattutto l’oscillazione singolare tra classicità e il suo contrario, tra la compiuta finitezza delle forme ed il loro dissolvimento», per giungere agli studi di Cerruti, Trombatore, Goffis, Negri, Martinelli. Partendo da questi appoggi critici (a mio avviso di molto vario valore) il Cicoira propone una sostanziale e «incessante ambivalenza» del Verri anche al di là di categorie quali «preromanticismo» e «neoclassicismo» che (ad avviso dell’autore) «in realtà mutano spesso la loro valenza, nel prestarsi variamente ad istanze ora innovatrici ora involutive», «ed è quindi della duplicità, della oscillazione tra disponibilità irrequieta nei confronti della modernità e ritiro di un consolante uso del passato che si vuole fare, lungi da schematismi riduttivi, la primaria cifra interpretativa dell’esperienza letteraria ed umana di Alessandro Verri: esperienza tutta iscritta – ed è opportuno rilevarlo – in un’età cruciale per la storia e la cultura europea, l’epoca che dagli anni dell’Enciclopedia all’inizio della Restaurazioned vide affacciarsi con estrema urgenza, tanto nello scontro delle forze politiche e sociali quanto nella riflessione degli intellettuali, la tensione conflittuale tra progresso e conservazione, tra rivoluzione e reazione».

Il volumetto si articola in sei capitoli: Le ambivalenze della sensibilità; Il funesto sogno di glorie dell’eroe repubblicano; Le «Avventure di Saffo» fra dismisura e armonia; La metamorfosi del dialogo delle «Notti romane»; Lo stile della volontà e la sua negazione; Il mondo appassionato: la rivoluzione come flagello universale nelle «Vicende memorabili». Nell’insieme lo sforzo di unità nella formula di ambivalenza permanente del Verri (pur arricchita di particolari osservazioni) riesce ad un risultato piuttosto sforzato e finisce sia per smussare eccessivamente il reale percorso del Verri e la sua progressiva involuzione, sia per ridurre di troppo le innegabili differenze tra Alessandro e Pietro Verri e altri illuministi italiani ed europei in cui una salda concezione illuministica domina sempre su piú marginali elementi irrazionalistici. Direi che il capitolo comunque piú nuovo ed utile (anche per il suo ricco ed attento riferimento di consonanze con scrittori antirivoluzionari europei) sia l’ultimo sulle Vicende memorabili. Conferma dunque della distanza fra l’Alessandro Verri del «Caffè», malgrado le sue forti spinte preromantiche, e il suo approdo finale ed aperto alla Restaurazione.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 85°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1983.

Luca Serianni, La lessicografia, estratto dal volume Teorie e pratiche linguistiche del Settecento, a cura di Lia Formigari, Bologna, «il Mulino», pp. 111-126.

Limpida e informatissima descrizione della lessicografia nel Settecento: la quarta impressione del vocabolario della Crusca (1729-1738), la sua integrazione da parte del Bergantini (1745) a causa di esigenze nuove di allargamento del lessico con voci di scrittori non toscani e maggior libertà e novità terminologica, il piú netto distacco dalla tradizione cruscante con il dizionario del D’Alberti (1757-1805) e in mezzo ancor legati alla impostazione della Crusca tre dizionari speciali (quello del Pauli, 1740; quello del Martignoni,1743-50; quello del Rabbi, 1778; «antenato piú illustre del Tommaseo»). Dell’impostazione della Crusca risentono anche i dizionari dialettali (come la Raccolta, 1768, del marchigiano, umbro romanesco, forse compilato dal maceratese Giuseppantonio Compagnoni), mentre ovviamente piú «antipuristi» risultano i dizionari specialistici (specie quelli tradotti dal francese come il Dizionario del cittadino, 1763, nella traduzione del D’Alberti), anche se spesso legati (come il Dizionario medico di Andrea Pasta, 1749) attraverso il Redi alla lingua letteraria tradizionale. Ben diverso il caso nettamente innovativo del Saggio alfabetico d’Istoria medica e naturale del Vallisneri, 1733, aperto persino ad «americanismi»: due linee (quella dei dizionari dialettali e quella dei dizionari tecnico-scientifici) entrambe «creazione» del Settecento che «segnano, sia pure in modo spesso malcerto e timido, una linea di sviluppo futuro e costituiscono, al di là dei risultati raggiunti, un episodio particolarmente significativo nella storia della lessicografia italiana».

Franco Fido, Alfieri, Martello e una possibile «fonte» della Finestrina, in «The italianist», 3, 1983, pp. 47-52.

Acuta noterella quanto all’individuazione di una possibile «fonte» della commedia alfieriana in un passo del martelliano Che bei pazzi: «e, se ci fosse un finestrin che l’animo / suo vedere al di fuori lasciasse», e già due anni prima il Martello affermava nel suo trattato Della tragedia antica e moderna: «ci rimane una curiosità di spiare quasi per fenestrella nel cuore di chi parla se l’interno corrisponde all’esterno». Del resto il Fido rileva altre analogie di stampo aristofanesco (o feneloniano) fra la Finestrina e il Femia sentenziato e (al di fuori della Finestrina) fra Alfieri e Martello sia per un particolare del Saul e sia (ma in modo che mi pare assai stiracchiato) fra una dichiarazione del Martello circa il suo metodo di scrivere tragedie e quello, celebre, dell’Alfieri.

Poco attendibile appare la finale contrapposizione e assimilazione fra Alfieri e Martello portatori (alla fine troppo diversi di statura) di due prospettive letterarie-politiche: quella alfieriana secondo cui «le lettere, premiando i morti hanno il potere di promuovere le virtú civili e quindi di educare i vivi, cioè in definitiva di mutare in meglio la virtú politica di un paese», e quella martelliana «rinunciataria», ma poi tutte e due apprezzabili da «noi» («dopo tante amare lezioni sul carattere al tempo stesso inevitabile e impossibile del rapporto fra cultura e politica, fra intellettuali e potere») che, ripeto, possiamo apprezzare sia l’ottimismo alfieriano, col suo generoso margine di illusione, sia il disincantato e salutare pessimismo del Martello, «mentre l’incontro fra i due all’altezza della Finestrina, potrebbe indurci a concludere che in fondo fra la politicità trascendentale (è poi cosí “trascendentale”?) dell’astigiano e la dichiarata apoliticità del bolognese la distanza non era poi cosí grande». Il fatto è – a mio avviso – che (insieme alla notata diversa statura dei due scrittori) troppo diversa è la situazione storica che vissero e promossero. Un po’ del bistrattato storicismo farebbe bene a tutti in questa, spesso voluttuosa, perdita di prospettive.

Carlo Cordié, Saverio Scrofani, la rivoluzione francese e i neri delle Antille, in «Il pensiero politico», 1980, XIII, 3, pp. 353-365.

L’infaticabile studioso ed erudito francesista, ma anche italianista, ci offre in rapporto al suo assiduo interesse per lo Scrofani – fisiocratico girondino all’epoca della rivoluzione – un utile e preciso quadro delle idee dello Scrofani a favore dei «neri» nel noto opuscolo Tutti han torto ossia lettera a mio zio sulla Rivoluzione di Francia (1791), accresciuto nel 1792, e circa le contraddizioni fra le affermazioni dei princípi della Rivoluzione e il mantenimento della schiavitú nelle colonie, nonché e perciò (nella Continuazione dell’opuscolo quando la delusione dopo il Terrore diventa avversione alla rivoluzione francese) la perdita delle Antille.

Franco Venturi, Settecento riformatore, IV, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), I, I grandi stati dell’occidente, Torino, Einaudi, 1984, pp. 1065.

Con questo primo tomo del quarto ed ultimo volume (già in questi giorni uscito e che schederò nel prossimo numero della «Rassegna»), la grande opera di Franco Venturi trova la sua smagliante conclusione, coerente al metodo molto originale dello storico anche in questa sua opera (vero e serio metodo di «fare storia», sia detto per inciso ed evitando di concedere troppa attenzione a certe frivolezze effimere che purtroppo «formano l’opinione» definendo «semicolti»).

Dal primo volume di quindici anni fa, che trattava del periodo 1730-1740 aprendo una periodizzazione nuova (e non perciò «peregrina» e «strabiliante»), si è giunti cosí ai prodromi della grande rivoluzione di cui variamente, negli stati europei piú significativi nel secondo Settecento, si avvertono preannunci ed anche possibili tentativi alternativi (in gran parte fondati sullo stimolo della rivoluzione americana, donde la grande importanza epocale del 1776) che inseriscono la rivoluzione francese entro «un processo generale, il declino e la caduta dell’Antico Regime, dall’America alla Russia».

Tutto è poi riportato (e non con ciò rimpicciolito) entro i riflessi che gli avvenimenti europei ebbero in Italia, nei suoi intellettuali, nelle sue riviste, di cui Venturi utilizza magnificamente ogni anche minima, ma sintomatica testimonianza tratta dall’enorme materiale di ricerca che questo grande studioso ha in tanti decenni di lavoro accumulato. Se il 1776 viene cosí fortemente messo in luce (anche per quanto riguarda la Francia: caduta di Turgot, avvento di Necker, anno seguíto a brevissima distanza dal ’78, con la morte dei due massimi protagonisti insieme, penso, al Diderot dell’illuminismo riformatore, Rousseau e Voltaire, nelle loro diverse essenziali prospettive), nel secondo tomo di questo volume il completamento dell’esame della situazione dei paesi repubblicani di Olanda, Svizzera e Venezia condurrà al grande esito dell’89 francese e dei suoi riflessi italiani ed europei.

Sárközy Péter, Intellettuali ungheresi nell’Italia del Settecento, in Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, IV, Olschki, Firenze, 1983, pp. 22-243.

Partendo da un piú rapido quadro dell’educazione di intellettuali ungheresi in Italia nel Cinque e Settecento (specie nell’educazione al Collegio Germanico-Ungarico), lo S. tratta, con attenta diligenza di scansione storica, il periodo settecentesco: nella prima metà del secolo, per la forte azione asburgica sull’Ungheria «i rapporti culturali vengono fortemente limitati alla sfera religiosa, che sarà allargata con la presenza degli aristocratici e nobili laici ungheresi solo dopo le guerre di successione e dopo la pace di Aquisgrana, quando nell’Italia settentrionale si installarono e combatterono dei reggimenti ungheresi, come le guardie nobili ungheresi (in Lombardia) dell’Impero Asburgico». Quanto ai religiosi si rileva l’importanza del Collegio Germanico-Ungherese che fece prevalere in Ungheria il «gusto italiano» in direzione moralistica e moralistico-culturale di cui l’esempio indiscusso fu il Muratori. Come forte fu l’influenza italiana nel teatro ungherese specie nella preminente opera del Metastasio. Donde l’aprirsi anche nella lirica (il caso di Ferenc Faludi, ma piú originalmente di Mihály Csokonai) di una vera e propria ripresa dell’Arcadia, mentre scrittori ungheresi parteciparono direttamente alla vita accademica dell’Arcadia a Roma.

Dopo lo scioglimento degli ordini ad opera di Giuseppe II l’interesse degli intellettuali ungheresi (specie ufficiali in Italia settentrionale) passa ai salotti illuministici italiani: fra questi scrittori spicca il Kisfaludy, autore di un diario epistolare italo-francese, avvio di un romanzo lirico-sentimentale e di un ciclo di poesie fortemente influenzate dal Petrarca, mentre il suo fratello avvia la letteratura ungherese romantica piú influenzata dal romanticismo tedesco. Comunque, con una frase dello Szauder, lo S. conclude: «nel tardo Settecento prevale sempre piú l’insegnamento tedesco, ma l’esordio della liberazione della poesia come tale spetta all’influsso della poesia italiana».

Michele Cataudella, Antonio Jerocades, aspetti di letteratura giacobina in Calabria, in «Atti del Convegno per una idea della Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese», Cosenza, 1981, pp. 72-88.

Utile riconsiderazione dell’opera e attività dello Jerocades in Calabria, soprattutto nel suo paese natale di Parghelia (dove aprí una scuola privata e scrisse il suo «intervento piú avanzato», il Saggio dell’umano sapere ad uso dei giovinetti di Paralia, pubblicato con l’assistenza del Genovesi nel 1768 e tutto ispirato dall’odio per la pedanteria e quindi in appoggio all’uso anche didascalico di una lingua parlata e popolare), ma anche piú tardi (dopo soggiorni in Francia) ancora in Calabria, a Parghelia, dedito al progetto massonico di fondazione di una Filadelfia calabrese, e ad un lungo viaggio a piedi, per il proselitismo massonico in Calabria.

Il Cataudella mostra insieme gli aspetti ambigui (e spesso peggio) del personaggio, giacobino dal ’92 e combattente contro la soldataglia del Ruffo, ma salvatosi poi con delazioni di confratelli e spesso protetto dai Borboni, e gli aspetti della sua poetica «facilistica» e metastasiana per precisi scopi di divulgazione politico-ideologica alla luce di una «virtú» di tipo piú cristiano-massonico che veramente giacobino. Penso che ci sarebbe assai da lavorare per meglio chiarire e ricostruire interamente questa singolare personalità, tutto sommato poco studiata.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 89°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1985.

Scienziati del Settecento, a cura di Maria Luisa Altieri Biagi e Bruno Basile, «La letteratura italiana. Storia e testi», Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi, 1983, pp. XLIII-1104.

Questa importante silloge dei maggiori prosatori scientifici del Settecento, che viene ad arricchire la sezione Settecento (già cosí bene impostata e portata molto avanti dalla direzione del compianto Mario Fubini) nella grande collana ricciardiana, è opera della Altieri Biagi, notissima specialista di fenomeni linguistico-stilistici, con la collaborazione datale da Bruno Basile, cui si devono le note bio-bibliografiche introduttive ai singoli autori e la nota critica ai testi.

Lucida ed esauriente l’introduzione dell’Altieri Biagi che, partendo da una catastrofica citazione del gesuita Andrès come un segno ben sintomatico per la lotta fra novatori e custodi della tradizione, delinea di tale lotta la molteplicità delle posizioni rappresentate da autori ed opere che tendenze recenti degli studi tendono anzitutto a fare emergere e valere per arricchire e rendere piú complesse e sostanziose, meno facilmente evolutive e schematiche le inevitabili interpretazioni, ma appunto piú ricche di osservazioni appoggiate ai testi che rigidamente definitorie. Cosí, pur rifiutando le «periodizzazioni» unilaterali, l’Altieri Biagi illustra anzitutto caratteri di continuità (per quanto riguarda temi di ricerca, aspetti teorici e metodologici, forme di scrittura letteraria), ma insiste piú fortemente su quelli di discontinuità e cambiamento, a partire dalla constatazione della diversa presenza degli autori antichi negli scritti scientifici del ’700, sicché «mentre il Seicento dialoga fittamente con il passato remoto, il Settecento non è piú coinvolto in questo dialogo diacronico», cosí come raro, nella concezione formale della scrittura scientifica settecentesca, è l’uso delle citazioni da poeti greci, latini e italiani: come segno di consapevolezza della specificità anche formale della scrittura scientifica e viceversa cresce «del cinquanta per cento ed oltre» nel Settecento il numero degli interlocutori stranieri entro una nuova latitudine europea; mentre ancora si nota un passaggio, fra Sei e Settecento, da una localizzazione prevalentemente toscana ad una settentrionale in cui il perno anche verso l’esterno può considerarsi Bologna (anche se nel Settecento va constatata una maggiore proliferazione di centri di cultura e ricerca scientifica).

Altra considerazione di tale densa e assai stimolante introduzione è il rilievo della prudenza con cui (specie nelle regioni italiane piú sottoposte al potere e al controllo ecclesiastico) ci si comporta da parte degli scienziati rispetto a teorie come quelle copernicana e newtoniana «pericolose». Donde anche una relativa minore stima all’estero della scienza italiana, tuttavia apprezzata spesso assai piú, nei suoi stessi autori, della loro opera «poetica». Una parte cospicua riguarda ovviamente il problema linguistico (la scelta fra italiano e latino complicata dall’alternativa del francese, la prevalenza e le relative ragioni della crescente scelta, nel ’700, dell’italiano, fra cui l’appoggio offerto dagli stessi piú rari esempi «italiani» secenteschi) ed anche la canalizzazione della comunicazione scientifica in «generi» letterari: le nuove forme e funzioni del «dialogo» fino a contaminazione fra dialogo, novella galante e trattato e il suo passaggio da impegno polemico a impegno di divulgazione, la prevalenza (anche per traducibilità maggiore) di generi che consentono la scrittura breve, come la lettera, la memoria, la dissertazione oppure il «manuale» universitario, le «Istituzioni» astronomiche, analitiche, anatomiche ecc.

Conclude l’introduzione una «carrellata» sulle ragioni di inclusione degli scienziati raccolti e alla cui illustrazione valgono direttamente le ottime note introduttive (con ampia bibliografia) del Basile ai singoli autori di cui non sembra inutile qui ricordare l’elenco: Antonio Vallisneri, Girolamo Gaspari, Carlo Francesco Cogrossi, Lazzaro Spallanzani, Luigi Ferdinando Marsili, Anton Lazzaro Moro, Giuseppe Ginanni, Bernardino Ramazzini, Eustachio Manfredi, Ruggero Giuseppe Boscovich, Maria Gaetana Aspesi, Jacopo Riccati, Lorenzo Mascheroni, Eusebio Sguario, Luigi Galvani, Alessandro Volta.

Carmen Di Donna Prencipe, Letteratura e vita in Niccolò Forteguerri, Napoli, Laurenziana, 1984, pp. 115.

Facendo seguito alla pubblicazione delle Memorie intorno alle missioni (Napoli, D’Auria, 1982), già schedato in questa rassegna, e come appoggio ad «un lavoro piú articolato e complessivo sulla figura di Niccolò Forteguerri e sulla sua opera in relazione a un progetto di edizione delle sue opere rimaste alle edizioni sette-ottocentesche o in gran parte ancora inedite», la Di Donna Prencipe ora pubblica e presenta, descrivendola (nel suo contributo a «dare al Forteguerri il suo posto nello svolgimento della ‘favola pastorale’ verso tentativi di soluzione melodrammatica prima della stagione rnetastasiana»), la favola pastorale La Dorinda, inedita (testo anche questo liberalmente fornito alla studiosa dai discendenti del Forteguerri e di cui si precisa la data della composizione, 1702, e l’attribuzione al Forteguerri), e condensa nella prima parte del volume un agile e documentato profilo del notevolissimo scrittore del Ricciardetto ripercorrendone la formazione a Pisa e poi il non sempre facile inserimento nell’ambiente romano, lo sviluppo della sua opera specie nella doppia via dei Capitoli satirici («nel segno di una esigenza quotidiana di comunicazione, di scrittura immediata e legata a occasioni pratiche, ma anche al bisogno di sfogo amaro e dolente nell’aspra presa di coscienza della realtà») e del Ricciardetto (l’opera piú organicamente calcolata in direzione artistico-poetica).

Gianmaria Ortes, Calcolo sopra la verità dell’istoria e altri scritti, a cura di Bartolo Anglani, presentazioni di Italo Calvino e Giampaolo Dossena, Genova, Costa e Nolan, 1984, pp. 220.

Il volume, arricchito da due presentazioni di Italo Calvino (che sottilmente disquisisce sull’Ortes, «l’uomo che voleva calcolare tutto: piaceri, dolori, virtú, vizi, verità, errori») e di Giampaolo Dossena (che aggiunge una piú particolare nota in relazione all’ortesiano Calcolo sopra i giuochi della basetta e del faraone), raccoglie opuscoli editi, ma circolanti quasi clandestinamente, e alcuni rari manoscritti lasciati inediti «non senza buone ragioni»: un materiale certamente molto significativo ed atto a riaccendere nuovo interesse (dopo la riproposta del Torcellan e del Venturi) sull’abate veneziano, uno scrittore economista e filosofo di cosí rara importanza e singolarità nel quadro del pensiero settecentesco – specie italiano – di cui l’Anglani (attento curatore del testo e delle note) nella sua introduzione precisa, entro una configurazione assai complessa delle coordinate culturali, scientifiche e filosofiche, la sostanziale caratteristica del «piú radicale nel manifestare un materialismo totale», che rimane comunque sempre «il solo orizzonte ideologico del pensiero ortesiano» con approdi di colpevolizzazione della natura circa la sempre «imperfetta» felicità o addirittura l’assoluta infelicità degli uomini. Sicché – concludendo l’iter ideologico dell’Ortes – l’Anglani affermerà: «ciò che la geometria forse semplicistica e presuntuosa dei calcoli giovanili aveva sperimentato sulla macchina fisico-immaginaria dell’individuo – essere il piacere nient’altro che la cessazione o l’assenza del dolore – si confermava trent’anni dopo ancora insuperabile dai miti fastosi e superbi del secolo, sulla scala grande della società e della stessa natura collettiva».

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di Gianni Francioni, con Le edizioni italiane del «Dei delitti e delle pene», di Luigi Firpo, I volume della Edizione Nazionale delle Opere di Cesare Beccaria, diretta da Luigi Firpo, Milano, Mediobanca, 1984, pp. 719.

È il primo volume della magnifica e ben importante edizione delle Opere del Beccaria, edita dalla Mediobanca e dedicata alla memoria di Adolfo Tino (1900-1977), presidente della Mediobanca e valoroso avversario della dittatura fascista, uno dei fondatori del Partito d’Azione e (come ben ricorda la dedica preliminare) prosecutore attivo degli ideali che già avevano animato («in una civilissima sintesi di interessi culturali, volontà di riforme e partecipazione diretta alla vita pubblica») l’opera del grande illuminista lombardo.

Giustamente l’edizione (delineata in vari volumi) si apre con il volume dedicato alla piú geniale e storicamente decisiva opera del Beccaria: quel Dei delitti e delle pene di cui il Francioni dà il testo critico e fornisce in appendice i materiali preparatorii, la prima redazione e varie aggiunte in stesura autografa, mentre, in un’amplissima nota al testo, ricostruisce minutamente ed efficacemente la genesi dell’opera e le testimonianze dei contemporanei, descrive il manoscritto autografo, la prima redazione e la sua logica interna, la seconda redazione nella copia del Verri, istituisce un confronto fra la prima e la seconda redazione, proseguendo la storia del testo attraverso le aggiunte autografe per la prima edizione, il passaggio dalla prima a una terza edizione, l’approdo alla quinta edizione, la «metamorfosi» prodotta dall’ordinamento della traduzione del Morellet, l’origine della «vulgata» e l’edizione di «Londra», la volenterosa, ma prevaricante operazione di Giulio Beccaria sul testo autografo del libro del padre e infine (prima dell’esposizione dei criteri della edizione critica) la giustificazione raggiunta della preferenza accordata alla quinta edizione del ’66, ché essa (secondo parole in proposito di Franco Venturi) «è l’ultima per la quale esistono prove esplicite d’una partecipazione dell’autore alla revisione del testo»; edizione che è inoltre «di questa singolarissima opera ‘aperta’ una sorta di punto mediano tra la piena spontaneità espressa nell’autografo e l’adesione ormai distaccata e a posteriori data all’ordinamento Morellet». La nota si conclude con un’appendice che offre utilissime tabelle comparative dei diversi ordinamenti del testo.

Lungo discorso (ma da fare al di là di questa scheda informativa) richiederebbe poi la Bibliografia. Le edizioni italiane del «Dei delitti e delle pene», redatta magistralmente da Luigi Firpo, per il ben motivato e nutritissimo discorso (quasi la metà del volume) e per la grande messe di materiale recuperato e studiato. Basti almeno (a chiarire l’interesse assai piú che solo «bibliografico» di tale lavoro) ricordarne le parti: La fortuna di un libro celebre, che (avvalendosi per le prime edizioni delle lettere inviate al Verri da Giuseppe Aubert direttore della tipografia livornese del Coltellini fra ’64 e ’69, consultabili solo dopo la riapertura dell’Archivio Andreani-Sormanni-Verri, dissipando e rettificando tanti errori e contraddizioni nella selva delle testimonianze a lungo accumulatesi e partendo da un primo saggio bibliografico dello stesso Firpo sulle piú antiche edizioni del libro) ricostruisce e interpreta in una vera e propria «storia» storico-critica le vicende editoriali del Dei delitti e delle pene alla luce dell’interesse e delle reazioni da esso suscitate fino ai giorni nostri, mentre una seconda parte costituisce la piú vera e propria diretta bibliografia, arricchita da numerose e utilissime riproduzioni di frontespizi, ritratti e tavole illustrative.

Pietro Verri, Osservazioni sulla tortura, a cura di Gennaro Barbarisi, Milano, Serra e Riva, 1985, pp. LIV-284.

Si deve alla ricerca benemerita e alle cure filologiche e storiche di Gennaro Barbarisi, uno degli studiosi da tempo piú attivi nel campo della letteratura settecentesca e primo-ottocentesca, il ritrovamento dei manoscritti originali della celebre opera del Verri e la sua pubblicazione rigorosamente filologica: dal primo pamphlet di denuncia morale sulla storia degli untori al tempo della peste del 1630, steso nel 1770, alla sua piú ampia ripresa e trasformazione in un’opera in cui la vicenda secentesca serviva da esempio per un’analisi teorica, nel 1776-77, proprio quando l’abolizione della tortura da parte di Maria Teresa, nel 1776, negli stati ereditari si era urtata nel rifiuto del Senato milanese (di cui faceva parte il padre del Verri, Gabriele) di accogliere il provvedimento nel Ducato di Milano: donde il dibattito entro cui si colloca l’opera del Verri. Dibattito di cui il volume curato dal Barbarisi (sia attraverso la limpida ed esatta introduzione sia attraverso i testi raccolti nelle appendici, fra i quali, oltre all’iniziale Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese, letta all’Accademia dei Pugni nel 1763, Le Osservazioni al trattato «Dei delitti e delle pene», manoscritto in francese, rimasto inedito, attribuito dal curatore al 1767 – quando ormai si era esaurito il rapporto di amicizia e di solidarietà fra i Verri e il Beccaria –, le Postille del Verri al verbale del processo degli untori – forse nel 1770 –, e infine la Consulta del Senato di Milano del 13 aprile 1776, steso da Gabriele Verri, e le manzoniane Postille alle «Osservazioni» del Verri) permette di seguire lo svolgimento, che verrà poi definitivamente concluso nel 1784 dalla estensione dell’abolizione della tortura a tutto l’Impero da parte di Giuseppe II. Donde lo scarso interesse del Verri a pubblicare la sua opera come per un caso gravissimo, ma ritenuto chiuso per sempre dal trionfo dei «lumi». Purtroppo non è poi stato cosí in tanti paesi del mondo, sicché l’opera del Verri non ha solo una grande importanza storica (e ne mostra l’implicita discussione con il celebre trattato del Beccaria), ma conserva anche, entro la sua lucida e sorbita efficacia scrittoria, un interesse ben vivo anche nel nostro tempo.

Franco Venturi, Settecento riformatore. La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), vol. II, Il patriottismo repubblicano e gli imperi dell’Est, Torino, Einaudi, 1984, pp. 465-1065.

Con questa parte del quarto volume trova felicissima conclusione l’impresa grandiosa e originale di uno dei maggiori storici europei del Settecento e certo la piú impegnativa opera sul Settecento riformatore, sintesi, ben rinnovata e arricchita, dei molteplici studi del Venturi sul secolo dei lumi. In questa parte, in anni sempre piú vicini alla rivoluzione francese, viene anzitutto studiata la guerra civile di Ginevra nel cui partito ribelle si affaccia una nuova idea di democrazia rappresentativa che si diffuse in tutta l’Europa con gli esiliati ginevrini che avevano introdotto l’affermazione che «la patria è là dove è la libertà». Nozioni che appaiono inseparabili anche nella rivoluzione olandese stroncata dall’assolutismo prussiano (come quella ginevrina lo era stata da parte della coalizione di Luigi XVI e di Vittorio Amedeo III) e punto di riferimento, negli anni ’80, per quanti cercavano una via d’uscita alla crisi terminale dell’Antico Regime. Invece l’attuazione di riforme auspicate dell’epoca fu ancora esercitata da un monarca, il grande riformatore austriaco Giuseppe II che abolí la servitú contadina e proclamò libertà di stampa e tolleranza religiosa, cosí come a tale opera riformatrice (seppur in forma piú parziale) collaborò un’altra imperatrice, Caterina II di Russia, che fu presto stornata da tale opera a causa della sua politica estera, dalle tentazioni offerte della spartizione della Polonia e da una nuova guerra con i Turchi che mise in movimento anche la Svezia. Cosí si venne accelerando il passo della storia europea nell’urto fra dispotismo e libertà e nelle nuove rivoluzioni, come si vide in Svezia, nell’Impero austriaco e soprattutto in Francia, dove tutti gli elementi di riforma e rinnovamento, pronunciatisi sin dalla rivoluzione americana e cosí armoniosamente e organicamente in tutta Europa studiati dal Venturi come esiti attivi del lungo cammino del Settecento riformatore, in questo ultimo volume della sua opera, convergono, nell’ultimo Settecento, nella formidabile esplosione della rivoluzione francese.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 89°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1985.

Giovanna Gronda, Metastasiana, «Rivista italiana di musicologia», vol. XIX, 1984, n. 2, pp. 314-332.

Il presente saggio ricostruisce, con scelte di rilievo, in parte condivise e comunque inerenti ad una prospettiva ben segnata dell’autrice sulla necessaria collaborazione (per studiare Metastasio) di storici della letteratura e storici del teatro e della musica, la fase recente degli studi metastasiani (la fase degli anni 1982-83-84 definiti «annate eccezionali per lo studio di Pietro Trapassi») sviluppatisi specie nei convegni legati all’occasione del secondo centenario della morte del Metastasio: anni e convegni (a parte un apposito volume sul Metastasio – Metastasio. Ideologia, drammaturgia, spettacolo, del 1982, di Elena Sala Di Felice) in cui ad avviso della Gronda «quelle che negli anni ’50 e ’60 nelle pagine di Varese e di Binni erano state avanzate come indicazioni e prospettive di ricerca sono diventate ora ricerche in atto».

Partendo da piú vicini presupposti ed anticipazioni negli anni di poco precedenti il bicentenario (come, nel ’78, l’uscita del primo volume di Venezia e il melodramma nel Settecento, a cura di M.T. Muraro, e quella del volume di Jacques Joly, Les fêtes théâtrales de Metastase à la cour de Vienne), l’autrice illustra, con consenso, soprattutto i numerosi contributi di Elena Sala Di Felice, quelli del musicologo Nino Pirrotta, quelle degli studiosi del teatro poetico e drammatico come Giorgio Petrocchi, Claudio Varese, Giulio Ferroni, per poi segnalare in maniera piú rapida interventi e studi sul canto melodrammatico, sulla metrica, sulle didascalie, sulle scenografie di opere del Metastasio, e concludere, in rapporto ai problemi editoriali degli scritti del Metastasio, con l’accettazione della mia proposta, al convegno metastasiano dei Lincei, di un’edizione critica del Metastasio, visto che, dice la Gronda, «è l’intera edizione mondadoriana di Brunelli a necessitar di revisione e di verifiche».

Milena Montanile, I giacobini a teatro. Segni e strutture della propaganda rivoluzionaria in Italia, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1984, pp. 185.

L’autrice, da tempo studiosa del teatro giacobino in Italia, raccoglie nel presente volume tre testi teatrali significativi per la loro rappresentatività del teatro giacobino: L’Orso Ipato di Giovanni Pindemonte, un modello del teatro «impegnato», accolto dal pubblico del tempo con notevole successo, il Guglielmo Tell di G. Cassola, che singolarmente presenta un personaggio, appunto Guglielmo Tell, il leggendario eroe svizzero, esemplare per una scelta parallela e diversa rispetto alla piú praticata scelta degli eroi romani fra cui particolarmente Bruto, e la Rivoluzione di Venezia, inedita (conservata nella Biblioteca civica di Padova), caratteristica di un giacobinismo «ortodosso» e di un uso insolito del dialetto nelle stesse commedie giacobine di Antonio Sografi e adoperato come mezzo di una piú vasta presa sul pubblico popolare. Introduce la raccolta delle tre opere un breve saggio che le collega (e illustra) al quadro piú recentemente delineato da vari studiosi del teatro giacobino, inizialmente surrogato da riprese teatrali di testi francesi del periodo illuministico rivoluzionario e soprattutto di quelle tragedie alfieriane piú immediatamente adatte alla diffusione giacobina delle virtú classiche della libertà repubblicana (i due Bruti e, soprattutto, la Virginia) e successivamente sostenuto da produzioni teatrali nuove ispirate anzitutto al motivo didascalico e di propaganda, come dimostrano, con varia forza teatrale e di ricerche di ritmi piú recitati o piú narrati, le opere qui raccolte.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 90°, serie VII, n. 1, gennaio-agosto 1986.

Sergio Romagnoli, La buona compagnia. Studi sulla letteratura del Settecento, Milano, Franco Angeli, 1983, pp. 249.

Questo consistente volume raccoglie otto saggi o introduzioni di varia data, particolarmente significativi per il lungo esercizio storico-critico dell’autore nel campo della letteratura italiana del Settecento e per una prospettiva metodologica che il Romagnoli riconosce come «volta ad indagare i fenomeni letterari non esclusivamente nei loro esiti formali». Si pensi infatti soprattutto al taglio fortemente storico-culturale dei saggi riguardanti gli illuministi settentrionali, il gruppo lombardo del «Caffè», o del saggio su Cesarotti politico, ma anche a quelli dedicati a personaggi o gruppi di piú prevalente significato letterario come il saggio sul Parini «primo pittor del segno nel costume» o come quello Nel laboratorio teatrale di Carlo Goldoni («Il teatro Comico»), o a quello molto notevole Impegno e forma nella cultura letteraria estense, in cui appunto il binomio iniziale del titolo ben indica la costante preoccupazione del Romagnoli di non guardare agli aspetti formali in maniera univoca o separata.

La biblioteca periodica. Repertorio dei giornali letterari del Seicento-Settecento in Emilia e in Romagna, I, a cura di Martino Capucci, Renzo Cremante e Giovanna Gronda, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 550.

Questo primo volume del Repertorio dei giornali letterari del Seicento-Settecento in Emilia e in Romagna, che copre il periodo 1668-1726, è un bell’esempio della imponente impresa promossa dalla Regione Emilia e Romagna sulla traccia e sull’esperienza delle grandi mostre del 1979 sulla civiltà figurativa del Settecento emiliano e romagnolo e volta a realizzare un vasto programma di studi e ricerche sulla cultura e la vita civile del Settecento in Emilia-Romagna. Alcuni dei risultati delle ricerche compiute nei settori filosofico e scientifico, letterario e storico (settori in cui la responsabilità dei comitati è rispettivamente affidata a Walter Tega e a Renzo Cremante), compaiono in questa «Biblioteca periodica». Il presente volume è a sua volta parte di un lavoro dedicato allo spoglio dei giornali letterari che apparvero in Emilia e in Romagna fra il 1668 (anno di pubblicazione del «Giornale de’ Letterati» di Bologna come ristampa dell’omonimo periodico romano) e il 1796 (anno spesso considerato come traguardo della civiltà settecentesca illuministica e, per quanto riguarda il giornalismo, la temporanea eclisse del giornale erudito e la fioritura di quello politico e militante) e perciò intende offrire piuttosto materiali di documentazione che non un’analisi critica e storica «e neppure un’interpretazione unitaria di un fenomeno molto esteso e ramificato, ma difficilmente valutabile nell’ambito circoscritto di una geografia regionale storicamente arbitraria» (particolarmente appunto quella emiliana e romagnola nella configurazione geografica del Settecento).

La breve e succosa introduzione di Martino Capucci punta giustamente sulla preminente importanza e sull’orizzonte europeo del giornale del Bacchini nel giornalismo emiliano e romagnolo nel trentennio a cavallo di Sei e Settecento, anche se non può dirsi cosí perché, mentre i caratteri piú vivi del giornale del Bacchini trovano risonanza altrove (nel Veneto ad esempio, con lo Zeno e il Maffei), «quanto di giornalistico si fece in area emiliana e romagnola appartiene a una storia minore di segregata cultura provinciale o è testimonianza, in qualche caso, di una vera e propria patologia intellettuale» (caso limite quello dei giornali del forlivese Dandi, anche se essi non mancano di una interessante ambizione di «informazione totale» con l’inserimento di un foglio di gazzetta). Seguono utilissimi, e intelligentemente introdotti, gli «spogli» dei giornali: Giornale de’ letterati (Bologna 1668-1669) a cura di Giorgio Panizza; Giornale de’ letterati, del Bacchini (Parma 1686-1690, Modena, 1692-1697) a cura di Maurizio Mamiani (con saggio introduttivo particolarmente impegnativo); Giornale de’ letterati (Rimini 1688) a cura di Martino Capucci; Giornale de’ letterati (Ferrara, 1688-1689) a cura di Giorgio Panizza; Miscellanea italica erudita (Parma, 1690-1692) a cura di Andrea Cristiani; Miscellanea Italica Physico-matematica (Parma 1692); Synopsis biblica (Parma 1692-1693) a cura di Maurizio Mamiani; Gran giornale de’ letterati (Forlí 1701-1704) a cura di Martino Capucci; Il genio de’ letterati (Forlí 1705-1726) a cura di Andrea Cristiani; Fasti del gran giornale letterario (Parma-Forlí-Faenza 1706-1715) a cura di Martino Capucci; Sceltissima raccolta delle poesie piú celebri de’ primi letterati d’Italia (Forlí 1710-Faenza 1715) a cura di Renzo Cremante.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 91°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1987.

Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene. Consulte criminali, a cura di Giuseppe Armani, Milano, Garzanti, 1987, pp. XLVIII-141.

Riproducendo per il celebre libro di battaglia del Beccaria il testo critico recentemente stabilito dal Francioni nel I volume dell’Edizione Nazionale (Milano, Mediobanca, 1984, già da noi ampiamente segnalata) e per le Consulte il testo non critico del Romagnoli nel secondo volume dell’edizione delle Opere del Beccaria (Firenze, Sansoni, 1958) e corredando il Dei delitti di note utili sia per la comprensione dei riferimenti storico-giuridici sia per quella di termini desueti, la presente economica dei Grandi libri Garzanti si raccomanda anche per la lucida e aggiornatissima introduzione del curatore e per la ricca bibliografia offertavi. Particolarmente utile il paragrafo sui riferimenti a Beccaria nella storia italiana dell’Otto e del Novecento, fra l’altro con il controluce efficace della esaltazione del boia come garante del buon governo da parte di Monaldo Leopardi nel suoi Dialoghetti e con quello, ben piú autorevole, della «Civiltà cattolica» nel 1854 (del resto il libro del Beccaria era stato subito posto all’indice dei libri proibiti).

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 92°, serie VII, n. 1, gennaio-aprile 1988.

Piero Del Negro, Il mito americano nella Venezia del ’700, Padova, Liviana Editrice, 1986, pp. 286.

Vasta e informatissima ricostruzione del «mito americano» nella Venezia del ’700, con ampia ricerca in archivi e biblioteche venete (ma anche americane, parigine, inglesi) con uso capillare del «Giornale Enciclopedico» di Venezia-Vicenza, del «Journal encyclopédique ou universel» di Bouillon, del «Nuovo Giornale Enciclopedico» di Vicenza e del «Nuovo giornale enciclopedico d’Italia» di Venezia (sulla scorta dei fondamentali studi del Berengo). Mito soprattutto divulgato a Venezia (e prima del mito, le notizie dei commenti relativi agli avvenimenti del fermento e poi della rivoluzione delle colonie americane) dalle traduzioni in francese di testi inglesi. E questi, seppure depurati dalla censura oligarchica, diffusero «un messaggio quasi sempre orientato in senso favorevole agli Stati Uniti».

Sicché il lavoro di Del Negro (in risposta alla vecchia tesi del Godechot secondo cui il mito americano operò in Italia solo dal 1796 insieme all’arrivo dell’armata napoleonica) minutamente vaglia i modi di ricezione del fenomeno americano nei vari centri della repubblica veneziana legati alla disponibilità della cultura veneta, prima della rivoluzione americana, durante la capillare e discussa penetrazione dell’Histoire philosophique et politique del Raynal, nella edizione originale e in traduzioni italiane: con il rilievo di tutte le diversità delle due tradizioni, democratica quella del Raynal e della rivoluzione americana, oligarchica e autoritaria quella della repubblica veneziana, il cui regime anche sulla fine del Settecento reagiva politicamente ed economicamente in maniera «opaca» di fronte alle piú diverse implicazioni del fenomeno americano. Su questo sfondo vanno calcolate le reazioni della cultura veneta, studiate nelle riviste (specie quelle del Caminer), nel mercato librario veneziano e nella stessa produzione teatrale (dopo Goldoni si pensi al Willi, il piú noto autore drammatico del tardo Settecento veneto, fra i cui trentatré drammi ben sei sono ambientati negli Stati Uniti), finché, in relazione anche allo scoppio della rivoluzione francese e della interpretazione che essa dava del nuovo Stato americano, il mito americano fu rifiutato persino nella sua versione georgica e idillico-arcadica, alla quale venne preferito il mito svizzero (Haller, Gessner e un travisato Rousseau) che trovò accoglienza anche in Ippolito Pindemonte. Naturalmente altro discorso proverrebbe da un esame della Venezia giacobina e dei circoli democratici già frequentati dal giovane Foscolo.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 92°, serie VII, n. 2-3, maggio-dicembre 1988.

Franco Fido, Il paradiso dei buoni compagni, capitoli di storia letteraria veneta, Padova, Antenore, 1988, pp. 237.

Di questo volume, che raccoglie saggi tutti legati alla storia letteraria veneta, interessano questa rassegna settecentesca quattro saggi: un saggio sul Baretti (Don Chisciotte giornalista: la Frusta del Baretti e la vita culturale veneziana a metà Settecento) che, mentre precisa il rapporto della «Frusta» con l’ambiente culturale veneziano e con i giornali letterari veneziani (la prima parte del titolo è suggerita da un intermezzo per musica del Baretti, Don Chisciotte in Venezia, riscoperto e pubblicato dallo stesso Fido nella raccolta di scritti teatrali del Baretti, Ravenna 1977), all’interno della collocazione veneziana della celebre rivista, delinea, in realtà, un profilo agile ed acuto delle prospettive e ragioni della sua battaglia (basti ricordare quella della clamorosa polemica contro il Buonafede collegata anche al filogesuitismo del Baretti che provocò l’attacco della maggiore rivista letteraria veneziana, la «Minerva», del filogiansenista Calogerà) che include una breve storia della critica della personalità barettiana. Segue – in questa sezione settecentesca – il saggio Fra romanzo e autobiografia, dedicato al Chiari, con forte rilievo dato proprio al Chiari romanziere, di cui si esaminano e si individuano i caratteri distintivi di tre gruppi di romanzi, il sostanziale illuminismo del Chiari e l’aspetto considerato «forse piú interessante dei romanzi del Chiari» che consiste «nel loro essere ... il teatro di un dramma stilistico in cui giocava il possibile avvento di una prosa narrativa moderna». Vengono poi ripubblicati, da una precedente loro apparizione in riviste, un breve saggio Casanova «libertino»?, che conclude per una decisa preminenza (entro la raggiera delle nozioni di «libertino» ed entro il generale ottimismo della «posizione media, vulgata della cultura settecentesca») del «rapporto dialettico» che Casanova «stabilisce tra felicità e memoria: un rapporto che sta chiaramente alla radice del progetto autobiografico, e al tempo stesso ne assicura antologicamente il successo», e un lungo particolareggiato saggio su Goldoni e il linguaggio teatrale del Settecento, composto di tre saggi: il primo propone un nuovo raccordo assai stimolante con le «Maschere dell’arte», ridiscutendo quelli che Fido considera due «luoghi comuni» per altro giustificabili, come vedremo, ma troppo spesso accettati senza discussione: «Il primo consiste nell’idea che la “Riforma” goldoniana e cioè le commedie scritte e fatte recitare fra il 1748 e il 1753 al Teatro di Sant’Angelo, e piú ancora quelle prodotte al Teatro di San Luca fra il 1753 e il 1762, comportò la liquidazione della vecchia Commedia italiana, e segnò quindi la fine delle maschere, della recitazione all’improvviso, di un teatro fortemente stilizzato, ad altissimo coefficiente lucido e di scarso “contenuto” realistico. Il secondo luogo comune riguarda l’immenso debito di Goldoni verso i comici dell’arte: tutto un patrimonio di situazioni, morfemi scenici, trucchi, personaggi, lazzi che il veneziano assimila dalla tradizione e ricicla nelle sue commedie “premeditate”. E dietro quest’altro luogo comune c’è poi un dilemma, tra l’indubitabile presenza in Goldoni della suddetta eredità dell’Arte, e la mancanza di documenti sulla Commedia dell’arte che abbiano la stessa consistenza testuale delle sue commedie, sí da rendere un paragone veramente possibile». Sulla accertata fondatezza sostanziale specie del secondo luogo comune Fido intreccia una discussione e sviluppi assai fini e sottili sulle usufruizioni di espedienti e mezzi della commedia dell’arte e delle maschere da parte di Goldoni (la lezione degli istrioni).

Mentre un altro capitolo goldoniano esamina con molta acribia i libretti goldoniani per musica fra il ’48 e il ’53 e la loro particolare importanza nell’economia del teatro goldoniano (non riducibile ad una specie di «valvola di sfogo» o un «guardaroba dell’eloquenza per le commedie»). Infine il saggio Due «notturni»: i commiati di Goldoni dal Sant’Angelo e dal San Luca: e cioè La donna vendicativa, ultima commedia scritta per il Teatro di Sant’Angelo, attentamente riproposta e sollevata dal «lungo abbandono in cui l’hanno lasciata attori e critici» (con l’osservazione anche della necessità della sua rappresentazione teatrale per poterla giustamente valutare), e Una delle ultime sere di carnevale («prima di andare a Parigi a inventare per gli Italiens i suoi intrecci piú ingegnosi e vorticosamente complicati, Goldoni-Anzoletto lascia ai suoi clienti veneziani il dono di questa ultima sera senza trama, per far loro ascoltare ancora una volta la piccola musica notturna della vita»).

Cesare Beccaria, Atti di governo (serie I: 1771-1777), a cura di Rosalba Canetta, Milano, Mediobanca, 1987, pp. 767, e Note al testo e glossario di Rosalba Canetta, Bibliografia di Luigi Firpo, Milano, Mediobanca, 1987, pp. 79.

È il primo volume della sesta parte della monumentale edizione critica delle Opere del Beccaria, parte dedicata agli Atti di governo che comprenderà vari volumi. Al grosso primo volume si accompagna un fascicolo che (come spiega un avvertimento iniziale) intende costituire una «edizione provvisoria e parziale» rispetto a quanto verrà poi, come corpus di informazioni e strumenti utili per la consultazione degli Atti di governo, raccolto in calce all’ultimo volume degli Atti di governo.

Fin da ora sarà da lodare altamente il lavoro della curatrice, per le precise note, per l’utilissimo glossario e soprattutto per l’impegnativa Nota al testo che ricostruisce, con notevoli novità, l’attività del Beccaria e documenta il suo interesse per la scienza economica: attività finora poco conosciuta e calcolata rispetto a quella giuridica e che cosí costituisce un vero contributo al tema specifico e ad una parte cosí rilevante della attività del Beccaria come collaboratore originale e autorevole del governo austriaco della Lombardia nell’epoca delle riforme illuministiche. Insieme la nota della Canetta, rispetto alle precedenti edizioni degli scritti economici del Beccaria, intende chiarire la sua nuova prospettiva legata all’«ambizione di rendere nota tutta la produzione giunta fino a noi di soggetto economico e sociale originata dall’attività di Beccaria come uomo di governo»; «per questo i documenti qui pubblicati comprendono sia le relazioni piú ampie e sistematiche, sia i “piú brevi responsi”, ossia anche le poche righe che Beccaria annotava su una pratica, per predisporne l’evasione». Infine, sempre nel fascicolo allegato al volume dei testi, sarà da valutare molto positivamente l’accuratissima, esauriente bibliografia che Luigi Firpo, animatore di questa nuova edizione critica beccariana, ha voluto aggiungere come suo contributo direttamente personale ad una edizione che «intende porre riparo» a un dimostrato (proprio nella bibliografia e nella sua scarsa consistenza di voci) «vuoto di attenzione e di impegno», e cosí, con la stessa enorme mole di documenti ritrovati e raccolti, «sgombrerà definitivamente l’orizzonte culturale dell’immagine di un Beccaria indolente, disamorato, per restituirci quella di un economista riformatore, che quotidianamente riflette e agisce al servizio di uno Stato (che era pur la sua patria) e del progresso civile».

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 93°, serie VII, n. 1-2, gennaio-agosto 1989.

Daniela Predieri, Bosco Parrasio: un giardino per l’Arcadia, Mucchi, Modena, 1990, pp. 122.

Utile anche per le illustrazioni del Bosco Parrasio, nitidamente scritto e ricco di pertinenti notizie e ipotesi sulle precedenti sedi degli Arcadi e poi soprattutto sul giardino-teatro sul Gianicolo (su Via Garibaldi), tuttora adibito per la cerimonia di chiusura dell’anno accademico dell’Arcadia e opera geniale (e congeniale alle funzioni di recita teatrale delle poesie arcadiche) dell’architetto Antonio Canevari (e non De Sanctis cui è stato a lungo attribuito).

La storia dell’Arcadia e dei suoi significati letterari è acutamente ripercorsa dalla giovane studiosa dell’arte moderna nella stessa struttura di giardino-teatro del Bosco Parrasio del Canevari (con riferimenti architettonici alla scalinata della Trinità dei Monti e alle forme arcadico-razionalistiche, o piú decisamente rococò come io ebbi a definirle, della Fontana di Trevi: ipotizza la collaborazione del Salvi all’opera arcadica del Canevari).

Il volumetto si inserisce degnamente nell’elegante collana dell’editore Mucchi «Il Vaglio» curata da Mario Saccenti.

«La Rassegna della letteratura italiana», a. 94°, serie VII, n. 3, settembre-dicembre 1990.